Foto Pixabay

Un dolore dolce

Nadia Terranova

La vita sognata e vissuta di due sorelle dai legami spezzati, e una scrittrice esperta di malinconia

Due sorelle, Donko e Guriko, sono rimaste orfane da bambine e da allora hanno vissuto prima con una coppia di zii e poi col nonno; infine, definitivamente sole, hanno continuato a essere l’una la famiglia dell’altra facendo della propria solitudine e stranezza un lavoro: con lo pseudonimo “le sorelle Donguri” (in giapponese significa ghianda, oltre a essere l’unione delle iniziali dei due nomi) hanno aperto un sito internet attraverso il quale rispondono a messaggi di persone bisognose di confidenze. Protetti dallo schermo e dalla gabbia di un limite massimo di caratteri di battitura, gli sconosciuti spalancano finestre sui loro dolori personali, mentre Donko e Guriko, dietro l’anonimato, sanno offrire parole di conforto che si nutrono direttamente della loro storia.

 

I genitori di Donko e Guriko erano persone semplici e buone ma con una loro bizzarria e precisi valori, e anche il nonno, in apparenza misantropo, ha riversato su entrambe un affetto obliquo ma solido, roccioso, così che non fa molta differenza che Donko sia piena di energia e cambi un innamorato dopo l’altro, convinta che una coppia sia felice solo nei primi tempi, mentre Guriko, che è anche la voce narrante, sembri disinteressata alle relazioni e preferisca starsene in casa, visitata da visioni oniriche più reali della realtà: tutte e due hanno ereditato intelligenza e riflessività dai famigliari perduti. Ma quando una certa Yasumi scrive che, a un anno dalla morte del marito in un incidente, non fa altro che piangere, incatenata ai ricordi e impossibilitata a trovare sollievo, nella mente di Guriko si accende qualcosa: quella lettera le ricorda Mugi, il suo primo amore, risalente ai tempi della scuola, e si convince che sia lui il compagno della donna. Da quel momento Guriko non avrà pace finché non avrà riparato quel suo legame spezzato: scrive a una vecchia compagna di classe per avere notizie di Mugi e infine sente il bisogno di partire per raggiungere l’ultimo posto in cui è stato.

 

In questa novella piena di delicatezza e profondità, pubblicata da Feltrinelli nella traduzione di Gala Maria Follaco e corredata dalle foto di Chikashi Suzuki, Banana Yoshimoto utilizza tutti i mezzi della sua letteratura. Ci sono sogni che fanno parte della vita e dentro i quali i personaggi trovano soluzioni, perché la dimensione onirica non è diversa da quella diurna, anzi ne è il prosieguo, e le notti sono il buio dentro il quale si può avere un’illuminazione, portata da un defunto o da qualcuno che non abbiamo mai visto. Ci sono giornate riempite dal profumo di brodo di pollo e ginseng e chiuse da veloci camminate verso il supermercato, la libreria, uno Starbucks; ci sono le piccole abitudini e i ricordi maestosi, che unici si stagliano nella mente per indicare ciò che siamo stati e forse saremo, come quando Donko si allontana sotto la neve, lasciando la sorella sola.

A Banana Yoshimoto basta un’unica scena per dirci del senso di abbandono che si nasconde dentro l’animo di Guriko, che ne porta memoria: altri scrittori avrebbero sentito il bisogno di esplicitarlo ma lei no, lei ha fiducia nel lettore, un’ostinata fiducia.

 

Un corpo pieno di cicatrici

A volte si vorrebbe vivere dentro i suoi romanzi e le sue novelle, dove tutto il dolore del mondo si rivela in un’infinita malinconia ma è accompagnato da una luce, forse sognata eppure così persistente, che riesce a farlo sembrare riparabile. Come in tanti suoi libri, ricorre anche qui una frattura da risanare che risale all’infanzia o all’adolescenza: anzi le fratture sono multiple, come se la vita si fosse accanita a privare le sorelle Donguri di tutti i punti fermi. Ma nelle storie di Banana Yoshimoto le amputazioni non incattiviscono, le perdite e i lutti non rendono l’uomo più aggressivo o strafottente, piuttosto la voragine si fa a poco a poco più lieve. Chi sopravvive lo fa dentro un corpo che sa tornare al passato con i sensi e con la mente, un corpo pieno di cicatrici, e per sentire di nuovo quanto male hanno fatto, al tempo in cui erano ferite aperte, basta un niente: l’odore di certi fiori, una voce, il vento, una fotografia, un dolore estraneo che entra nella nostra vita fra le righe di una donna sconosciuta.

Di più su questi argomenti: