Foto via Pixnio

I miei confini

Giusi Marchetta*

Se arriva l’apocalisse, io mi metterò tra vostro figlio e l’apocalisse. Ma la paura è vostra

Vengono a parlarmi del figlio. Dovrebbe essere il contrario, in realtà: io col registro elettronico davanti, loro dall’altra parte della cattedra, su una sedia che a una certa ora una bidella insisterà per togliere perché, troppo comodi, non facciamo mezzanotte con questi colloqui. Dovrei essere io a parlare per prima, spiegando che sarà dura, ma che la promozione non è un miraggio. Invece sono loro a raccontarmi tutto: della nonna malata, del lavoro perso, di un ragazzino che si è buttato da un ponte per bullismo e allora sono preoccupati.

  

All’inizio, quando succedeva, io provavo a portare subito il discorso sulla grammatica, ma negli ultimi tempi non lo faccio più: sono venuti per questo.

  

Come d’abitudine parte la difesa d’ufficio: c’è sempre qualcosa che loro stessi, la scuola o l’intera società non hanno fatto come si dovrebbe e quell’insufficienza è colpa di tutti tranne che del figlio. A seguire, la contrattazione: il sei è un bene che io tengo in ostaggio e che cederò se troveranno le parole giuste. Mi parlano, quindi, di volta in volta, come se fossi il confessore o un nemico da aggirare o da abbattere. Letteralmente, magari. Mi chiedo se pensano mai che qualche mese fa in America l’ennesimo squilibrato ha ucciso una professoressa mentre lei si metteva tra le pallottole e i suoi studenti. Io ci penso.

  

Deve essere il mio giorno fortunato, però, perché mi accorgo che sono già passati a un tono conciliante. “Eppure lo vediamo sui libri tutti i giorni” stanno dicendo. “Abbiamo fatto insieme gli schemi dell’Asia. Colorato tutte le bandiere”.

  

Penso a tutto quel colore sprecato e a questa sconosciuta versione di me, una sadica che colleziona bandiere. In questo momento, mentre l’arringa va scemando, nel silenzio improvviso dell’uno o dell’altro, io avverto la paura che li accompagna dappertutto. E’ un feroce timore che il mondo possa far male al figlio come se fosse una persona qualunque. Hanno sentito in tv di ragazzini palestinesi saltati per aria e visto le costole di quelli africani, incontrato più volte il solito piccolo rom che chiede l’elemosina qui davanti; eppure la possibilità che il figlio possa soffrire anche per poco è intollerabile.

  

“Siamo tutti dalla stessa parte, qui” dico, perché tocca a me. Ma loro non mi credono. Questo noi che riecheggia nell’aula da quando sono entrati non mi ha mai incluso e non mi riguarda. L’assenza del figlio nell’aula mi ha ingannato; in qualche modo lui è sempre presente. Alle loro spalle il suo banco vuoto viene occupato dal profilo perfetto di un adolescente biondo con un quaderno di geografia impeccabile aperto davanti. Ovunque siano e in qualunque momento, lui c’è. A guardarli bene, si intravedono ancora le persone che erano prima che lui nascesse; poi però hanno conosciuto il primo pianto, la prima febbre alta, il terrore che non spiccicasse parola e la gioia di sentirla finalmente, completa e quasi comprensibile. Col tempo, con la sua debolezza e la sua forza invincibile, il figlio ha cancellato i confini naturali del loro corpo e li ha divorati entrambi.

  

Per questo adesso dicono esausti: “Possiamo impegnarci di più” e “Deve darci il tempo di ripassare i verbi e il fascismo e poi possiamo farci interrogare”.

  

Io li ascolto e intanto penso ai confini del mio corpo che sono marcati e non lasciano passare niente. Un’idiosincrasia diventata una scelta che pure non nega mai la scelta opposta, quella di espandere la propria presenza nel mondo facendo un figlio. Al contrario, mi sento aggredita ogni volta, quando questo mancato alla maternità viene accolto con un sorriso condiscendente e un: “Cambierai idea” pronunciato come un augurio. Non lo è.

  

Ho molto rispetto per la preoccupazione che leggo negli occhi dei genitori che vengono a parlarmi dei figli; negli anni ho imparato ad ascoltarla e a rendermi sempre più disponibile, se posso, ad aiutarli a vincerla. Non voglio condividerla, però. Neanche in cambio della gioia e dell’amore che si porta dietro.

  

“Ma quindi lo fa recuperare? Restiamo così?”.  

   

Farò recuperare vostro figlio, penso. E se non ha capito può chiedere. Questa cattedra è solo legno: non mi impedisce di andargli vicino a ricordargli i passaggi dell’analisi logica. E poi mi prenderò una pallottola se serve. Non voglio farlo e spero che non succeda, ma se arrivasse un’apocalisse, io sentirei il dovere di mettermi tra vostro figlio e l’apocalisse. Il patto è questo, dunque: che mi prenda cura di lui ma a distanza, lasciando tra noi il giusto spazio che mi faccia sentire completa, indipendente da ogni decimo di febbre e ogni colpo di tosse e che mi permetta di aiutarlo a rialzarsi senza sentirmi ferita ogni volta che cade.

  

Penso alla mia amica in viaggio verso la Nigeria per prendere i bambini che la sorte le ha affidato. Immagino il suo profilo che si espande, piano piano abbraccia il Mediterraneo e le spiagge dell’Africa.

  

Stringo la mano a entrambi. “Restiamo così”.

  

*In libreria con "Dove sei stata” (Rizzoli)

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