La copertina del libro “L’estate del ’78”, Roberto Alajmo (Sellerio)

L'estate del '78

Nadia Terranova

Il vento che ci attraversa e il precipizio. Quando il treno non parte mai, ma ci spezza il cuore

“E’ difficile stabilire il momento in cui si prende commiato da una persona. I momenti sfumano, si susseguono, sfuggono al controllo che cerchiamo di esercitare su di essi. Certe volte non lo sai, ed è l’ultima volta. Altre volte pensi che sia l’ultima, e non è l’ultima per niente. Come in certi addii alla stazione, quando il treno sembra sul punto di partire e non parte mai. Si tratta allora di tenere alta la commozione a tempo indeterminato, e dopo un po’ vorresti che il maledetto treno si sbrigasse, fermo restando il dispiacere del distacco dalla persona amata”.

  

C’è tutto il senso del bellissimo libro di Roberto Alajmo, L’estate del ’78, appena pubblicato per Sellerio in queste prime pagine che mettono a fuoco un fotogramma che fa da abbrivio: luglio 1978, la maturità, gli amici, il caldo di Palermo, la voglia di mangiare un gelato, passare a cambiarsi a casa, indossare una maglietta e un paio di ciabatte che significano libertà, anche solo per un pomeriggio, e valgono una breve deviazione. Trenta metri lungo la solita strada verso casa, una strada che non riserva sorprese. Invece la sorpresa si chiama Elena, seduta sul marciapiede, appesantita, la mano a riparare gli occhi dal sole. “Avevo voglia di vedervi”, dice, sottintendendo Roberto e suo fratello. Elena è la madre, la moglie di Vittorio (i due genitori vengono chiamati per nome non per confidenza, ma per la distanza necessaria alla letteratura se la materia è intima e infuocata). Roberto prova allora imbarazzo di fronte a una madre andata via due anni prima, nel 1976, quando lei e Vittorio hanno deciso di separarsi. L’attimo in cui la commozione va tenuta alta finché il treno non parte – ecco, quell’attimo Alajmo lo dilata per tutte e centosettanta le pagine, dalla visione di Elena nell’estate del 1978 all’addio al suo corpo nel novembre dello stesso anno, un cadavere trovato carponi sul pavimento della sua nuova casa, la luce accesa, un illeggibile biglietto di addio. Elena aveva un nuovo uomo che la amava e a cui manca ancora, Elena era ostaggio di ricoveri, di polsi fasciati, di quella parola terrificante: “elettroshock”. Elena prendeva lo Spasmo Oberon, un medicinale che creava una dipendenza tale che dopo ogni “mai più” ritornavano i blister nel gabinetto e non andavano via neppure tirando lo sciacquone: velenosa metafora della malattia. “Molte donne italiane, negli anni Settanta, cominciano a prendere lo Spasmo Oberon e non riescono a smettere, non smettono più. Nel giro d’un paio d’anni le case italiane si riempiono di madri di famiglia rincoglionite e tossicodipendenti, ma nessuno lo sa”.

  

Le fotografie mostrano una donna sensuale, snella ma con le forme giuste, dal sorriso aperto; le parole narrano un corpo che si è a poco a poco sformato, uno sguardo che si è spento, una vitalità tramortita, un talento artistico arrestato. Andando a ritroso si rintraccia una gioia giovane, dissipata con la vita familiare; quanta esattezza e quanto coraggio servono a un figlio che di quella vita è parte attiva, per collocare anche sé nel quadro di un precipizio. Tutto inizia con il fidanzamento fra Elena e Vittorio, “un amore dal quale fa un bell’effetto pensare di essere concepiti”; dalle lettere traspaiono allusioni, come sapevano essere allegri i nostri genitori prima di noi, prima di dover essere responsabili non più solo di sé e della propria gioventù ma di una bolla chiamata famiglia. Come sapevano scherzare, parlare di sesso, chiamarlo “zigt zigt” e mandarsi a salutare “Pilipicco e Pilipicca”, accennare a tradimenti auto-sabotati, alla frenesia di rivedersi. Poi, invece, altre lettere, altri destinatari, altri toni e contenuti: “Voglio che tutti sappiano CHE HO SCELTO IO IL MOMENTO” scrive Elena, che ormai sentiva di non riusciva più a scegliere niente e subiva tutto, anche l’amore. Elena, morta a quarantadue anni, forse va raccontata ad Arturo, il figlio di Roberto che vive un’età in cui la gioventù coincide con l’immortalità, un’epoca in cui se succede un attentato a Parigi, e tu sei a Parigi, tuo padre può contattarti attraverso Facebook. In un’altra epoca, su un altro pianeta, Elena sola a casa appuntava sulla rubrica, sotto la lettera T, un numero che oggi a molti non dirà niente, quello del Telefono Amico.

  

Il momento più emozionante del racconto è datato 31 ottobre, quando Roberto sente con esattezza un vento che lo attraversa, è con la fidanzata dell’epoca e deve mettersi a sedere, tanto è il mancamento. Confermerà il referto medico che è stato allora che Elena, sola dentro casa sua, ha smesso di esistere. Così in copertina una madre e un figlio si sorridono, legati in eterno, a introdurre il racconto di chi, fra i due, per età è stato costretto a superare l’altra.

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