Illustrazione di Roberto Hikimi Blefari

Meglio l'uovo o la gallina? Dopo il furto del telefono, ho la risposta

Annalena Benini

Il bambino che voleva sferrare il suo Grande Pugno Vendicatore e il laghetto di lacrime

Quando, affranta, sono entrata in casa correndo, dicendo che un ragazzo mi aveva rubato il telefono dalla tasca del cappotto, mio figlio ha buttato per terra i suoi giochi elettronici e ha urlato: uau, che fortuna!

 

Io non ero molto bendisposta nei confronti dell’umanità, dovevo bloccare la sim, soffrire, comprare un altro telefono, soffrire, attivare il nuovo telefono dopo avere tanto amato il mio, era la vigilia di Natale quindi la sofferenza era moltiplicata diciamo per centocinquantamila, ed erano già passati almeno quindici minuti senza il mio telefono tutto pieno della mia vita, quindi ho urlato di rimando che non era divertente, era il contrario della fortuna, e che i tre membri della famiglia intesi come esseri umani potevano rivolgermi la parola solo se erano in grado di aiutarmi a risolvere l’emergenza, a ritrovare il mio telefono, sennò era molto meglio il silenzio, e anzi ho aggiunto, come diceva mia nonna: un silenzio di tomba. Mio figlio è diventato tutto rosso e si è messo a piangere. Ho detto che era anche vietato piangere, che solo io potevo piangere, che nessuno in questa casa poteva piangere mai più. Ma lui continuava a piangere, sempre più forte, e il cane se sente un bambino piangere si mette ad abbaiare, e a mio marito improvvisamente, davanti a una partita di calcio in tivù, si è paralizzata metà faccia, infiammazione del trigemino o qualcosa del genere, quindi anche lui aveva diritto a lamentarsi, non ero l’unica disgraziata e mi dispiaceva molto. Mio figlio continuando a piangere ha spiegato, fra le lacrime che gli uscivano dagli occhi e dal naso e forse anche dalle maniche della camicia perché c’era una specie di laghetto sotto di lui, che per lui era una fortuna, perché se fosse stato lì con me avrebbe potuto finalmente sferrare il Grande Pugno. Il pugno dei suoi sogni, il pugno che desiderava tantissimo sferrare a un bullo, ma se non trovava un bullo andava benissimo un ladro. Il Grande Pugno per cui tutta la scuola avrebbe parlato di lui, il Grande Pugno Vendicatore con cui un bambino di otto anni salvava il telefono di sua madre dal ladro di tasche di madri cretine e fiduciose. Per un attimo mi sono cullata in quell’immagine: il ladro con la mascherina sugli occhi che infila la mano nella tasca e mio figlio che si ingigantisce, diventa alto come lui e gli tira un cazzotto che lo stende e mi riconsegna il telefono tra gli applausi della strada e dei negozianti pachistani, ma la realtà ha preso il sopravvento, il trigemino anche, e la realtà è che un tizio ben vestito e sorridente mi si è avvicinato mentre entravo nel portone di casa mia, in pienissimo giorno, carica di sacchetti e di pensieri natalizi, e in un italiano traballante ma sfacciato mi ha chiesto se lì c’era l’hotel. Ho risposto che no, non c’era l’hotel, però una specie di affittacamere al primo piano sì. Allora è entrato con me, e io avevo questo telefono che spuntava dalla tasca e gridava: rubami, e pensavo solo al brodo per i cappelletti: il novantotto per cento del mio cervello era occupato dal brodo, dallo sforzo di non dimenticarmi l’alloro, e solo il due per cento diceva: ma perché quest’uomo mi sta appiccicato al cappotto? Così, quando è uscito dal palazzo dicendo: ah no, non è l’hotel, ho provato sollievo e ho dedicato il cento per cento del cervello al brodo, alla gallina che chissà se aveva le uova dentro come lo scorso Natale. E quando ho sentito bussare al portone, ho pensato: sarà di nuovo lui, il tizio dell’albergo, non gli apro perché non sono mica scema, anche in piena vigilia di Natale conservo una lucidità, una prontezza e una capacità di prevenire i pericoli.

 

Cinque minuti dopo ho ridisceso precipitosamente le scale per cercare il mio telefono sparito, sono uscita dal portone con la faccia da telefono sparito e il negoziante pachistano che mi fa sempre lo sconto si è dato uno schiaffo sulla fronte: io ho bussato, mi ha detto, ho bussato tanto, ma tu non mi hai sentito! Volevo dirti che quel ragazzo è entrato senza un telefono in mano ed è uscito con un telefono in mano.

 

A quel punto ho mentito. Derubata e bugiarda. Gli ho detto che non avevo sentito, che probabilmente ero già in ascensore, che lo ringraziavo molto e che ero disperata. Mi ha detto: è andato di là, tutto tranquillo, camminava piano, vuoi che andiamo a cercarlo? Totalmente sconfitta e senza carne per il brodo ho detto: no no, grazie, non me la sento, e sono tornata a casa a litigare con tutta la famiglia.

 

Ho bloccato la sim, preteso da mia figlia il suo telefono, quindi ho fatto piangere anche lei con un laghetto intorno alle scarpe, mi sono pentita e le ho restituito il telefono dopo trenta secondi, sono uscita a comprarne un altro ma soprattutto a comprare la carne per il brodo, manzo, pollo, ossi, e la gallina questa volta era senza uova dentro: che cosa poteva significare? Ho detto al macellaio di via Merulana, sconsolata: niente uova quest’anno, e lui: ma che se ne fa delle uova, l’essenziale è la gallina. L’essenziale è la gallina, l’essenziale è la gallina, ho ripetuto in motorino fino a casa, e non ci ho pensato più. Mi dispiace solo che mio figlio non abbia potuto sferrare il suo Grande Pugno Vendicatore, e anche un po’ di non avere avuto il coraggio di inseguire il ladro con il mio amico pachistano, che però mi ha regalato una bottiglia grande di Coca-Cola. Per il resto, davvero, l’essenziale è la gallina.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.