foto via Flickr di Lucie Provencher

Una nuova vita

Anna Mittone*

“Mamma, devi andare a casa”. Adesso tutto è cambiato e mia figlia mi manca, però sono felice

All’inizio era lo zainetto con il pigiama e lo spazzolino da denti per andare a dormire dall’amica del cuore. Poi ci sono stati la borsa con i costumi, le magliette e i pantaloncini per la settimana al mare con i nonni, lo zaino con il sacco a pelo e le felpe per il campeggio con i compagni di classe, il trolley che scoppiava di vestiti, trucchi e scarpe con il tacco per la settimana a Barcellona con le amiche del liceo, finché all’improvviso, molto più in fretta di quanto mi aspettassi, in ingresso si sono materializzate due valigie enormi e un borsone e questa volta la partenza di mia figlia non è per un viaggio ma per l’università, un’università distante parecchie centinaia di chilometri. Un’altra vita.

 

“Questa sarà sempre casa tua”, le ho detto mentre ricontrollavamo per la centesima volta armadi e cassetti della sua stanza per essere sicure di non dimenticare niente, ed era vero e insensato allo stesso tempo, sapevamo entrambe, io forse più di lei, che con il passare del tempo quella casa sarebbe stata sua nel ricordo più che nei fatti, sarebbe tornata per qualche compleanno, Natale, un breve passaggio durante le vacanze estive e poi sempre di meno, fino a che sarebbe diventata nient’altro che la casa dell’infanzia, la prima delle tante case della sua vita.

 

Le due valigie enormi, il borsone (e diverse altre borse, buste e zainetti) le abbiamo trascinate insieme su e giù per aerei, treni, pullman e taxi fino alla sua stanza nel campus dove decine di altre mamme con il mio stesso magone travestito da entusiasmo aiutavano i figli a sistemare vestiti e biancheria, libri e adattatori di prese multiple ed era fin troppo evidente che tutte traccheggiavamo più del necessario spulciando liste di cose da fare e da comprare già tutte fatte e comprate per ritardare il momento del saluto definitivo. “Buona vita” ho sentito sussurrare a una mamma mentre abbracciava il figlio, un cristone di quasi due metri con il fisico da giocatore di rugby, e un secondo dopo correva giù per le scale per non farsi vedere piangere. Che brava, ho pensato. Che coraggio. Adesso tocca a me. Buona vita. Buona fortuna. Ciao, bambina mia. E invece mi è uscito un “Andiamo a vedere dov’è la mensa?”.

 

“Io vado a vedere dov’è la mensa. Tu devi tornare a casa”, mi ha risposto mia figlia con lo sguardo adulto, triste ma deciso, di chi sa che è difficile, ma quando arriva il momento di salutarsi bisogna salutarsi. Qualcuno doveva farlo e l’ha fatto lei.

 

Dal finestrino del taxi l’ho guardata avviarsi in quel luogo sconosciuto pieno di gente sconosciuta, avevo il cuore stretto per la tenerezza e la malinconia e non so dire se in quel momento a sentirsi più sola era lei o ero io.

 

Per tutto il viaggio di ritorno mi sono sentita solissima. E anche per molti giorni a venire. Non più musica a tutto volume, nessun adolescente stravaccato sul divano a sbriciolare biscotti monopolizzando il telecomando per ore, nessuna spesa da fare, nessun vestito abbandonato per terra di cui lamentarsi. Per giorni ho tenuto la sveglia inutilmente puntata alle sette del mattino prima di rendermi conto che non era più necessario, non dovevo più svegliarla per la scuola. La domenica mattina, spinta dalla forza dell’abitudine, ho continuato ad affacciarmi nella sua stanza per controllare che fosse nel letto sana e salva e, non vedendola, ho sperimentato istanti di puro terrore e, subito dopo, d’incredibile sollievo. Finché una domenica sono rimasta a crogiolarmi nel letto sentendo che quel basso continuo di pensieri e ansie che mi accompagnava dal giorno in cui è nata si stava allontanando tanto che quasi non lo sentivo più.

 

So che mi preoccuperò per lei ogni giorno fino alla fine dei miei giorni, ma di una preoccupazione sempre più distante e sfumata, diluita dalla distanza e dalla maggiore età, dal principio di autodeterminazione e della libera scelta, una preoccupazione che col tempo diventerà sempre più superflua e pusillanime, fino al giorno in cui sarà lei a preoccuparsi per me.

 

E intanto la sua stanza è in ordine come non lo è mai stata. Posso pulirla finalmente come si deve. Magari far imbiancare le pareti, metterci un divano letto e farla diventare il mio studio, tutt’a un tratto mi ricordo della mamma di un’amica dei miei anni del liceo che, mentre studiavamo per l’esame di maturità, entrava in camera della figlia metro alla mano perché quella sarebbe diventata la sua nuova sala da pranzo e aveva visto un tavolo che era una meraviglia.

 

Più tardi quella domenica mi è arrivato su Whatsapp un selfie di mia figlia al campus con un gruppetto di ragazze. Ridevano con quell’aria spensierata e leggera che solo i giovani. Sotto c’era scritto “mi manchi mamma”. E so per certo che è vero, perché l’assenza non dev’essere per forza malinconia e disperazione. Anche lei mi manca, eppure sono felice.

 

*Anna Mittone è sceneggiatrice e scrittrice

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