Illustrazione di Roberto Hikimi Blefari

Cara Annalena, sta arrivando Vita. Cara Chiara, e allora mambo

Chiara Gamberale racconta la maternità, il mistero e la bellezza di dire: eccoci, io e te

Roma, 23 ottobre, 2017, 7:15 AM

Cara Annalena, da quarant’anni quello che mi piace fare di più è giocare a mamma-e-figlio e fare la mamma. Con le storie dei miei libri, con le persone a cui tengo, con gli amori, anche con i miei genitori a volte: io gioco ad accudirli e loro a farsi accudire. Succede che però fra un mese mamma lo diventerò davvero: finora, quando giocavo, potevo contare sul fatto che, se non mi andava più, potevo cambiare storia o stile a un libro, potevo chiedere a chi giocava con me di prenderci una pausa, mentre stavolta no. Non potrò mai smettere di giocare. E questo mi riempie di uno stupore tutto nuovo e di paure talmente antiche che mi ero dimenticata di avere.
Quindi? Adesso? C.

 


  

Roma, 23 ottobre 2017, 7:34 AM

Cara Chiara, quando mi hai scritto quel messaggio: “E’ solo che sono incinta”, otto mesi fa, io non potevo telefonarti subito perché ero seduta dietro un enorme tavolo intarsiato e stavo parlando a un incontro con il pubblico di fronte. Mi si è illuminato il telefono: ho letto di nascosto e da quel momento ho solo aspettato di scappare via. Non ti ho mai detto, perché da lì in poi la vita ci ha rincorso, che era un incontro su genitori e figli, le regole, i confini del desiderio e della paura. Era proprio da te: con due parole avevi travolto tutte le teorie e i tavoli intarsiati. Quei discorsi sono diventati subito vecchi e impolverati, e ho capito la frase di Calvino: “Nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione: invece fanno di tutto per far credere il contrario”. Stavamo discutendo di quanto sia difficile codificare la nuova maternità e il tuo messaggio, adesso, la tua vita, tuo figlio, provocavano milioni di pensieri e contemporaneamente se li scrollavano di dosso. E’ quel che fanno i romanzi più belli, è quel che fa la vita quando spalanca la porta. Tu sei una scrittrice, anzi sei due scrittrici, come ha spiegato Walter Siti nella prefazione a La zona cieca, il tuo romanzo che amo di più: lo sai che è così. Sei due scrittrici e hai due cuori dentro, certo che hai paura. Ma adesso scegli tu chi vuoi essere, Chiara o Lidia della Zona cieca, una scrittrice oppure l’altra, anzi tutte e quattro, prendetevi per mano: raccontami ancora un po’. A.

  


  

Roma, 29 ottobre 2017, 6:40 AM

Cara Annalena mi sarebbe piaciuto tanto ascoltare il tuo intervento a quell’incontro…Ti ricordi? Proprio su queste pagine, tempo fa, ho scritto a proposito del non fare figli, quando tu li vuoi ma loro non arrivano: a parlare, fra le due scrittrici che racconta Walter Siti, era senza dubbio quella grave, che si arrovella su ferite insanabili. Cinque mesi dopo sono rimasta incinta. Mia figlia si chiamerà Vita anche per questo, perché per una volta io non ho controllato niente ma ha fatto tutto lei, la vita, e poi perché Vito, mio padre. Fatto sta che, dal giorno in cui ho scoperto di aspettarla e ti ho mandato quel messaggio, ogni volta che provo a elaborare un pensiero o una strategia per accogliere tutto quello che arriverà, non riesco mai a portare a termine un solo pensiero, una sola strategia: sono solo rincoglionita di mistero. Come il mio alter ego letterario Lidia Frezzani si ritrova a essere quando ne La Zona Cieca incontra Lorenzo Ferri, l’unica persona capace di raggiungerla “lì, dove fino a quel momento faceva sempre freddo”. Lidia è una “persona-figlio”, destinata a conoscere la capacità di abbandonarsi solo attraverso l’innamoramento e alla soglia dei quarant’anni credevo che anch’io avrei potuto solo immaginare il mistero di aspettare e avere un figlio: invece adesso ho questa pancia enorme e una bambina che non sta mai ferma e che pare avere deciso di arrivare anche prima del previsto. Perché quando la vita tocca a te, almeno fino all’ottavo mese di gravidanza come sono io, di parole su cui fare affidamento non ne hai più. E i personaggi che ho inventato finora mi vengono in soccorso ognuno a modo suo, sì, ma c’è un punto in cui si fermano tutti. E’ esattamente lì che cominciano le gioie nuove che ti dicevo e le paure antiche. Quindi magari me lo puoi raccontare tu come si fa a giocare a mamma-e-figlio senza la possibilità di smetterla quando ci pare. Lo fai da undici anni e ogni volta che sono stata a casa tua, davvero o leggendo questa rubrica, mi è sembrato che fosse il gioco più complesso, ma anche più naturale del mondo. Dove hai imparato le regole? C.

 


   

Roma, 5 novembre, 11:57 PM

Cara Chiara, nel tuo pezzo parlavi degli ideali che non ti abbracciano. Dicevi che le persone con figli non possono capire le persone senza figli, costrette a tutti quegli ideali che non li abbracciano, che non dicono mai: mamma. La prima parola che ha detto mia figlia non è stata mamma, è stata: mambo. Un po’ mamma e un po’ babbo, un po’ ballare, un po’ boh. Lo diceva di tutto e mi metteva allegria: lei si era già adattata all’imperfezione delle nostre vite, alla mia sbadataggine e ai pomeriggi sempre troppo corti. Tu adesso aspetti Vita, la senti che si muove, hai dormito in mezzo ai lavori in corso per preparare la sua stanza, disinfetti tutto, incontri con ostinazione una serie di possibili Mary Poppins sperando che loro sappiano, sempre, che cosa è giusto fare e dire, io non vorrei deluderti, ma so che l’hai capito: si viene al mondo in un casino assurdo e si continua così per molto tempo, se si è fortunati per sempre. Ho letto una biografia di James Matthew Barrie, il creatore di Peter Pan, e non sapevo che avesse scritto, oltre all’Isola che non c’è, anche il Libro che non c’è, fatto di storie di fantasmi, fotografie dei cinque fratellini a cui dedicò la sua vita e la sua arte, ricordi di sua madre, presenze fugaci e storie sognate, scheletri, pirati, febbri malariche. Barrie fece stampare il libro in due sole copie molto eleganti, con una copertina rossa e rigida. Una è stata lasciata su un treno dal vero padre di quei bambini, l’altra sta ancora nella biblioteca di Yale e Peter, il quarto dei fratellini, che allora aveva solo quattro anni, scrisse la prefazione a questo libro elegante. Sedici capitoli fino a un conclusivo e importantissimo: “Consigli ai genitori per educare i loro figli”. Sono soltanto pagine bianche, non ci sono consigli, non ci sono certezze, non ci sono le cose buone e quelle cattive. C’è solo l’infanzia, il mondo che ancora contiene moltissimi di noi. Tu, che hai creato anche, nelle Luci nelle case degli altri, Mandorla, la bambina cresciuta dalle cinque famiglie di un palazzo di Roma, lo sai che non serve a niente controllare tutto. Lo dico per consolare me, e per fare coraggio a te. Questo mi sembra un bell’ideale che ci abbraccia, con e senza pancia (e intanto siamo arrivati al nono mese: fai le prove con la carrozzina in giro per il nostro quartiere, non sei mai stanca e hai preparato un album con le foto e le lettere degli amici per Vita, ma hai lasciato anche tu le pagine bianche?). A.

 


 

Roma, 7 novembre, 6:12 AM

Annalena mia, arriva proprio dove ne ho bisogno questo abbraccio. E mi fa all’improvviso mettere a fuoco uno dei motivi per cui ogni venerdì aspetto di leggerti e di entrare a casa vostra: per tutto quel casino che più esplode e più dimostra di funzionare, per quell’incessabile mambo. Ricordo quando, circa un anno fa, un sabato pomeriggio sono passata a trovarti. Mattia doveva seguire per lavoro una manifestazione, i bambini giocavano in camera loro. Noi parlavamo, parlavamo e arrivavano le sette, le otto. Distrattamente a un certo punto hai guardato l’ora, si erano fatte le nove, hai scritto a Mattia per chiedergli se portava a casa quattro pizze, lui ha risposto ma no dai, sto tornando, fatevi trovare giù e andiamo in pizzeria. Hai chiamato i bambini, gli hai fatto mettere le scarpe, Giulio non si è voluto cambiare i pantaloni del pigiama e tu ridevi, fatto sta che siete scesi e vi ho visti allontanarvi verso la pizzeria tutti e quattro, con Fix al guinzaglio che trotterellava senza tirare, come invece il mio cane Tolep (che non a caso ha il nome di uno stabilizzatore per l’umore) fa a prescindere. Niente era stato organizzato: tutto funzionava, appunto. Una meraviglia per chi come me è cresciuta con una madre che, per l’ansia che da sempre la divora, la mattina mentre facevamo colazione metteva a bollire il sugo preconfezionato e preparava la pasta che avremmo mangiato la sera, riscaldata, anche se sarebbe tornata dal lavoro alle quattro, mica a mezzanotte. E adesso che diventare madre tocca a me, leggendo questa tua lettera mi accorgo che l’ansia di contrastare quell’ansia per non trasmetterla a Vita è comunque un’ansia: e non a caso fra tutti gli infiniti pensieri in cui ogni giorno rischio di perdermi, in otto mesi solo uno mi ha dato una specie di pace. Non riguardava le misure per il fasciatoio della cameretta, non riguardava la tata che mi affiancherà, perché il padre di Vita vive a Milano, mentre io rimarrò qui, a Roma, nel nostro quartiere. Ma è arrivato un giorno mentre facevo la doccia ed è stato: sai che c’è, piccoletta? Lasciamo che arrivi e ce lo inventeremo insieme, quello che ci aspetta. E da quel momento il mio sforzo quotidiano è tornare a quel pensiero più che posso. Perché tanto la vita, come dici tu, avrà sempre più fantasia di noi: e il nome di mia figlia spero che le ricordi soprattutto questo. Dovrebbe ricordarlo anche a me, ma in questi mesi a volte è così difficile rimanere aggrappata alla pancia che cresce anziché alla testa che s’ingombra…E forse c’entra un po’ anche Barrie, sai? Perché ricordi quando, alla fine di  Peter e Wendy, Peter Pan torna a bussare alla finestra della sua amica? Sono passati vent’anni ma, siccome lui è Peter Pan, non se ne rende conto, gli sembra che siano passati pochi minuti. E quando si accorge che nel frattempo Wendy si è sposata e lei gli indica la culla dove dorme la sua bambina, lui prima tira fuori la spada, poi crolla in ginocchio e in un pianto a dirotto. E allora Barrie scrive che “un tempo Wendy avrebbe saputo come consolarlo: ma era soltanto una donna, ora”. Insomma: chi lo sa? Mi chiedo. Se avere un figlio a quarant’anni, per chi neanche si è accorto di averne compiuti trenta, impegnato com’era a spartire con i fantasmi la sua eterna adolescenza, metta a tu per tu anche con questa necessità: realizzare di essere solo un uomo, solo una donna, solo  quell’uomo,  quella donna. E smetterla di rimpiangere tutte le altre possibilità, per permettere a chi arriva di giocarci, perché adesso tocca a lei, tocca a lui. Riempire le pagine bianche, partire per l’Isola che non c’è, tornare, ripartire, ballare oppure boh.  Oppure mambo. Tua, C.

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