(foto via Pixabay)

Due lingue dentro

Lisa Ginzburg

Mia figlia ride di me quando pronuncio il francese, e io ho capito che nessuno è di nessuno

"Si possono avere due lingue materne? Io, mamma, sento di averne due".

 

Siamo a cena, la domanda mi trafigge. “No tesoro, non si può”, rispondo d’istinto. Il lieve disagio diffuso che mi assale subito dopo, qualcosa a metà tra l’imbarazzo e il dispiacere, mi dice però che ho mentito. Forse invece è possibile, sono io che non posso capire.

 

La prima stranezza di essere genitore di figli bilingui, sta proprio lì: si assiste e si accompagna un’esperienza che non si è provata in prima persona. Cosa puoi saperne, di quel che si prova e che accade nel cervello, a passare di continuo da una lingua a un’altra? Impossibile immaginarla, l’azione di quel continuo “switchare” tra due universi, due registri, due veri e propri mondi. Se figurarsi i processi mentali del bilinguismo è impossibile, i suoi effetti (su noi genitori) sono invece lampanti. Scarto tra sé e i figli; saper sorridere al loro riprenderci su pronuncia e uso del vocabolario della lingua che per metà è la loro – certo non la nostra. Lunghi fine settimana d’inverno passati in casa, sotto l’assedio delle correzioni non più soltanto dei figli bilingui, anche dei loro amici monolingui, ospiti parlanti l’idioma per noi straniero, e che ora insieme ai nostri figli sghignazzano dei nostri strafalcioni e cattive pronunce. Facendoci sentire così ridicoli, e impacciati, e tremendamente soli.

 

Della ricchezza e della “specialità” che avere in testa due lingue comporta, un ragazzino è ben cosciente. Diversamente da altre caratteristiche “strane”, il bilinguismo penso mai possa generare un complesso. Se si vive in terra straniera, permette una complicità tra genitori e figli che “a casa” sarebbe impensabile. Rafforza l’esclusività del legame. E genera libertà: quella per esempio, in una fila alle casse di un supermercato, di commentare la bellezza o bruttezza degli astanti – o il semplice piacere di non farsi capire mentre si chiacchiera in pubblico. Da genitore, sei orgoglioso perché hai letto molti articoli sui benefici del bilinguismo sul quoziente d’intelligenza. Ma ancora da genitore, sei pure molto spaesato, perché quella differenza biografica dai tuoi figli senti che è importante, non certo cosa da poco. Tu le lingue hai cominciato a balbettarle da adolescente o poco più, loro nel plurilinguismo ci sono nati, ci sguazzano, la polifonia è stata e continua a essere una sorta di liquido amniotico. La cosa segna tra voi una frattura che non intacca in niente il legame (casomai lo rafforza), ma lo stesso spaesa i genitori. Perché la non-conoscenza genera un’ammirazione intimidita dall’inesperienza. E perché quel dettaglio biografico, quella diversità di percorso un genitore teme disegni un diverso destino, più difficile, per i suoi figli. Un futuro arricchito di lingue, magari più ampio, ma anche più fitto di incognite.

 

Mi conforto rileggendo Luba Jurgenson, scrittrice russa e poi francese che al bilinguismo ha dedicato un libro bellissimo (Au lieu du péril, Verdier, 2014). Lei ne parla come di un rifugio: “Sin quando sarò a caccia dell’andare e venire dei nomi, fintantoché catturerò il loro glissare da un mondo all’altro, io non potrò cadere”. E’ nel passaggio tra le lingue l’immortalità delle parole e l’equilibrio del bilingue, dice Luba Jurgenson. Lasciare che dentro di sé parlino due lingue non soltanto è vitale: anche salvifico. Permette di mantenere in marcia due tempi interni simultanei. Elemento più decisivo ancora, libera la mente dallo schema simbiotico tra gli oggetti e i loro nomi: “Sapere che i nomi non sono incollati alle cose, ma altro non fanno che sorvolarle, comporta un particolare sapere sull’arbitrario, sulla contingenza di tutto quanto esiste, compresa l’origine. Il velo è tolto sul mistero della nascita”.

 

Libera dal sortilegio della simbiosi, il bilinguismo, dunque. Chissà che i figli bilingui non conoscano anche questa diversità, sconcertante agli occhi (alle orecchie soprattutto) dei loro genitori, quanto liberatoria per entrambi. Insegna che nessuno è di nessuno. Non le cose dei nomi che le definiscono, poiché sempre vi saranno altre parole di altre lingue a definirle diversamente. Non le persone di altre persone, foss’anche quelle che le hanno messe al mondo. Invece ciascuno è di se stesso, e delle lingue – reali o immaginarie – che gli risuonano nella testa.

 

Luba Jurgenson, nata a Mosca, è emigrata a Parigi nel 1975, a sedici anni. Scrittrice, traduttrice, insegnante di Letteratura russa alla Sorbonne, con Au lieu du Péril, pubblicato da Verdier nel 2014, ha raccontato che cosa significa avere due lingue dentro, e ha vinto il premio Valery-Larbaud.

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