"La Rotonda dei bagni Palmieri", Giovanni Fattori (1866)

Bambini difficili

Elisa Casseri*

Ero il piedistallo di mia sorella e non smettevo mai di piangere. A Fiumaretta però ho vinto io

Mia sorella era nata d’estate, con un parto indolore e un piedino leggermente storto. Il suo regno era iniziato così, con l’acetabolo che non si era agganciato al femore e con la famiglia ridotta a corte di questa bambina stupenda, che aveva subito imparato a parlare benissimo e che era capace di farti fare qualsiasi cosa, con quelle gambette legate a centottanta gradi una dall’altra. “Non è che non ti volevamo”, dice sempre mia madre, “è che speravamo di imbarcarci con un altro figlio quando Olga fosse completamente guarita. Per questo fino ai tre mesi ho continuato a dirmi di non essere incinta: era chiaro che c’era qualcosa, ma io facevo finta di niente”.

 

A quel punto era inverno e Olga – poco più di un anno di età – aveva già incantato tutti i parenti, i vicini di casa, gli amici: l’acetabolo e il femore si facevano sempre più vicini e il suo potere non smetteva di aumentare. A primavera era ormai un’imperatrice: un giro di dadi e il fatto che la pancia di mia madre fosse enorme non era un problema, io potevo diventare il suo piedistallo. “Pensa che tutte le volte che mi mettevo Olga in braccio, l’apparecchio per forza di cose lo dovevo appoggiare in testa a te”.

 

Io arrivai ventritré mesi e una spicciolata di giorni dopo la nascita di mia sorella: era sempre estate, ma stavolta il travaglio fu tremendo e, anche se la manovra di Ortolani risultò negativa e i miei piedini erano ben allineati, i medici non riuscirono in alcun modo a farmi smettere di piangere. Piangevo così tanto che mi cacciarono dal nido in tempo record.

 

A casa, poi, continuai a piangere. Sono andata avanti a lacrime per sei mesi: piangevo tutte le notti. I miei vicini non ne potevano più. I miei nonni non ne potevano più. Nessuno ne poteva più. Olga, visto che l’acetabolo, il femore e il suo dominio sul mondo erano ormai totalmente saldi, decise di difendere i suoi possedimenti con ben due tentativi di knock out: uno per soffocamento e l’altro per asportazione di alluce con coltello. Fallirono entrambi.

 

“Con tuo padre, all’inizio, ci dicevamo che eri solo una bambina difficile, che se portavamo pazienza ti saresti ammorbidita: l’idea che tu me la stessi facendo pagare mi è venuta dopo”. Intanto, io non volevo che le persone mi toccassero, stavo sempre e solo con mia madre, non sorridevo e mi rifiutavo di andare all’asilo. Non avevo amici e non li desideravo. Appena mi era stato possibile, avevo picchiato un cacciavite in testa a mia sorella: mi faceva arrabbiare la leggerezza con cui si muoveva per il mondo, come se ci fossero i suoi carrarmatini su ogni territorio da conquistare. E poi, per colpa sua, d’estate dovevamo andare sempre a Fiumaretta perché il pediatra aveva detto che le serviva una spiaggia ghiaiosa per rinforzare le gambe – la sua anca aveva avuto una guarigione perfetta, perché non potevamo restarcene a casa nostra?

 

“Avevi quattro anni l’estate che ho capito che mi stavi facendo scontare il fatto che non ti avevo voluta”. Olga aveva fatto amicizia con tutta la spiaggia, sgambettava felice dentro e fuori la cucina del Bagno Venezia e un fotografo aveva perfino chiesto di portarla a Milano a fare delle pubblicità. “No, grazie”, aveva risposto mia madre, traumatizzata da Bellissima, il film di Visconti con Anna Magnani. Io stavo sempre da sola, sotto l’ombrellone, a guardare tutti con diffidenza.

 

Un giorno, il Bagno Venezia venne scosso dalla sparizione di due gemelli: erano saliti su un gommone e la corrente li aveva portati lontano, da qualche parte che dalla spiaggia non si riusciva a vedere. Il subbuglio era andato avanti per un paio d’ore, poi si venne a sapere che erano stati recuperati: il mare li aveva portati a parecchi chilometri da dove eravamo noi, ma erano salvi. A quel punto, mia madre aveva raccattato Olga per tornare a casa e, solo quando era arrivata sotto al nostro ombrellone, si era accorta che io non c’ero più. “Ero disperata. Ti ho chiamato per tutta la spiaggia, immaginando le cose più terribili, presa da ogni tipo di senso di colpa. Ormai piangevo quando ho visto un’ombra dietro una sdraio. Mi sono avvicinata ed eri tu, seduta a terra, in attesa di qualcosa. ‘Ma che stai facendo’, ti ho detto, ‘Hai idea di quanto mi hai fatto preoccupare?’. Ero pronta a darti uno schiaffo dalla paura, ma poi tu mi hai guardato seria e mi hai detto: ‘Volevo vedere che facevi se sparivo io. Volevo vedere se ti dispiaceva’”.

 

Potrei dire che abbiamo iniziato ad amarci quel giorno, che il mio regno è cominciato sotto una sdraio, in una spiaggia di Fiumaretta, all’imbrunire. Ma non è vero: in realtà, sul tabellone, avevo già tanti di quei carrarmatini che l’amore non c’entrava quasi più.

 

*scrittrice, redattrice di Nuovi Argomenti

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