Foto di Simone Tagliaferri (via Flickr)

Soli al mondo

Lisa Ginzburg

Mia madre non c’è più, e solo adesso riesco a ripensare a lei senza di me. A lei prima di me

Raccontare la vita di un genitore, senza dare alla sua figura quel ruolo di padre o di madre che ha svolto per noi; invece pensandola come traiettoria di un singolo individuo, liberato dai lacci dei legami familiari. Quasi sempre un atto creativo del genere diviene possibile solo quando il genitore non c’è più. Allora rifigurarsi la sua biografia, quell’esistenza che è all’origine del nostro concepimento, è un processo mentale che corrisponde a un gesto. Un gesto di rinascita. Ri-generarsi dando nuova genesi alla propria genesi. L’ho pensato leggendo il bel romanzo di Wanda Marasco, La compagnia delle anime finte (Neri Pozza). Un libro in cui la protagonista non solo dialoga con la madre defunta, ma imbastisce l’intero suo romanzo tenendo l’occhio puntato sul lungo antefatto della sua propria nascita. “È così ma’, che guardo il punto in cui hai iniettato in ogni figlio la fantasia di un mondo povero e l’insistenza della realtà. Non lo so se questa è la tua vera storia, ma sto imparando a costruirne una che ti somiglia”, dichiara alla madre la voce della narratrice, dolente e determinata insieme. La madre si fa così personaggio a sé, che la figlia osserva, e restituisce al lettore, non più da figlia, ma da romanziera. Insidie di diverso tenore vengono così aggirate, e tutte grazie alla letteratura. Lo scoglio della possibile simbiosi con la madre. E poi, a seguire, l’ostacolo di possibili proiezioni, mistificazioni, altre forme varie (e sempre limitanti) di immedesimazione. Con il trasformare i nostri genitori da persone-chiave della nostra vita, in personaggi, si attutisce il rischio che spazi di espressione di sé, di sana auto-legittimazione della propria personalità, vengano soffocati e impediti dalla troppo ingombrante presenza delle loro figure. Riscrivendone la vita, l’ingombro che esse possono rappresentare per noi, è se non risolto, mitigato.

 

Lo stesso pensare la biografia di una madre o un padre come tema estraneo a sé (con autonomia, dunque), ci fa sentire più soli al mondo. Uno psicoanalista argomenterebbe che è la possibilità di tale oggettivazione, la vera prova del progressivo elaborare il nostro lutto. Che nel momento in cui siamo capaci di ripensare, immaginare, narrare la storia di vita di un genitore, è allora che stiamo introiettando la sua funzione. Dopo tante traversìe, abbiamo imparato infine a proteggerci, a tutelarci, a esercitare un vero amor proprio nei nostri propri confronti: siamo diventati buone madri e buoni padri di noi stessi. In senso non troppo diverso, un punto di vista di “psicogenealogia” della creazione letteraria sosterrebbe che è proprio quando la funzione genitoriale è stata così introiettata, che un narratore diviene per davvero capace di articolare il suo universo romanzesco, e in grado di dare piena forma alla propria fantasia. Come a dire: il “fanciullino” non ha genitori alle spalle. È solo.

 

Vi è un nesso, tra il sentirsi orfani e l’affinarsi della nostra sensibilità al punto da farci riconsiderare il passato di chi ci è intimo e vicino tanto da rendere possibile il romanzare la sua storia. Le perdite, i lutti, assumono allora i medesimi connotati di un battesimo. “Da figli”, narrare è stato più difficile; ora, con il rendere personaggi i nostri genitori, è come dessimo a noi stessi un nuovo nome, e nuove dimensioni al nostro raccontare. Se uno scrittore conosce il privilegio di potere celarsi dietro le sue proprie parole, e così mimetizzandosi, di reinventare se stesso, perché ciò accada, la storia di vita di chi lo ha concepito in qualche maniera lui, lo scrittore, deve averla metabolizzata. Non necessariamente attraverso il lutto: anche grazie all’effetto di altre forme di presa di distanza. Quel che conta, è che la genesi del proprio venire al mondo incontri trasfigurazione nelle sue storie, nei suoi libri. Che le figure dei suoi genitori, quella donna e quell’uomo i quali per anni e anni hanno invaso i ragionamenti, i conflitti, le passioni del suo crescere e diventare persona, autonoma, ricca della pienezza di una maturità conquistata, ora nella sua mente volteggino anche come personaggi. Interiormente vicinissimi, ma in modo tutto nuovo, perché mediato dalla creazione.

 

“Scrivere è tornare a casa”, secondo un noto adagio Anna Maria Ortese dichiarò in una conversazione con Dario Bellezza. Già. Come vero è il contrario. Che scrivere implica il lasciare la casa – casa nel senso di origine. Con coraggio, sciolti i vincoli della filiazione genetica, avventurandoci verso nuovi territori, paesaggi, scenari. Sempre la stessa, la provvida maledizione. Scrittori: creature le quali orfane, private e sole al mondo devono sentirsi, perché la loro creatività dispieghi per davvero le sue ali.

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