Foto di freegreatpicture.com

Tra disincanto e speranza, il figlio unico pensa ai fratelli che non ha avuto

Lisa Ginzburg

Né con voi né senza di voi

Per ludico onere di madre, mi è toccato andare a vedere “Baby Boss”, un film che io ho trovato orrendo ma che sta sbancando i botteghini. Parla di un perfido bambino artificiale (si nasconde in lui il più manipolatore e mafioso degli adulti) che come un avvoltoio irrompe in una famiglia, infrangendo i sogni felici di un altro bambino, sino a quel momento beatamente figlio unico. Mano a mano, tra il bimbo vero e l’altro, l’impostore, scatta una inaspettata solidarietà, sino che il vero (più grande) non scopre, partito il piccolo (quello falso) di provare di lui un’acuta nostalgia. Happy end, ricongiungimento del piccolo ora diventato autentico (cioè buono, frignone, e senza più traccia di calcolo o sotterfugio maturo). Sola qualità stilistica della trama, nel corso della storia l’ostilità si trasforma in alleanza, senza che la nota dominante (molto aggressiva) del film cambi di segno. Forse un larvato invito alla procreazione in tempi di penuria di nascite? Avere dei fratellini o sorelline è una gioia bambini, sappiatelo. Questo, sebbene declinato in un contesto dove il sopruso parrebbe sano costume, il messaggio.

E’ proprio vero?

Sono una secondogenita, e credo sarei in grado di scrivere un trattatello sulle caratteristiche della mia categoria, con annesse le molte e variegate differenze dai figli maggiori. Ma ultimamente, più dello scarto maggiore/minore, mi accade di osservare cosa contraddistingue chi ha fratelli o/e sorelle, rispetto a chi invece nasce sotto la stella dell’unicità.

 

Già, i figli unici. Bambini (e poi adolescenti, e di seguito adulti), diversissimi da quelli che unici non sono. Spesso più riservati, taciturni, timidi. Non hanno conosciuto l’obbligo di contrapporsi o differenziarsi da nessuno (nessun pari). Mancando un terzo, o quarto, o quinto incomodo, i loro rapporti con i genitori sono stati più frontali, esclusivi. Di solito, persone maggiormente capaci di autonomia, ovvero di trascorrere del tempo da sole, là dove a chi coabiti con uno o più fratelli o/e sorelle, trovarsi a giocare e poi a vivere per proprio conto può risultare difficile o strano. Generalmente un po’ malinconici, gli unici. Perché ben prima di conflitti, prevaricazioni, invidie e gelosie, a mancare loro è la compagnia, per quanto turbolenta essa possa risultare. Perché mancherà loro da grandi il regalo (magari dopo avere litigato tutta la vita) di trovare nuove sintonie con i loro fratelli o/e sorelle – un tardivo comprendersi e rispettarsi e sostenersi, sopportando insieme, con solidarietà, l’invecchiare dei genitori, e dopo il dolore per la loro perdita.

 

Malinconici ma anche solidi, spesso, i figli unici. Capaci di resilienze impensabili per chi unico non sia cresciuto. Perché poco avvezzi a condividere, in grado di reggere meglio situazioni impegnative – ostacoli interiori o esteriori anche molto ingombranti. Allenati sin da piccoli, gli unici, a “fare fronte”. Lucidi in virtù dell’avere compreso che soli si nasce e si vive, che nessuno mai potrà darti o toglierti ciò che in primo luogo devi essere tu solo a saper dare e togliere a te stesso. Ottimi presupposti per una sana indipendenza di giudizio. Ma anche, una precoce riduzione delle aspettative nei riguardi del mondo. Quasi un disincanto congenito, un realismo sviluppatosi ante litteram. Ai figli unici, l’esiguo margine di possibilità di reciproche intese è ben più chiaro. Li abita una “disillusione” che per chi impieghi buona parte della vita a modulare la propria personalità con (o contro) quella di fratelli o/e sorelle, arriva tardi, e solo a costo di clamorose rotture, tragiche separazioni, patti spezzati, inconsolabili amarezze davanti a comportamenti altrui.

 

Più corazzato, il figlio unico, contro i colpi bassi inferti dall’universo degli umani. Meno ingenuo, perché in partenza sfiduciato. Di solito poco competitivo, non avendo conosciuto da bambino la tensione costante del confronto. E tuttavia capace di brillanti “riuscite”, abituato come è a concentrarsi su se stesso, ascoltarsi, conoscersi, essere quel che si usa definire un individuo “centrato”. A dispetto del suo atavico disincanto circa possibili sintonie con il prossimo, più bisognoso però. A quei fratelli o/e sorelle che non ha avuto nell’infanzia, il figlio unico sempre pensa, con un rimpianto impregnato di nostalgia. E se sul mondo sa che non bisogna contare, lo stesso il mondo gli (le) manca, tremendamente, e lo cerca. A guidarlo, dirigendolo tra i meandri della vita, è la sua solitudine – un canto sommesso di cui a chi gli (le) voglia bene accadrà di sentire l’eco, vibrazione sottile, come una mite richiesta sussurrata. Magari al più presto si costruirà una famiglia sua, con figli che molto probabilmente non saranno unici. E senza farsi illusioni, in segreto continuerà a sentire fame di alleanze, unioni, sodalizi. Oscillando tra diffidenza e bisogno, disincanto e speranza. “Né con voi, né senza di voi”: così dentro di sé il figlio nato unico, continuerà a pensare agli altri.

Di più su questi argomenti: