(foto di Flickr)

Come fa a saperlo, che era la città preferita di sua madre?

Pierluigi Battista

Le vie misteriose di un mondo che rivive

Cara Annalena, io nemmeno sapevo che i colori corrispondessero a un numero, mia figlia invece lo sa e ha scelto il 174, qualcosa come il “rosso segnale opaco” mi dice Google, per dare un nome al laboratorio culturale che ha messo su con i suoi giovani amici appassionati di immagini e arti visive. Lei lo sa, perché l’informazione le è arrivata per vie misteriose da sua madre, che prediligeva quel numero-colore impiastricciandone le sedie per dare al manufatto finale un’impronta cromatica inconfondibile. Io però ho scoperto due cose. La prima è che a noi genitori oramai avvizziti piace tanto il borbottio su “quanto sono ignoranti ’sti ragazzi”, ma in realtà questi ragazzi sanno molte più cose di quanto ci piace immaginare quando deploriamo con aria saccente la decadenza del nostro tempo. E’ una vita che sentiamo parlare di morte dell’arte, di fine del romanzo, di tramonto dell’Occidente, di crisi della civiltà, di decadenza dei costumi e ora finalmente è arrivato il nostro turno: “Dura minga, non può durare”. Se però guardassimo le cose con meno rancore, avremmo delle sorprese.

Loro, i figli, fanno gli indolenti, ma conoscono mondi che noi nemmeno immaginiamo. Quando abbiamo portato nostra figlia al MoMa di New York, abbiamo scoperto che lei sapeva cose di Van Gogh che io ignoravo. Senza mai aver frequentato un’ora di botanica, sa tutto sugli alberi e mi fa domande trabocchetto tipo: perché nei cimiteri ci sono sempre i cipressi? Io non lo sapevo, lei sì e voi sopra i cinquant’anni certamente non lo sapete. Non ha neppure una vaga conoscenza della storia e della politica, e deve pur uccidere il padre, in compenso conosce dettagli formidabili della scienza dell’acustica, davvero. Non legge un giornale nemmeno sotto tortura, ma compra un sacco di libri su Kindle, senza dirmelo per non darmi soddisfazione. L’unico particolare che mi ha confessato è che compra libri in edizione cartacea se sono piccoli, ma se sono grossi e pesanti, allora va sul supporto elettronico perché così a letto legge più comodamente con la testa appoggiata al cuscino. Conosce la fauna marina alla perfezione senza aver mai visto da lontano un’aula di zoologia. Ha pure qualche infarinatura di statica delle costruzioni, di ingegneria, di farmacologia, di filosofia pre-aristotelica, persino di idraulica. Certo, se le chiedi più o meno in che secolo sarebbe scoppiata la Rivoluzione francese, la nebbia nella sua testa è impenetrabile, esattamente come la mia quando lei mi chiede qualcosa sul movimento delle maree.

 

 

E poi, ecco la seconda cosa sorprendente, conosce tante cose che appassionavano sua madre. Riconosce le sfumature dei colori, i segreti delle tecniche fotografiche prima della dittatura del digitale, il significato delle forme dei mobili, gli accostamenti cromatici, l’inclinazione giusta dei pennelli, la grafica delle riviste d’arredamento, il tipo di legno da usare sui bordi delle piscine in stile minimalista giapponese, l’arte del fumetto, del graphic-novel. Una trasmissione di conoscenze e di nozioni che certamente si è realizzata lungo vie misteriose, pre-verbali, attorno a quel nucleo di emozioni e di percezioni in cui si forma il gusto di una persona, il suo stile nello stare al mondo. E questo nucleo è forse l’eredità che resta, che non si disperde, che si articola in modo inconsapevole attorno a scelte che si ripetono magicamente senza un ordine esplicito, senza un suggerimento razionale. Mia figlia vuole conoscere Amsterdam, ma chi le avrà detto che Amsterdam era una delle città preferite di sua madre, la sua patria ideale, un misto di hippysmo libertario, di vita placida che scorre attraverso quel dedalo di canali, di arte meravigliosa, di musei, di biciclette, di dimensioni umane eppure proiettate in un’atmosfera metropolitana, aperta al mondo, cosmopolita? Ecco, come fa a saperlo, mia figlia? Un processo chimico di trasmissione stilistica che mi taglia fuori, che si concentra su settori della vita e dello scibile che mi sono estranei.

Eppure mi sembra strepitosa questa conoscenza che rivive malgrado tutto, che non si esaurisce, che continua. Senza di me, ma con lei che non c’è più e tuttavia c’è ancora. E la dovremmo smettere di dire “questi ragazzi non sanno niente, sono ignoranti come capre”. Lo diciamo perché siamo pigri, come era pigro mio padre quando non poteva accettare che io perdessi tempo a sfogliare Linus comprato ogni mese da mia sorella più grande, pensando che tutte quelle immagini a fumetti non fossero cultura, ma qualcosa di dozzinale. Siamo pigri perché non vogliamo ammettere che il baricentro mentale e morale in cui siamo cresciuti decenni fa si è spostato, che la nostra epoca si è chiusa per sempre e che se resta, si trasmette per vie misteriose, segrete, indecifrabili. E dobbiamo solo sperare che capiterà anche a noi dopo di noi. E questo un po’ consola, basta che smettiamo di borbottare sulla decadenza dei tempi. 

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