Franco Baresi (foto LaPresse)

Il patetico, meraviglioso amarcord di un tifoso milanista

Mirko Volpi

Certo, bisogna guardare al futuro. Ma immagino un Baresi seduto in tribuna di fronte a Fassone e a un cinese. E vorrei riportare le lancette indietro di vent’anni

Ci è andata male. Diciamo pure che è stata una bella sfiga. Avessimo giocato di domenica, forse avremmo potuto beneficiare di un qualche strano buco spazio-temporale. E invece ci è toccato l’anticipo del sabato, poco prima che si passasse all’ora legale (e qui il pigro rubrichista avrebbe tutto l’agio di esibirsi nelle più trite freddure – e invece no, perché siam gente di mondo e il ruolo di grillini del calcio lo lasciamo volentieri a quelli dell’altra squadra di Milano) e si tirassero indietro tutte le lancette di un’ora.

 

Perché magari quelle lancette avremmo potuto tirarle indietro di sei anni o di cinque, o giù di lì, quando ancora sapevamo cosa significasse vincere uno scudetto o schiumare rabbia per l’ormai mitologico “gol di Muntari”; o magari di dieci, di dodici, di quattordici, fidando nelle ricorrenze dispari e internazionali, e rivedere sul prato di San Siro quei divini atleti, allattati alle mammelle della dea Eupalla, di cui per pudore taccio i nomi.

 

Ma no. Troppo, troppo patetico l’amarcord. Urge l’oggi, e nel calcio più che mai. Mi concentro sui primi volenterosi minuti, sui piedi buoni che non mancano, sull’entusiasmo e la tenacia che un vero casciavitt non può non avere.

 

Poi però, aduggiato dai giri a vuoto di Biglia (un Montolivo con le mèches, praticamente), dalle evanescenze del pinzellone Kalinic, dalla persistente perforabilità dei centrali, dalla generale mediocirtà, ecco, vedo Franco Baresi in tribuna, seduto davanti a Fassone e a un cinese, e penso che le lancette potevamo pure tirarle indietro di vent’anni, al giorno esatto del suo addio che ricorreva sabato, e almeno farci venire il magone per qualcosa di più serio.

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