Manifesti elettorali per le presidenziali francesi

La grande paura del circo francese

Giuliano Ferrara

Tra le vittime di una eventualità da sballo (Le Pen-Mélenchon) ci sarebbe una cosa alla quale certi tra noi tengono molto: il futuro del pensiero critico

In Francia e altrove un po’ di sana paura comincia a serpeggiare, dopo la fiction interessante delle elezioni all’americana, primarie & dibattiti & sondaggi. C’erano una volta due partiti, nella V Repubblica, i gaullisti e i socialisti (Giscard d’Estaing fu un’eccezione centrista, ma nata nel seno delle istituzioni volute dal Generale per fare incontrare un uomo e il suo popolo, nell’epoca del gaullismo opulento e pacificato di Georges Pompidou). Ora sono lì in quattro a contendersi, domenica prossima, l’accesso al duello finale a due, e di questi quattro al vecchio mondo della stabilità politica tradizionale appartiene il solo Fillon, il candidato di Les Républicains che ha nelle ali il piombo di un piccolo scandalo personale dalle possibili grandi conseguenze collettive. Per il resto un partito nato nella scia di Vichy, dell’Oas in rivolta contro la decolonizzazione algerina, e nutrito di identitarismo e di nazionalismo antieuropeo, con una estrema complessione destrorsa (Le Pen); un rassemblement chiassoso e colorito tinto di bolivarismo che promette da sinistra soluzioni “ultralatine” come la cancellazione del debito nazionale, un prestito di 100 miliardi di euro non si sa da chi erogato e una tassa del 100 per cento sui redditi superiori ai 400.000 euro annui, oltre ovviamente all’uscita dalla Nato (Mélenchon); infine una formazione neoliberale giovane di un anno con un leader intelligente e ambizioso che punta sul patriottismo europeo e sulle riforme in un paese che ha spesso preferito rivoluzioni e bonapartismi alla banalità dei cambiamenti graduali (Macron).

 

A qualcuno vengono gli incubi. Lo spirito d’avventura incuriosisce e diverte, all’inizio sembra lo sfogo naturale del grande malessere da deindustrializzazione e stagnazione del mercato del lavoro, del grande dubbio identitario portato da immigrazione, terrorismo islamico e burocrazia elitaria di Bruxelles; poi però, clima di vigilia, l’avventura si profila fonte di inquietudine se non di allarme: e se alla fine fosse un confronto Le Pen contro Mélenchon? Una specie di Trump versus Sanders, come avverte il superelitario ambasciatore francese a Washington, l’elegante Gérard Arau? Se poi davvero, stanchi di soluzioni politiche con un minimo tasso di credibilità, stanchi dell’alternanza nel ceto di governo, gli elettori francesi decidessero di rovesciare il tavolo con l’alternativa di sistema? E’ il momento massimo di incertezza, come sempre quando certi esiti appaiono improbabili ma non impossibili, questione di pochi punti percentuali sondati al di sotto del margine di errore. Forse non sarebbe la fine del mondo, visto che la vittoria di Trump si è rivelata in poco tempo anche come la fine o un serio (bè, serio in questo caso non è la parola adatta) ridimensionamento del trumpismo, ma una prova piuttosto defatigante, questo sì, e non solo per l’economia e l’Europa.

 

Qui non si scherza con Grillo, Casaleggio e Di Battista, qui si scherza col fuoco. E tra le vittime illustri di una eventualità da sballo ci sarebbe una cosa alla quale certi tra noi tengono molto: il futuro del pensiero critico e indipendente che ha preso per sé la tribuna in un paese di forti conformismi gauchisti e di correttismi iperbanali. A parte trumpettari opportunisti, le persone serie in America hanno capito, anche quelle che criticavano obamismo ed elitismo da ideologia concentrazionaria stracorretta, che una certa virtù americana, incorporata nel sistema e nella sua forza profetica espressa nel secolo americano della guerra della democrazia moderna contro i totalitarismi e i cinismi del marciume demagogico, è stata messa in pericolo mortale dalla cavalcata dell’istrione televisivo. Dopo Trump, siamo tutti, o quasi tutti, più diffidenti verso le virtù della scorrettezza ideologica, dunque tutti più poveri di pensiero critico, schiacciati su un’opposizione che rischia di confondersi ogni giorno con il conformismo. Che guaio se frontismo lepenista e bolivarismo mélenchonista riproducessero in Europa lo schema da circo che ha devastato la politica e la cultura a Washington.

 

Gli intellos che non avevano consegnato all’ammasso il loro cervello, che si sono fatti definire néoreactionnaire dai soliti noti per aver denunciato i territori perduti della République a favore del comunitarismo islamico (Zemmour), per aver detto che Europa e perdita dell’identità culturale e antropologica di un popolo non devono coincidere, per aver con eloquenza parlato come Alain Finkielkraut di una identità infelice della Francia contemporanea, per aver raccontato la nascita della democrazia moderna come un’emancipazione non riuscita dalle strutture del religioso e del sacro (Gauchet), tutti questi gagliardi e spesso formidabili philosophes hanno l’aria di non sapere a che santo votarsi. Non hanno sostenuto e non sostengono Macron, eccessivo a loro modo di vedere in boboismo, in freddezza tecnocratica, in cosmopolitismo culturale; e lui non li ha politicamente cercati, anzi, ha dato adito alle reprimende dei censori dell’odio di sé e del pentimento ideologico in occidente, come Bruckner, quando ha detto che in Algeria furono compiuti “crimini contro l’umanità” e quando ha scandito, imprudente, che “esistono culture in Francia, non una cultura francese” (mammamia!). Nella Francia di Marine il pensiero critico potrebbe celebrare un rapido “io l’avevo detto”, visto che come sosteneva Gore Vidal “I told you so” sono le quattro parole più importanti della storia dell’umanità, ma alla fine la rivolta antifrontista prenderebbe una nuova e travolgente forza che spazza via tutto, et pour cause. Nella Francia di Mélenchon si vivrebbe in un sogno chavista, magari corretto dall’eleganza umanista di questo vecchio tribuno che ha l’aria di prenderci e prendersi anche un po’ in giro, chissà, ma un asse Parigi-Caracas non sembrerebbe l’ideale per i Lumi e i romanticismi dei néoreac. L’unico a sopravvivere, ma anche lui pagando un prezzo, sarebbe l’intellettuale che da sempre fa politica, e ci prova anche con l’appoggio deciso a Macron, cioè Daniel Cohn-Bendit, ebreo franco-tedesco della generazione 1968. Auguri a tutti in attesa del possibile considerato improbabile.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.