(foto LaPresse)

il bi e il ba

Tra verifiche e rimpasti, il politichese è tornato in grande spolvero

Guido Vitiello

Ci sono vari motivi per cui i politici utilizzano questo linguaggio: nessuno lo spiega meglio di Gianfranco Finaldi e Massimo Tosti

Tra verifiche, rimpasti, paletti e cabine di regia – lo notava ieri Mario Ajello – è tornato in grande spolvero il politichese. E con esso, per dirla in politichese, si è impennato lo spread tra la lingua del palazzo e la lingua comune, che oggi più che mai è fatta di vita, morte e malattia. Ma per capire il ritorno del politichese dopo l’interregno del “parla come mangi” – compreso grosso modo tra Funari che infila un tortellino in bocca a Occhetto e Salvini che s’ingozza da solo su Twitter, senza bisogno dell’aeroplanino – dobbiamo partire dalle ragioni del suo longevo successo. La sintesi migliore che conosca è tuttora la “Guida ai misteri e piaceri della politica” di Gianfranco Finaldi e Massimo Tosti, pubblicata da Sugar Editore & Co. nel 1973, ai tempi di Aldo Moro.

 

Perché i politici parlano in politichese, dunque? “I motivi principali sono: lo snobismo e il gusto di sentirsi in; il piacere di utilizzare una criptolingua per iniziati; il timore di mettere l’ascoltatore (l’opinione pubblica) di fronte a verità spiacevoli nella loro crudezza; la convinzione che cultura e nebulosità abbiano vaste zone di coincidenza; l’ineffabilità”. Mi pare ci sia tutto. Ma è la prima ragione, che riguarda la sociologia dei ceti dirigenti, la più illuminante sulla vera natura della falsa rivoluzione populista: “Mettetevi nei panni di quel tipico grimpeur sociale che è il politico di periferia. Un uomo venuto dal nulla che si trovi improvvisamente insediato nel ruolo di protagonista, spesso equipaggiato soltanto di una licenza liceale strappata a fatica, non resisterà alla tentazione di mostrarsi aggiornatissimo”. Devo proprio fare nomi e cognomi?

Di più su questi argomenti: