Quando i liberaldemocratici erano uniti

Guido Vitiello

Di quanti nel 1994 si dicevano così, alcuni hanno esasperato il principio democratico abbracciando un leader violentemente illiberale e pronto a far strame, in nome del popolo, dello stato di diritto; altri hanno messo l’accento sul principio liberale

    Ho letto ieri sul Foglio il plaidoyer di Michele Salvati per un partito liberaldemocratico di destra e mi sono ricordato del lontano 1994, l’anno in cui quel termine composto era diventato improvvisamente di moda, specie nel fermento di circoli, riviste e manifestazioni che accompagnarono la nascita di Forza Italia. Tutti, allora, si dicevano liberaldemocratici: sembrava così naturale tenere insieme quelle due metà! Poi – sono costretto a farla breve glissando su cento passaggi intermedi – negli anni del populismo qualcosa si è spezzato. Di quanti nel 1994 si dicevano liberaldemocratici, alcuni (la maggioranza, guidata dai cabotin della Fox retequattrista e della Breitbart insubre di Belpietro) hanno esasperato il principio democratico abbracciando un leader violentemente illiberale e pronto a far strame, in nome del popolo, dello stato di diritto; altri hanno messo l’accento sul principio liberale – in economia, nella giustizia, nelle istituzioni – affrontando con un inconfessato brivido la possibilità di elezioni anticipate in questo clima infame, a costo di far figura di elitari, tecnocrati o – come vuole lo spirito di patata dei parenti degeneri – “competenti”, tra virgolette sarcastiche. C’è modo di ricomporre la lite di famiglia? Ne dubito, specie dopo aver letto “Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti”, il bel saggio di Raffaele Alberto Ventura appena pubblicato da Einaudi. Che mi ha lasciato in preda a un dilemma decisamente meno allettante: moriremo di tecnocratura o di democratura?