Il Bi e il Ba

La Teoria della Squadretta, da D'Alema a Calenda

Guido Vitiello

Il leader di Azione si spazientisce perché i giornalisti preferiscono il chiacchiericcio ai temi concreti. Nulla di nuovo: quella vecchia teoria del lìder Maximo

Ieri ho visto Calenda e mi sono sentito vecchio. Suona controintuitivo, lo so (a molti fa l’effetto contrario), però provate a seguirmi. Il leader di Azione si è spazientito perché i suoi tentativi di parlare di cose concrete erano accolti da alzate di spalle dei giornalisti e dal ritorno al chiacchiericcio. Diceva: “Vi lamentate dell’inconsistenza della politica italiana, e quando uno prova a dare una risposta…”. Ecco, è qui che mi sono sentito vecchio.

 

Dicembre 1995, avevo vent’anni, e su Prima Comunicazione uscì una formidabile intervista di Lucia Annunziata a Massimo D’Alema, allora segretario del Pds. La si ricorda per una sola frase – i giornali è “segno di civiltà lasciarli in edicola” – ma in quelle pagine c’era un lussureggiante inventario delle tecniche attraverso cui la grande stampa stava creando in vitro la cattiva politica, con un disegno che a D’Alema appariva chiaro dodici anni prima della “Casta”: “la destrutturazione qualunquistica della democrazia politica”.

 

C’era per esempio la Teoria della Squadretta, che avrebbe meritato di ispirare qualche tesi di laurea: “Due mi tengono e uno mi mena. Due giornalisti ti fanno domande che non c’entrano niente con quello che hai fatto fino a due minuti prima, e sono quelli che ti tengono; il terzo ti fa la lezioncina, ed è quello che ti mena”. Questo terzo è il columnist, ma ti mena solo qualche giorno dopo, “quando arriva l’articoletto salace. Tipo: ‘Questa sinistra si occupa sempre di sciocchezze’”. Capito perché mi sono sentito più brizzolato del solito, davanti al povero Calenda? Gli stavano facendo la cara vecchia squadretta.

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