Altro che Montanelli. Non esistono statue che non siano divisive o inadeguate

Tra stile kitsch e controversie politiche

Manuel Orazi

Si può fare revisionismo storico imbrattando una statua? Si può porre un tema insultando una figura storica con uno striscione o con un post? Il caso della statua di Indro Montanelli a Milano sembrerebbe dimostrare che sì, è possibile, ma in realtà tutto questo andrebbe fatto scrivendo libri di storia, che però, una volta iniziati, conducono in un covo di rovelli inestricabili. Senza risalire a Battista Sforza, sposa quattordicenne di Federico da Montefeltro, o a Alessandro Manzoni, che sposò una sedicenne, più vicino a noi Giorgio Bocca, Amintore Fanfani, padre Agostino Gemelli, Romolo Murri, fra gli altri, aderirono al manifesto della razza. Il sostegno giovanile di Norberto Bobbio al fascio è accertato, quello di Giuseppe Ungaretti – firmatario del Manifesto degli intellettuali fascisti e accademico d’Italia – è lampante, il “conte rosso” Ranuccio Bianchi Bandinelli fece da guida a Adolf Hitler nella visita di stato ai monumenti di Firenze e Roma, Piero Calamandrei collaborò alla riforma dei codici penali e civili ottenendo il plauso di Mussolini, Dario Fo aderì a Salò: vernice rossa per tutti?

  

E’ noto che, specie nelle aree rurali del sud, i matrimoni fino a metà Novecento erano organizzati per procura e in età giovanissima, con l’intermediazione di ruffiani e sempre per accordo economico tra famiglie, previa contrattazione. Le lotte sindacali e civili del secolo breve, il suffragio universale, il femminismo, le battaglie per l’aborto e il divorzio hanno mutato radicalmente il quadro in occidente. Infine è arrivata la globalizzazione, condizione totalmente nuova, che fra i suoi inconvenienti ha appunto l’impasse a erigere statue. In una società multiculturale è impossibile infatti che tutti si riconoscano in una singola personalità, nessuno rappresenta tutti proprio perché le identità dei singoli si sono moltiplicate infinitamente.

  

Perciò qualsiasi nuova statua, al di là della decadenza della scultura figurativa, risulta inadeguata o kitsch, quando va bene. Prendiamo il caso di quella dedicata a Giovanni Paolo II di fronte alla Stazione Termini di Roma, rifatta due volte per proteste sul risultato, o quella tremenda di Luciano Pavarotti a Modena, seconda per bruttezza solo al “Montanelloide”, come Francesco Merlo definì nel 2006 la statua di via Palestro. Le meglio riuscite, si fa per dire, sono i multipli di San Pio da Pietrelcina, che solitamente incontriamo nei parcheggi degli ospedali.

 

Non è un caso che da trent’anni le statue hanno cominciato a scendere dai piedistalli, tanto ci stavano a disagio. La prima è stata quella del 1988 di Pessoa seduto a un tavolino del suo amato Cafe A Brasileira di Lisbona. In breve è stata imitata un po’ dappertutto. A Racalmuto Leonardo Sciascia sembra si sia perso a casa sua, a Napoli Totò invece che ridere, fa piangere, un anno fa a Livorno il sindaco pentastellato Filippo Nogarin ha messo una statua in vetroresina colorata di Bud Spencer nel porto, un’arte “dal basso” e “popolare” che, non potendo essere abbattuta a pugni, hanno tolto zitti zitti già a settembre. A Trieste ne hanno sparse tre negli anni (Svevo, Saba e Joyce) e se n’è aggiunta ora una quarta che l’amministrazione del sindaco Roberto Dipiazza ha voluto dedicare a Gabriele D’Annunzio lo scorso 12 settembre: “Tutte queste polemiche che ho sentito mi sembrano davvero incredibili”, riferendosi alla protesta ufficiale dell’ambasciata croata per l’inaugurazione avvenuta, guarda caso, nel centenario esatto dell’impresa di Fiume.

    

E’ insomma del tutto evidente la portata politica insita nell’atto di erigere un monumento o intitolare un luogo pubblico: tutti i monumenti dell’Italietta postunitaria avevano come bersaglio il Vaticano, vedi i capolavori di Ettore Ferrari, autore del Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, o di Girolamo Masini, artefice del Cola di Rienzo al Campidoglio. Prendiamo però un caso extra europeo per allargare il quadro: a Città del Messico negli anni 40 il più grande spazio pubblico venne ribattezzato Piazza delle Tre culture: indigena, spagnola e creola, nata cioè della fusione delle prime due, sebbene oggi nessuno possa più considerarsi puramente spagnolo o precolombiano. Il bello è che molti degli edifici rappresentativi della parte meticcia sono opera di un architetto figlio di immigrati italiani, Mario Pani. Naturalmente la minoranza di colore oggi protesta per la mancata rappresentazione, così come le associazioni Lgbt, ma solo nella regione del Chiapas ci sono almeno quaranta culture indigene che rivendicano una specificità, dunque anche quel complesso monumentale è a rischio. Nondimeno Roman Polanski, che come Woody Allen divide oggi più che mai, in “Chinatown” del 1975 fa dire a uno dei suoi personaggi che “i politici, i monumenti e le puttane diventano tutti rispettabili se durano abbastanza”.

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