(Foto Imagoeconomica)

Governare significa avere una visione. E Raggi per ora sta a zero

Massimo Solani

Dalle opere pubbliche alla progettazione urbanistica fino alla cultura. Parlano Emiliani, Berdini e Di Francia

Roma. E alla fine arrivò la ruspa, taumaturgica presenza in grado di nascondere sotto la polvere delle ville dei Casamonica abbattute il disastro di una città paralizzata, amministrata senza una visione o un progetto. Finito il giro delle sette chiese televisive e superate le colonne d’Ercole del processo che la vedeva imputata, sulla testa di Virginia Raggi pende però sempre lo stesso interrogativo: al netto degli annunci, delle trovate comunicative e delle polemiche, esiste una rotta tracciata per portare Roma fuori dalla palude in cui è finita o i cittadini della Capitale saranno costretti ad accontentarsi di altri due anni di piccolo e misero cabotaggio? “Il problema è che da tempo manca un progetto unitario per governare una città che in due secoli è cresciuta di quindici volte”.

 

Vittorio Emiliani nel suo ultimo libro “Roma Capitale malamata” ha provato a raccontarlo questo abbandono vecchio di duecento anni di cui oggi Virginia Raggi è conseguenza e al tempo stesso ultima causa. “Nel 1925 nella Capitale c’erano 431 chilometri di rotaie, oggi sono 40 – spiega – A Milano negli stessi anni erano 200, e tanti sono anche oggi. Roma è una città sempre più complessa che avrebbe bisogno di poteri speciali per essere governata, ma c’è qualcuno che la studia ancora per provare a capirne i cambiamenti e tracciare un progetto per governarli?”. “La realtà – continua – è che non abbiamo ancora capito cosa voglia fare la sindaca Raggi, quali progetti e visioni abbia la sua giunta. Prima erano contro la realizzazione del nuovo stadio della Roma poi a favore. Prima volevano bloccare la linea C della metropolitana, poi vogliono andare avanti. C’è uno scollamento fra il centro e le periferie, la città è depressa e spezzata e non c’è un’azione di governo cittadino in grado di rianimarla. Però bisogna conoscere la realtà – conclude – altrimenti non c’è niente che si possa fare. Prendiamo la piaga dell’illegalità abitativa turistica commerciale: è un’alluvione che questa giunta non sa come arginare mentre la classe imprenditoriale assiste al collasso della qualità dell’offerta ricettiva”.

 

Una fotografia non diversa da quella scattata anche da Paolo Berdini, che pure della giunta Raggi ha fatto parte per qualche mese prima di lasciare travolto dalle polemiche e dalle tensioni sul progetto del nuovo stadio della Roma. “Questa è una città ferma che non guarda al domani – spiega – L’urbanistica servirebbe proprio a questo, a guardare lontano e progettare, invece siamo sempre in affanno. Ci vorrebbero idee a lungo termine e invece continuiamo a vivere schiacciati sotto l’emergenza”. Un’azione di governo che, troppo spesso, sembra frutto di impreparazione quando non di scelte basate unicamente sull’immediato ritorno di immagine.

 

“La realtà è che nel Movimento non è mai esistita una vera progettualità – ammette Berdini – C’è solo un ‘imparaticcio’, per quanto in buona fede, che non porta ad alcuna vera comprensione delle complessità della realtà. Lo vediamo dai provvedimenti scritti male quando non totalmente sbagliati. Purtroppo questo apre un tema relativo alla selezione e alla formazione della classe dirigente: un movimento che non dibatte, che non si confronta su sensibilità diverse e si apre al dibattito è destinato ad avvitarsi su se stesso e a rinunciare a qualsiasi possibilità di visione di insieme e ragionamento sulle infinite potenzialità che pure questa città avrebbe. Perché resto convinto – conclude – che proprio da Roma si potrebbe innescare quella scintilla di vitalità che potrebbe portare a una rinascita nazionale”.

 

Eppure c’è stato un tempo recente in cui la Capitale ha vissuto quello che Gianni Borgna, compianto assessore alla Cultura delle giunte Rutelli e Veltroni, definì nel suo libro “Una città aperta” “il nuovo Rinascimento”. Sono passati pochi anni, ma parlando di cultura sembra un secolo. “L’impressione è che Roma stia vivendo una sorta di burocratizzazione della vita culturale. Eventi ci sono ma è come se fossero scollegati col resto del tessuto cittadino”, spiega Silvio Di Francia, che di Borgna raccolse testimone e assessorato, mentre oggi è assessore alla Cultura a Latina.

 

“Non si capirebbe l’importanza dell’Estate Romana di Renato Nicolini – dice – se non la si leggesse all’interno del progetto del sindaco Petroselli di portare le periferie in centro e ricucire il tessuto civile attraverso la riscoperta dei luoghi. Perché dietro la vivacità culturale si legge l’idea stessa di una città che sta dentro al flusso che accade, orgogliosa e consapevole di essere cosmopolita. Oggi purtroppo – prosegue – se guardiamo altre città europee come Londra, Parigi o Berlino ma addirittura Budapest e persino Milano non possiamo non notare quanto Roma sia ripiegata su se stessa. Manca una vera produzione culturale, che è cosa ben diversa dagli eventi culturali, e questa situazione è la cartina-tornasole di quanto e come la Capitale immagini o meno se stessa oggi e il suo modo di stare domani dentro al contemporaneo senza essere solo una città vetrina”.

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