X di Xylella. Un batterio da prendere sul serio, trattato invece con un eccesso di creduloneria

Storia della Xylella infame

Luciano Capone
Come se non bastasse il batterio che ammorba gli ulivi pugliesi, ci sono le bufale mediatiche. E poi superstizione popolare e giudiziaria a umiliare la verità scientifica.

Diffusione di malattia, guerra batteriologica, agromafie, introduzione di batterio costruito in laboratorio, la longa manus di una multinazionale degli Organismi geneticamente modificati (Ogm) e un misterioso convegno di scienziati in un istituto con immunità internazionale contro cui si schiantano le indagini della magistratura. E ancora, movimenti di protesta, appelli di artisti impegnati e della società civile, manifestazioni di piazza per fermare l’“olocausto degli ulivi”, i “partigiani degli ulivi” che fanno le ronde per guidare la “Resistenza” al piano di eradicazione delle piante malate deciso dalle istituzioni d’accordo con l’Europa e probabilmente in combutta con le “multinazionali”. E’ questo, tra la spy story e la teoria del complotto, lo stato del dibattito sull’“emergenza Xylella” in Salento, con il rischio che tutto degeneri in una riproposizione della manzoniana “Storia della colonna infame”, secondo la logica che “se c’è una peste, ci devono essere degli untori”.

 

Andiamo con ordine. Da qualche anno nella provincia di Lecce gli ulivi si ammalano, si seccano e poi muoiono, la colpa è del Complesso del disseccamento rapido dell’olivo (CoDiRo), patologia che ha una serie di concause tra le quali la principale è la Xylella fastidiosa, un temibile batterio finora assente in Europa che ha già fatto enormi danni negli Stati Uniti e in Sudamerica. La Xylella viene condotta da alcuni insetti-vettori nello xilema della pianta e provoca un’infezione che, ostruendo i vasi xilematici, impedisce alle sostanze nutritive di fluire verso le estremità, causando la morte della pianta. Al mondo non esiste una cura contro questo batterio, come ben sanno gli agricoltori californiani che da oltre 130 anni cercano di combattere senza grandi risultati la malattia di Pierce che colpisce la vite. Proprio per questa sua pericolosità e per il fatto che è capace di attaccare circa 300 specie diverse di piante, la Xylella è un patogeno da quarantena, inserito nella lista A1 dell’Eppo (European and mediterranean plant protection organization), che andrebbe eradicato per evitarne la diffusione in tutto il continente. Ciò vuol dire che, a prescindere dagli effetti che ha sugli ulivi, il batterio che è comparso per la prima volta in Europa è talmente pericoloso che va affrontato usando soluzioni di tipo emergenziale. Il commissario straordinario per l’emergenza, Giuseppe Silletti, con il sostegno di ricercatori e in linea con le direttive europee, ha predisposto un piano per evitare la diffusione della Xylella colpendo i vettori (gli insetti), isolando la zona infetta e, arriviamo al punto più criticato dagli ambientalisti, eradicando le piante malate a ridosso di un’ideale linea Maginot che dovrebbe difendere il resto dell’Italia e del continente dal contagio.

 

Ma come è arrivata la Xylella in Salento? L’ipotesi più probabile è che sia entrata trasportata da piante ornamentali provenienti dall’America Centrale, dove il batterio esiste: ogni anno ne vengono importate decine di milioni e vicino Gallipoli, la zona colpita, è attivo un comprensorio di vivaisti. Con la globalizzazione il mondo è diventato più piccolo e interconnesso, insieme a persone e merci si spostano anche virus, batteri e patogeni che prima erano sconosciuti in alcune aree geografiche, basti pensare a insetti letali come il punteruolo rosso delle palme o il cinipide del castagno comparsi negli ultimi tempi. Questa ipotesi, intuitivamente la più probabile, è suffragata da alcune controprove: dopo che in Europa sono stati rafforzati i controlli, negli ultimi mesi sono state intercettate oltre dieci partite di caffè contaminate dalla Xylella provenienti dall’America centrale e la caratterizzazione genetica del batterio presente in Salento dimostra che si tratta di un gemello del ceppo presente in Costa Rica. In Puglia gli ulivi sono circa 60 milioni e si tratta di una pianta che, oltre a essere un’importante risorsa economica, è un elemento fondamentale della storia, della cultura e del paesaggio pugliese. Ciò che rende la situazione ancora più pesante è il fatto che non ci sia una cura e che le soluzioni proposte, tra cui l’eradicazione di parte delle piante infette, oltre a essere violente nei confronti di alberi secolari e millenari che vengono conservati e tutelati come monumenti, non sono neppure risolutive. E’ in questa situazione di sconforto e disperazione che, come accade quando compare una peste, si diffondono le teorie del complotto e parte la caccia all’untore. A chi giova l’emergenza Xylella? Chi c’è dietro? Come fa un batterio ad arrivare da solo dall’altro lato del mondo? Chi l’ha portato e perché?

 

Le risposte a domande che di per sé non hanno senso sono in genere dello stesso livello, e spesso partono da coincidenze o fatti banali. Come accadde nel 1630 nella Milano colpita dalla peste raccontata da Manzoni, quando una “donnicciuola”, Caterina Rosa, vede dal suo balcone camminare in modo sospetto Guglielmo Piazza “che aveva una carta piegata al longo in mano, sopra la quale metteva su le mani, che pareva che scrivesse (…) che a luogo a luogo, tirava con le mani dietro al muro”. Piazza era un commissario di sanità che segnava su un foglio le case abbandonate nella città colpita dall’epidemia, ma negli occhi terrorizzati della popolana il calamaio parve un unguento pestifero e le mani sporche di inchiostro quelle di un untore. Alla testimonianza di Caterina Rosa si aggiunge quella di Ottavia Bono. Poi parte la denuncia, l’uomo viene arrestato e inizia uno dei processi più assurdi della storia che senza alcuna prova, con testimonianze contraddittorie e confessioni estorte con la tortura, porterà alla atroce condanna a morte di Piazza e del barbiere Gian Giacomo Mora, anch’egli accusato di essere un untore.

 

Nel caso della peste di Xylella, la popolana della situazione è l’associazione Spazi popolari che, con un esposto alla magistratura, segnala un evento sospetto, smentendo la ricostruzione ufficiale sostenuta da Cnr, Università di Bari, istituzioni regionali ed europee: la Xyella è entrata in Italia già dal 2010 ed è stata introdotta dall’Isituto agronomico mediterraneo (Iam) di Bari che nel 2010 ha ospitato un workshop sulla Xylella fastidiosa. Si tratta di un corso di formazione in cui i ricercatori di 22 paesi diversi hanno studiato come identificare e affrontare il batterio su campioni di viti infette da Xylella. Ma c’è un altro indizio che secondo Spazi popolari fa apparire la vicenda “strana”: uno degli esperti che hanno partecipato a quel corso, Rodrigo Almeida, aveva annunciato un “imminente” pericolo Xylella. “Come avrebbe fatto Almeida a sapere che la Xylella si sarebbe diffusa in Europa?”, si chiedono retoricamente i denuncianti, indicando alla magistratura dove scovare gli untori. “Un fatto altrettanto innocente, e altrettanto indifferente fu, si vede, quello che gli suggerì la persona e la favola”, scriveva Manzoni. E infatti la procura di Lecce apre un’inchiesta per “introduzione colposa di malattia della pianta”, in cui per ora non ci sono indagati, ma che tra le ipotesi investigative segue proprio la pista dello Iam di Bari.

 

Ricordando la caccia agli untori che si era manifestata in Europa ai tempi del colera, Manzoni scriveva che “al veder questa ferma persuasione, questa pazza paura d’un attentato chimerico”, le persone più istruite “non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più parte fecero quel che potevano per combatterla”. Ma ciò non accadde nella Milano del Seicento e neppure nel Salento del XXI secolo, in cui la “pazza paura d’un attentato chimerico” ha colpito anche le persone che dovrebbero essere dotate di maggiore senso critico. Sull’onda dell’indagine della magistratura leccese, il rapporto sui “crimini agroalimentari in Italia 2015” di Eurispes e Coldiretti, coordinato da Gian Carlo Caselli, dedica un capitolo allo “strano caso della Xylella fastidiosa”. Il presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara dice che in questa vicenda ci sono “tutti i presupposti di una guerra chimica o batteriologica” e lo stesso Caselli parla di “aspetti che potrebbero andare oltre la fatalità”. La procura di Lecce deve occuparsi di una “singolare circostanza”, dice Caselli, “perché i germi patogeni della Xylella (se davvero risultassero introdotti a Bari per fini sperimentali) non hanno colpito gli ulivi baresi ma invece quelli della zona di Gallipoli, a 200 km di distanza”. Altro che diffusione colposa, qui c’è proprio una regia. Bisogna salvare il “patrimonio naturale salentino pugliese”, dice Caselli, dagli “appetiti di coloro che ne vogliano fare un business senza etica, senza rispetto e senza anima. Come accade quando si smontano e si rimontano patrimoni, risorse e beni comuni con la logica del mercato e delle multinazionali”. Insomma, dietro l’emergenza Xylella si nasconde lo sfruttamento neoliberista e la mano dell’untore è quella invisibile del mercato. Seguendo questa linea di pensiero, la teoria del complotto si alimenta dei deliri di Sabina Guzzanti e Nandu Popu, il cantante dei Sud Sound System, che insieme ai Negramaro, Al Bano e altri artisti sono l’avanguardia della “Resistenza” al piano di eradicazione. Secondo la comica e il cantante, c’è un’altra pista: Monsanto. La temibile multinazionale degli Ogm avrebbe diffuso il batterio per distruggere gli ulivi pugliesi e sostituirli con ulivi ogm già pronti in Israele. La pistola fumante del complotto sarebbe nel nome di un laboratorio brasiliano della Monsanto che si chiama Alellyx, l’anagramma di Xylella: è un “batterio forse inventato dalle stesse multinazionali che offrono il rimedio”. La medesima accusa per cui fu condannato alla pena capitale il barbiere Gian Giacomo Mora, che “componeva e spacciava un unguento contro la peste”, diffondere il male per vendere i rimedi. Ma la società brasiliana acquisita dalla Monsanto si chiama Alellyx, l’anagramma di Xylella, proprio perché ha sequenziato il genoma del batterio. Nessun mistero. E inoltre gli ulivi ogm semplicemente non esistono, “verità che può parere sciocca per troppa evidenza – direbbe il Manzoni – ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate”.

 

Le teorie del complotto ormai dominano il dibattito pubblico. Gli studiosi, i ricercatori e chi si occupa di trovare soluzioni scientifiche e praticabili per arginare la diffusione del patogeno vanno e vengono dalla Procura, i media danno spazio ai complottisti, appaiono santoni che curano gli ulivi con pratiche omeopatiche e naturali, sui social network parte la mobilitazione #difendiamogliulivi con i selfie di attori, calciatori e cantanti, arrivano i primi ricorsi al Tar contro le eradicazioni. Paradossalmente gli stessi che accusavano le multinaizonali del complotto gridano in manifestazioni di piazza che la “Xylella è innocua”, che dietro l’emergenza c’è l’ennesima speculazione e che gli ulivi possono essere curati con i vecchi metodi di una volta: “I contadini ne sanno più degli scienziati”.

 

Nel frattempo le ipotesi sull’innocuità della Xyella e sulle “cure alternative” vengono escluse dall’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, e il timore del contagio si diffonde in tutta Europa molto più rapidamente del contagio stesso: la Francia blocca l’importazione dalla Puglia di 102 specie vegetali, un danno enorme per l’economia della regione. Dopo una discussione di due giorni, l’Europa, attraverso il Comitato per la salute delle piante, ha imposto rigide misure anti-Xylella: “Eradicazione e distruzione delle piante infette e di tutte quelle ospiti nel raggio di 100 metri” nel tarantino e nel brindisino, a differenza del leccese dove ormai è troppo tardi per eradicare il batterio. Inoltre l’Unione europea ha imposto il blocco delle importazioni di caffè da Honduras e Costa Rica e delle esportazioni dalla Puglia delle specie a rischio, come già fatto dalla Francia. Ma a differenza delle autorità europee, del Cnr, dello Iam, dell’università di Bari e del Servizio fitosanitario regionale, la procura di Lecce ha più volte messo in dubbio il legame della Xylella con il disseccamento degli ulivi e la necessità di effettuare le eradicazioni: “Ci sono state iniziative da parte di singoli agricoltori, diverse dall’espianto dell’albero e che hanno dato buoni risultati”, ha dichiarato il procuratore capo Cataldo Motta.

 

“Se bastassero le buone pratiche tradizionali – dice al Foglio Giovanni Martelli, professore emerito dell’Università di Bari e noto virologo vegetale – il problema sarebbe già risolto. Negli Stati Uniti hanno a che fare con la Xylella da 130 anni e non hanno trovato la soluzione. Come si può pensare che qui nel giro di qualche mese lo faccia un brillante agricoltore? Quelli che vogliono pensare che la Xylella non è la causa si consolino nelle loro illusioni, ci sono prove incontrovertibili ormai in tutto il mondo che la Xylella fa dei guai incredibili”. Ma più che con le parole dello scienziato, la procura sembra essere in linea con i movimenti: “Il fatto che gli alberi d’ulivo presentino segni di disseccamento e muoiano non vuol dire che questo fenomeno sia prodotto dalla Xylella”, ha dichiarato in un’intervista a Famiglia Cristiana il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone, titolare dell’inchiesta. Il magistrato inoltre lancia inquietanti ombre sul convegno dello Iam del 2010 citato nell’esposto degli ambientalisti: “Un fatto è certo: per motivi di studio è stata concessa una deroga al divieto di introdurre sul territorio italiano germi patogeni. Peccato però che li abbiano introdotti in un luogo nel quale io non posso andare a indagare” perché lo Iam “gode per legge di immunità assoluta. E questo è un caso pressoché unico nello scenario europeo e forse mondiale. Nessuna verifica contemporanea o postuma può essere effettuata da chicchessia sulla correttezza dei metodi usati nella sperimentazione”, dice sempre la Mignone. Circostanze ribadite anche dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta.

 

L’ipotesi investigativa suggerita da Spazi popolari e seguita dalla Procura viene definita senza mezzi termini dal prof. Martelli “una follia”. “In quel convegno è stato portato un ceppo che infetta la vite, che è diverso da quello che colpisce l’ulivo – dice al Foglio Martelli – Ma ammesso pure che sia lo stesso ceppo, questo batterio non viaggia nell’aria, ha bisogno di un vettore che lo prelevi in una pianta e lo porti su un’altra, ed è quindi impossibile che ciò possa accadere in un laboratorio. Ma ammesso che anche questo possa essere accaduto, l’insetto avrebbe portato il batterio sulle piante vicino Bari, non a 200 km di distanza. Questa ipotesi investigativa è in contrasto con i fatti e le evidenze”.

 

[**Video_box_2**]“E non paia strano di vedere un tribunale farsi seguace ed emulo d’una o di due donnicciole; giacché, quando s’è per la strada della passione, è naturale che i più ciechi guidino”, scriveva il Manzoni riferendosi ai giudici che seguivano con determinazione la pista indicata da Caterina Rosa e Ottavia Bono. Nei panni del barbiere Gian Giacomo Mora, accusato e poi condannato per aver diffuso la peste nel quartiere in cui viveva, ci sono quelli dello Iam: “Io sono pugliese, i miei colleghi sono tutti pugliesi, siamo figli di agricoltori e tutti abbiamo gli ulivi, noi vogliamo preservarli – dice al Foglio Franco Valentini, ricercatore dello Iam – Siamo affranti per gli ulivi pugliesi, noi facciamo ricerca e vorremmo trovare una soluzione, siamo già pochi a lavorare su questo problema con poche risorse e orari assurdi e tutta questa attenzione mediatica non ci sta facendo lavorare bene”. L’attenzione non è solo mediatica, ma anche giudiziaria, come vi difendete dall’ipotesi di essere gli untori? “Noi abbiamo importato tramite autorizzazione del ministero campioni isolati di Xylella fastidiosa di una subspecie diversa dalla subspecie pauca ritrovata in Salento – dice Valentini – Non è una nostra ipotesi, è facilmente verificabile sulle banche dati genetiche, tra l’altro i colleghi del Cnr effettuando il test di patogenicità hanno inoculato il batterio trovato in Salento su una pianta di vite e il batterio non si è propagato, come invece avrebbe dovuto la subspecie che avevamo importato”. E’ banale anche la risposta alla domanda della procura sul perché allo Iam facessero convegni e studi su un patogeno che non era presente in Europa: “Da oltre 30 anni ci occupiamo di patogeni da quarantena, virus, batteri e funghi – risponde Valentini – Qui studiamo quei batteri che potrebbero essere introdotti nel Mediterraneo e che potrebbero essere devastanti per le coltivazioni. Non è la dimostrazione della colpevolezza, noi lo facciamo di lavoro, studiamo proprio quei patogeni che non ci sono. Faccio un esempio: in Africa c’è l’ebola e in Italia abbiamo lo Spallanzani dove c’è qualcuno che studia quella malattia per essere preparati anche se non c’è sul nostro territorio. Da questo punto di vista quel corso è stato utilissimo per acquisire competenze, proprio perché ho fatto quel corso sono stato in grado dopo un mese di riconoscere il batterio. In Francia nel 2011 è stato intercettato del caffè infetto da Xylella e chi l’ha intercettato era una ricercatrice che aveva partecipato a quel corso”. Il procuratore di Lecce Cataldo Motta sostiene che “non è stato accertato” che si tratta di due subspecie diverse “perché mancano le indicazioni sulle caratteristiche genetiche di quel batterio” e non si può appurare la verità perché lo Iam gode di “extraterritorialità e immunità”. Sul mistero dell’“immunità assoluta” lo Iam risponde che deriva dal fatto che si tratta di una organizzazione intergovernativa che coinvolge 13 paesi diversi, ma che non è mai stata utilizzata, anzi “per statuto siamo tenuti a collaborare”. Ma avete fornito queste informazioni alla magistratura? “C’è stata collaborazione massima con gli inquirenti – dice Valentini – Sono stato convocato dalla Mignone a gennaio e ho fornito tutte le informazioni che mi sono state richieste. Nel periodo estivo la forestale aveva acquisito tutti i documenti necessari riguardo quel convegno. Abbiamo ottenuto le autorizzazioni dal ministero, dal servizio fitosanitario nazionale e regionale, sono venuti a controllare che i nostri laboratori fossero idonei a ospitare i patogeni, siamo un centro di quarantena e le nostre strutture sono soggette ai controlli delle autorità”.
Tutto ciò dovrebbe fugare ogni dubbio, ma dopo 400 anni si continuano ad ascoltare le voci delle popolane e a ricercare le cause dell’unzione sulla base di coincidenze, in un centro di ricerca internazionale che studia materiale da quarantena. Ci si continua a concentrare su quei pochi rametti infetti gestiti in sicurezza e poi distrutti in presenza delle autorità fitosanitarie pubbliche, e non sulle decine e decine di milioni di piante che ogni anno vengono importate dall’America centrale e che quotidianamente si scoprono infette. Di diverso rispetto al ’600 raccontato da Alessandro Manzoni c’è che il sistema giudiziario non prevede più la tortura. I ricercatori non saranno costretti, come Mora e Piazza, a confessare sotto indicibili sofferenze di essere untori, lo Iam non verrà abbattuto e al suo posto non verrà eretta una Colonna infame per ricordare la cospirazione. Ne sono stati fatti di progressi per tutelare gli innocenti. Ma quattro secoli dopo la “Storia della colonna infame”, anche la “vicenda della Xylella fastidiosa” continua a insegnarci che “il sospetto e l’esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni”.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali