(foto LaPresse)

Le voci di dentro. Dolore, lavoro, etica in Bergamasca

Cristina Giudici

Sono stati Pmi e artigiani a pagare di più. Il tema delle mancate chiusure, i dubbi oggi

"Riaprire in queste condizioni è come entrare in autostrada con gli occhi bendati”. Venuta l’ora di riaprire, un imprenditore bergamasco con 200 dipendenti definisce così l’inizio della fase 2. Bergamo ha riaperto le fabbriche, convivendo con la paura di non farcela. Altro che #molamia. E’ passata la voglia di ricorrere a motti sull’orgoglio industriale. Pesano i troppi morti e ci sono ancora tanti malati, circa 10 mila positivi (quelli tracciati) nella provincia bergamasca, molti imprenditori delle piccole e medie imprese hanno più dubbi che riposte. Dopo le polemiche furibonde sulla mancata chiusura della zona rossa in Val Seriana, le ferite sono profonde. Nessuno ha più voglia di ricordare lo sfortunato e poi funesto motto “Bergamo is running” del video per rassicurare gli investitori, voluto dalla Confindustria che ora resta sulla difensiva. Pensosi, irosi, ammaccati, hanno una gamma di sentimenti contrastanti. Servono più test sierologici e tamponi a tappeto. Martedì la Regione ha presentato il nuovo piano per i test, nella provincia di Bergamo è in corso da tre settimane uno studio epidemiologico a campionatura con 10 mila test che si concluderà il 18 maggio. Ma resta l’incertezza. Soprattutto se si sale in Val Seriana, dove nei giorni drammatici del picco della pandemia nei Comuni si contavano in ogni strada decine di morti (in casa) che non erano riusciti ad accedere alle cure ospedaliere. A parlare apertamente c’è Cinzia Imberti, ceo della Beltrami Line, che a Cene guida un’azienda familiare con suo marito: produce tessuti e biancheria per gli hotel con molte stelle in Francia, Australia, Stati Uniti. Non se la prende con i direttori sanitari degli ospedali, non si fa prendere la mano dall’ansia giustizialista (che serpeggia) e che vuole l’intervento delle procure. Davanti alla paura dei suoi 60 dipendenti, a marzo ha chiuso l’azienda senza che nessuno glielo chiedesse e ora punta il dito contro la Confindustria, responsabile di non aver dato indicazioni precise alle aziende. “Non capisco quelli che dicono nessuno ci ha fermati. Troppo facile. Quando era chiaro cosa stesse succedendo, bisognava avere il coraggio di fermarsi. Eravamo tutti impreparati, ovvio, ma bisognava fermarsi. Quello che hanno fatto alcune grandi imprese, impaurite di perdere quote di mercato, ha danneggiato l’immagine di tutti. ‘Mola mia’ va bene, ma senza capacità di discernimento diventa populismo imprenditoriale. Ora è arrivato il momento per riflettere sulla nostra etica del lavoro. Fare impresa per me coincide con la responsabilità. Abbiamo sbagliato e lo dico da imprenditore che prima della crisi del tessile aveva un’azienda con 500 dipendenti. La verità vera? Alla classe imprenditoriale è mancata l’onestà intellettuale”.

 

Sbaglia però chi sale in questa valle in cerca di un capro espiatorio e dipinge gli imprenditori come arcigni e avidi padroncini attaccati al denaro. Schiacciati nella battaglia delle competenze, nel consueto rimpallo delle responsabilità fra lo stato e le regioni, gli imprenditori non hanno riaperto con convinzione, anzi. E’ lo stesso direttore della Cna, la Confederazione nazionale degli artigiani Bergamo che rappresenta 4.000 piccole e medie imprese a dire: “Pur non condividendo questa smania di cercare delle falle nell’etica del lavoro bergamasca, sono perplesso davanti a questa apertura che non è graduale. Ci sono 10 mila persone positive e parliamo solo di quelle tracciate, tanti malati ancora in ospedale. Dovremmo andare piano”, sottolinea Tomas Toscano, che vive al centro della zona focolaio, Alzano Lombardo. “E poi ci vuole una riorganizzazione del lavoro. Le aziende, tutte, devono sposare uno sviluppo sostenibile, diventare una comunità attenta al benessere. Pare assodato che alcuni gruppi abbiano fatto pressione sulla Confindustria, ma è successo anche alle piccole e medie imprese. Anche i commercianti hanno premuto per non fermarsi. Perciò nessuno di noi ora sta festeggiando. Non possiamo evitare di chiederci perché nel 2020, i ‘grandi vecchi’, come qualcuno ha maldestramente definito gli anziani, sono morti in casa senza assistenza. Non possiamo evitare di interrogarci su come essere più autosufficienti, dopo aver sperimentato cosa significasse non poter recuperare sul mercato mascherine e ossigeno. E’ ovvio che qualcosa non funziona più. Ed è vero che la logica dl profitto ha prevalso sulla responsabilità verso chi si è ammalato, imprenditori compresi. Ma non c’entra con l’etica del lavoro bergamasca, c’entra con il modello di sviluppo che va ripensato. Riaprire solo coi protocolli di sicurezza e distanziamento non basta. E mi pare inutile dare tutte le colpe alla Confindustria ora, anche perché molti ceo di grandi imprese di sono fermati appena hanno capito. La domanda che dobbiamo porci è: ‘Si può fermare l’economia?’ No, allora va rimodulata la velocità per essere preparati all’imprevisto. E imprese che prendano in considerazione le necessità delle persone. Quello che ci è successo ci ha marcato per sempre, ora rallentiamo”.

 

Il presidente della Cna di Bergamo, Leone Algisi, è guarito da poco dal Covid e senza tampone è ancora semi-recluso. Come altri imprenditori, lui che ha 56 anni, sa cosa significa restare senza fiato. Algisi è un restauratore, non proprio un magutt del cliché comune. Il suo campo sono gli arredi lignei nelle sagrestie, cori, cibori, sculture in legno, manufatti intagliati e dorati, altari. E i musei come la Pinacoteca Carrara di Bergamo e del Museo di Palazzo Chiericati a Vicenza. Voleva fermarsi, voleva la zona rossa e non era convinto di ripartire ora. Spiega: “Da troppi anni si parla di transizione verso uno sviluppo economico diverso. E quindi, dopo la malattia, dopo tutto quello che ci è successo, è ora di farla la transizione. E’ ora di delocalizzare, di fare e non più solo teorizzare lo sviluppo sostenibile”. Convinto che si debba accorciare la filiera della produzione e ripensare la globalizzazione e trovare un nuovo paradigma anche nella filiera agroalimentare che ha fatto fatica a garantire la produzione. “Siamo stati i primi a non voler fermarci e ora ci vorrebbe una gradualità e maggior differenziazione regionale nella ripartenza”, dice Stefano Binda, segretario regionale della Cna Lombardia. “Bergamo ne è la prova: la grande impresa non può condizionare le piccole e medie aziende. Non possiamo più rischiare il cortocircuito col territorio. Torneremo a correre, ma prima bisogna uscire dagli ospedali”. L’ex segretario della Cisl, Savino Pezzotta, bergamasco anche lui, chiosa: “Cercare un capro espiatorio è inutile oltre che dannoso, ma va rivisto molto. Nella pandemia abbiamo perso una generazione di imprenditori e ora dobbiamo convivere con l’incertezza, l’imprevisto. E non sarà solo lo smartworking a salvarci da un altro cigno nero”. Altro che #molamia.

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