Foto di Tomasz Przechlewski via Flickr

I corpi di Claus e quel che resta dell'amore senza l'eternità

Stefania Vitulli

“The year of cancer” in scena da mercoledì, in prima assoluta per l’Italia, al Piccolo Teatro Strehler di Milano

Dopo Pascal Rambert con “Cloture de l’amour” e il solco neoromantico del teatro che ne è seguito (dovuto anche al fatto che il teatro è sempre più povero e dunque più che i drammi di coppia predilige il fatto che gli attori siano due invece che una numerosa compagnia), i due amanti senza nome di “The year of cancer”, il dramma in scena da mercoledì sera, in prima assoluta per l’Italia, al Piccolo Teatro Strehler – incarnati da Gijs Scholten van Aschat e Maria Kraakman – esplorano il meraviglioso abisso dello stare insieme nonostante tutto. Si straziano nel conflitto dell’eterno verso il quotidiano, fino a che non sanno più se a essere tragico o comico è l’amore o il fatto che loro prendano l’amore come un destino e non come una scelta. Uno spettacolo, proprio. Perché vale la pena vederlo? Perché vuole dimostrare che l’amore è essere un corpo solo lacerato in due dalla realtà spietata e allo stesso tempo dimostra che se vogliamo sfuggire alla realtà spietata l’unico modo è farsi d’amore. Perché rinnova almeno due domande (facendoci sentire più vivi di prima dell’ingresso a teatro): se smetti di credere che l’eterno esiste puoi amare per sempre? E se non puoi amare per sempre, puoi chiamarlo amore?

  

Va in scena (in olandese con sottotitoli) fino a domenica e non bisogna perderlo. Perché già abbiamo perso il senso di eternità che teneva insieme l’idea di amore senza condizioni: ora almeno aggrappiamoci alla sua azione su un palcoscenico. Ci viene restituita da un violento duetto – violento sì, non c’è altra parola - che vede un uomo e una donna lottare. Li ha messi lì Luk Perceval, regista di questo testo di Hugo Claus. Claus era uno che non sopportava i compromessi: è lo scrittore che dieci anni fa, malato di Alzheimer, la fece finita con l’eutanasia ad Anversa, dove era già permesso. E’ stato il marito di Sylvia Kristel, è stato accusato di pornografia – per la cui accusa in galera ci è finito proprio nel 1968, perché aveva portato in scena tre uomini nudi – scriveva di ogni forma di sessualità, fu più volte candidato al Nobel. Ma non è per questo che “The year of cancer”, scritto nel 1972, quando il fuoco del 1968 scaldava ancora i sensi, è necessario.

  

Non sono forse nemmeno necessarie le parole che gli amanti ultracinquantenni (loro come lo hanno fatto il ’68, vi chiederete di sicuro a un certo punto? Loro lo sanno che là fuori è tornata con mezzo secolo di ritardo la gente che predica sulla coppia, la relazione uomo-donna, la sessualità da modellizzare, che ci sono certezze femministe e femminili, là fuori, per cui non si capisce com’è che ve ne state in due, isolati e catafratti dalla vostra passione, mentre infilarvi in un movimento potrebbe risolvere tutto?) in scena si dicono o pensano di dirsi, a se stessi e tra loro, a farla da padrone: sono i corpi. Almeno sulla definitività dei corpi, almeno sull’incondizionata adesione che dobbiamo ai corpi, rimane poco da discutere: arrendiamoci. Il corpo se ne frega della realtà virtuale e, più che ovviamente, se ne frega delle rivendicazioni del #MeToo. Il corpo desidera e urla. E sulla scena, nei 105 minuti di “The year of cancer”, urla parecchio. E certo che poi viene in mente Bergman, e certo pure che poi il ricordo viene soccorso pure da Fassbinder. E certo che Perceval/Claus dicono che il testo trascende i corpi, che si voleva con lo spettacolo andare oltre. Ma sono i corpi stessi che si ribellano: il tempo passa, l’anno finisce, posso stare senza di te? La mente magari dice sì, ma il corpo dice no. Come si fa?

   

Sarà per questo che in cima alla scena sono appese bambole di gomma – bambole del sesso, disegnate da Katrin Brack – sarà per questo che il pavimento, in questo spettacolo, ha la stessa importanza dell’aria che respiriamo, sarà per questo che le più grandi domande di tutta la nostra vita ripetute per quasi due ore perdono di senso se immerse dentro al secchio di una lussuria implacabile, che, appunto, leva il respiro. “Cara signora”, scrive Régis Jauffret in “Cannibali”, delirante e magnifico romanzo di disamore epistolare appena tradotto da Clichy, “Alla sua età ha di certo capito che gli amori sono come lampadine. Quando non ne possono più di illuminarci, si spengono. Sarebbe stupido e inutile volerli dissezionare nel tentativo di rianimarli. Sarebbe come cercare di riparare un tramonto, invece di accettare la notte e aspettare l’alba del giorno dopo”. Tuttavia non si può fare a meno dell’idea di amare. Lo dice Jauffret qualche riga dopo e lo pensiamo noi appena usciti dalla mattanza dei due amanti di Perceval. Il respiro, allora, sulla poltrona del teatro su cui siamo seduti, va trattenuto. Per non far male a quei due corpi ancora di più di quanto se ne stiano facendo con il loro fallimento.