Il bancone del bar allo Spiritdemilan (foto via Youtube)

Vanno di moda i "fake trani", dove gli hipster ridiventano milanesi

Stefania Vitulli

Il cittadino vuole un’identità da scegliere, per abbandonare i lounge e i ristorantini con le foto in bianco e nero. L’orgoglio milanese e il ritorno dei tempi gaberiani

"Stasera beviam, per colpa del mio amor / per colpa del tuo amor”. Sì, son tornati i tempi gaberiani di barbera e champagne. Qualcuno ha capito che l’orgoglio milanese va risvegliato e per farlo serve prima di tutto risvegliare il “tranatt” che c’è in noi. Ecco la ricetta: prendi quello che sarebbe un normale spazio milanese rinfighettito, tipo loft sterminato lasciato grezzo ma con pezzi dalla Design Week; meccanico di periferia riattato a metà con il pavimento trattato a macchie di grasso che fa risplendere il bancone del bar. Oppure fabbrichetta primi Novecento (tipo le Cristallerie Livellara, undicimila metri quadri per portare i vetri soffiati da Murano a Milano firmate nel 1921 da Antonio Sant’Elia, l’amico di Boccioni che doveva progettare la “Città nuova” futurista), che comunque la metti – anche coi condotti del riscaldamento a vista e i tavolacci – rimane scicchissima: perché fino al primo Dopoguerra facevano in stile, liberty, déco, persino fascista, anche le fabbrichette. Poi sommi al tutto un architetto che rimetta in sesto l’ambiente e sappia dosare il vintage perché non risulti troppo antico ma copiabile e importabile nelle case dei futuri clienti.

 

In qualsiasi altra città basterebbe questo per risvegliare alla consumazione le generazioni X e Y che i locali storici della loro città se li sono sempre solo sentiti raccontare. A Milano no. Il milanese vuole un’identità singolare da scegliere, se deve abbandonare i lounge da happyhour e i ristorantini con le foto in bianco e nero incorniciate nelle toilette. Ed ecco allora spuntare i fake trani o, come dice il claim del più famoso, “El sit to be!”. Locali dove accade ciò che mai un milanese avrebbe potuto immaginare dopo le torri di CityLife: seduti su una cadrega, un po’ bevuti, si canta tutti insieme in dialetto, si battono le mani al ritmo di “Barbera e Champagne” e si postano foto dei Senza Biro, Teka-P o Folco Orselli che guidano i cori a squarciagola. Quando va benino. Quando va benissimo partono le canzoni della mala e, poco prima dei bis – che contengono immancabilmente “Oh mia bela Madunina”, anche se qualche millennial presente va ganassando “Oh mia vecchia Madunina” – se ci si guarda intorno con distacco da cronisti e si possono osservare nel semibuio hipster col sambuchino e new sciurettes che agitano sciarpine indiane in seta (astenersi sartine, ragiunàtt, prostitute e ligera) mentre ululano: “Ma mi, ma mi, ma mi / quaranta dì, quaranta nott / a San Vitur a ciapà i bott…”.

 

Che si tratti di Spirit de Milan (serata completa, formula fake trani di classe con ampio palco e veri concerti), Folk Enotecheria (di fronte alla casa di Alda Merini, chissà se a lei il nome sarebbe piaciuto, stile di consumazione: libero tra ristorante e wine bar), El Gainatt de Milan (format bar del Giambellino con drinklist ma senza biliardo, andarci all’ora dell’aperitivo), Osteria del Treno (musica milanesissima, ma solo in certe serate della settimana, gli altri giorni è il ristorante SlowFood di sempre), il clima, nei fake trani, è questo: i milanesi entrano metaforicamente nudi, mollando, nel buio della sera fuori dal locale, brand e big data. E si trasformano nei loro nonni, che almeno fino agli anni Ottanta se cercavano la buona musica potevano godersela all’IntrasDerby Club, al Capolinea, al Santa Tecla, al Charly Max, al Macondo, alle Scimmie, come racconta Giordano Casiraghi in “Che musica a Milano” (Zona). I nonni suddetti che invece cercavano il mezz liter, giravano la “seconda traversa a sinistra nel viale” e un “trani a gogò” si trovava sempre.

 

Menu: barbera, toast, caffè, quattro dischi, due tanghi, una polka, due mosci foxtrot, come cantava Gaber e come spiega Marina Moioli in “Milano perduta e dimenticata” (Newton Compton). Oggi invece vanno tantissimo due generi: canzone milanese (o anche lombarda per accontentare i brianzoli che portano la tipa alla cena fake trani a Milàn: qui hit assoluta “L’uselin della comare”) e swing anni Quaranta o “buscaglionato”. I gruppi emuli del Barbapedana si chiamano Cadregas o Duperdù, le serate tematiche “Tacchi, dadi e datteri” o “Rebellott”, rispunta Ricky Gianco, immancabile il ricordo di Svampa, se c’è un intervallo nel concerto in sottofondo vanno i Gufi, chi sbaglia i versi di Jannacci o le mossette di Cochi e Renato è un pirla. Nei menu (qualcuno onestamente dichiara che ha chiesto alla sua propria nonna le antiche ricette) si sfoggiano mondeghili, risotti, cassoeula, busecca come se piovesse, i camerieri parlano dialetto. Potremmo dire che sembra tutto autentico, ma appunto perché sappiamo che è un’ottima imitazione e che Briosca e Praticello han chiuso per sempre quasi mezzo secolo fa. Un residuo di marmaglia si ritrova al “Sotto di Arlati” alla Bicocca: lì, alle serate milanesi, niente nomi nuovi, ma capitani di lungo corso come Gi Zil (Gilberto Ziglioli) e Livio Macchia dei Camaleonti (quelli nati al Santa Tecla con Memo Remigi). Son scelte nostalgiche, però: molti milanesi le fanno ancora.