Gianni Fava (foto LaPresse)

L'ultimo giapponese di Bossi e il referendum Autonomia

Daniele Bonecchi

Gianni Fava, da possibile epurato a regista di Maroni. Europa, Salvini, agricoltura

Lui, come Hiroo Onoda, è l’ultimo giapponese che non ne vuol sapere di deporre le armi. Lui è Gianni Fava, leghista della prima ora, già sindaco di Pomponesco, nella Bassa, poi parlamentare di lungo corso, sempre accanto al Senatùr, chiamato da Roberto Maroni in giunta, al Pirellone, con la delega all’Agricoltura. Una spina nel fianco per Maurizio Martina. Ma lui il “nemico” lo guarda negli occhi, non lo aspetta nascosto nella giungla. E’ così che Fava si è candidato contro Matteo Salvini alla guida della Lega. Impresa impossibile. Il 14 maggio Fava porta a casa un onorevole 14 per cento, mentre Salvini stravince. Magra soddisfazione per il Comandante, dopo che l’asse sovranista con la Le Pen è andato in fumo con le presidenziali che hanno portato Macron all’Eliseo. Salvini è coriaceo e passa al repulisti della Lega: via anche Davide Boni da Milano, per fare posto come commissario a un fedelissimo, Fabrizio Cecchetti, vice presidente del Consiglio regionale lombardo. Ma le elezioni regionali sono alle porte e Bobo Maroni ha costruito un percorso tutto in discesa col referendum per l’autonomia della Lombardia. E (l’epurando) Fava viene incaricato proprio da Maroni di coordinare le procedure per il referendum. Nel giro di pochi giorni lui ottiene disco verde dal ministro Minniti: il 22 ottobre si vota. Ma cosa c’è da aggiungere alla domanda stampata sulla scheda del referendum, piuttosto scarna? “C’è poco da aggiungere al quesito, che contiene tutti gli elementi politici più forti. A chi obietta che si tratta di un generico referendum consultivo, rispondo che anche quello sulla Brexit lo era”, risponde Fava con un che di polemico.

 

Ma al governo, una volta vinto il referendum, cosa chiederete? “Sulla base di un mandato forte, che auspichiamo venga da milioni di lombardi, che ci conferiscono il mandato politico, appunto, di chiedere – e ottenere – più autonomia e maggiori risorse”.  La Lombardia, anche grazie a una forte e dinamica società civile, è regione leader in Europa. Come potrebbe spendere una possibile maggior autonomia ottenuta dal referendum? “Potendo investire in innovazione e ricerca, per le quali in questi anni abbiamo lasciato l’iniziativa alle imprese di tutti i settori socio-economici e per la quale analogamente a quanto accade in tutte le economie evolute, serve un forte contributo pubblico. Inoltre, ingenti investimenti servono anche su infrastrutture e trasporti: investimenti che lo stato non riesce più a garantire”. Tutti salgono sul carro referendario, anche i sindaci del Pd. Come giudica questa scelta?  “Un mix di furbizia e lungimiranza: non a caso nel Pd si sta consumando uno scontro violento tra l’anima centralista, che dirige l’apparato del partito, e quella autonomista, erede della grande stagione di Guido Fanti e della nascita delle Regioni, che, non a caso, trova consenso tra gli amministratori locali”. Ma il referendum lombardo può aprire una nuova stagione federalista? “La stagione federalista non si è mai conclusa in realtà, semmai il verbo federalista si è emancipato ed è uscito dai rigidi schemi partitici, diventando patrimonio comune. Il federalismo, ormai, è nella testa della gente e non solo dei leghisti”. Le ultime elezioni in Europa hanno premiato personalità e formazioni politiche che si battono per il cambiamento, senza destabilizzare l’Unione. Crede che la Lega possa aprire una nuova riflessione sul futuro dell’Europa? “La Lega una nuova riflessione l’ha già aperta. Salvini nella fase congressuale mi attaccava, definendomi ‘filo-europeista’, poi, subito dopo il Congresso, ha abbandonato quei toni e per primo ha cominciato a parlare di revisione dei trattati e non più di uscita né dall’Europa, né, tantomeno, dall’euro. Il sano realismo a volte viene prima delle battaglie di principio. Credo però che anche i risultati dei suoi riferimenti politici in Europa ne abbiano fortemente condizionato le scelte”.  Cosa è cambiato nella Lega dal lontano 1993, quando lei divenne sindaco di Pomponesco nella Bassa? “Nella ‘mia’ Lega non è cambiato nulla. Anzi. Semmai, oggi, la questione settentrionale è più forte di allora, perché in mezzo c’è stata la più grande crisi economica dell’ultimo secolo”. Crede ci sia spazio nella Lega per un confronto politico sui temi dell’autonomia?  “Me lo auguro, fermo restando che, per quelli come me, l’autonomia resta la prima tappa verso l’indipendenza. Noto che altri, al contrario, vivono le tematiche indipendentistiche con un certo fastidio. Allo stato attuale di spazio ce n’è poco, ma io cercherò di sfruttarlo tutto”. Quali tra le sue battaglie nel mondo agricolo è irrinunciabile? “Quella sull’indicizzazione dei prezzi e sulla reale corrispondenza del valore dei prodotti rispetto a quello delle materie prime. In questi anni abbiamo fatto grandi passi avanti in questa direzione, ma il meccanismo va perfezionato per garantire la massima stabilità ai comparti”. Aggiunge: “Per me Martina è stata una grande delusione. Avevo salutato con favore l’arrivo di un ministro lombardo e, ahimè, ho dovuto fare i conti con la realtà di un ministro che non si è mai appassionato all’agricoltura e che ha abbandonato il ministero nelle mani dei funzionari. Così oggi ci troviamo, da un lato, un ministero senza guida politica e, dall’altro, un ministro che, per dinamiche tutte interne al proprio partito, sceglie sistematicamente di accontentare la componente meridionale del Pd a scapito e danno della regione in cui vive”.

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