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Ma che se ne faranno i cinesi, adesso, del calcio?

Alessandro Aleotti

Note a margine sul closing del Milan e la resa incondizionata della borghesia milanese

Una volta chiuso il closing cinese del Milan (per quanto sia rimasto in molti più di un dubbio sull’andamento lento dell’operazione), la struttura proprietaria del calcio milanese – salvo il piccolo Brera F.C. – parla mandarino. La notizia, a prima vista, pare un ennesimo segno del tumultuoso cambiamento nel tempo della globalizzazione. Così viene percepita dal coro entusiasta per cui “pecunia non olet” e ogni proprietà globale è un segno di modernizzazione. In realtà, se si volesse autenticamente guardare sotto la patina dell’euforia esotica, si vedrebbero almeno due pericolosi significati.

 

Il primo fa riferimento alla resa incondizionata dell’imprenditoria milanese – quella che una volta si chiamava “borghesia” – rispetto alla prospettiva di condurre in maniera sostenibile due aziende che, in un mercato in crescita, fatturano poco più di 200 milioni come Milan e Inter. Non aver prodotto alcun tentativo gestionale che producesse un’autosufficienza finanziaria è il segno di una debolezza estrema. Sia Moratti che Berlusconi, esponenti di due diverse ondate novecentesche di neoborghesia (gli anni ’50 e gli anni ’80), di fronte alla prima seria sfida aziendale di “ristrutturazione”, hanno chiuso gli occhi e preferito la disimpegnata alternativa di vendere: non alla concorrenza, ma a realtà sconosciute e calcisticamente “aliene”. Decenni di credibilità sociale della borghesia milanese si sono liquefatti in questa “fuga dalla responsabilità” che riguarda il più rilevante fronte simbolico di condivisione emotiva della comunità. Milano si è trovata improvvisamente senza alcun riferimento borghese a cui affidare le laiche sorti emotive del calcio. Per ora lo smarrimento è attenuato dalla curiosità, ma ben presto diverrà evidente la cesura radicale che questo “globale” genererà sul “locale”. Tuttavia, una volta accettata l’idea che questa scellerata scelta sia stata compiuta, si apre un interrogativo ancora più inquietante. Cosa ne faranno i cinesi di Milan e Inter? I modelli di proprietà calcistica conosciuti, infatti, sono tre e i cinesi non rientrano in alcuna di queste fattispecie. Il modello più diffuso è quello del mecenatismo che, a Milano, aveva il volto di Massimo Moratti e oggi nel calcio globale viene incarnato, su dimensioni economiche più rilevanti, dagli sceicchi arabi.

 

Il secondo modello è quello “aziendale” che vede nella società calcistica un’impresa da gestire con efficienza. L’ingresso di Silvio Berlusconi nel calcio aveva questa cifra caratteristica che, nel tempo, si è affievolita per lasciare spazio alle finalità di consenso. Oggi, su scala globale, la governance business oriented è prevalente e viene generalmente praticata dalle proprietà anglosassoni e in particolare statunitensi. Infine vi è un terzo modello, non particolarmente encomiabile sul piano sportivo, che potremmo definire “calcio è potere”, cioè il comprare squadre di calcio come scudi protettivi nei rapporti di potere. Il modello è rischioso e generalmente dura poco (in Italia lo usarono Cecchi Gori e Cragnotti), ma a qualcuno interessa, dai tycoon asiatici agli oligarchi post sovietici alla Abramovich. Ma i cinesi cosa rappresentano? Quali sono i loro obiettivi e perché hanno comprato le due squadre di Milano?

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