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Appunti sul welfare, rinomata eccellenza meneghina

Stefano Arduini

Dal 23 febbraio il forum delle Politiche sociali voluto da Majorino. Numeri e strategie

"Lassa pur ch’el mond el disa, ma Milan l’è on gran Milan… Lassa pur ch’el mond el disa, ma a Milan se stà benon”. A quasi 80 anni dalle celebre canzone di Giovanni D’Anzi e Alfredo Bracchi, come si vive all’ombra del tanto decantato welfare ambrosiano? “L’unica certezza è l’incertezza”, così Zygmunt Bauman definiva il mood della società liquida. Una formula che ben si attaglia a un sistema di welfare, quello della Milano post Expo, che fin dai numeri mostra una poliedricità difficile da catalogare. La classifica sulla qualità della vita redatta ogni anno dal Sole 24 Ore posiziona la città della Madonnina al secondo posto assoluto e al secondo anche per quanto riguarda la sottocategoria “Servizi-Ambiente-Welfare”, prima per distacco fra le grandi città con una spesa comunale sociale annuale pro capite di 239 euro (dato Istat).

 

Questa però è solo una faccia del poliedro. Le cifre dell’ultimo rapporto dell’Osservatorio diocesano sulle povertà presentato dalla Caritas ambrosiana parlano di un aumento del 21 per cento dei senza dimora e di una crescita esponenziale degli italiani che si rivolgono ai centri di ascolto, una quota ormai arrivata al 40 per cento. “La crisi è stata un terremoto sociale: ha aperto una faglia dentro la quale sono finiti quelli che avevamo definito ‘equilibristi’, persone che stavano sospese sulla soglia delle povertà. Oggi sono proprio loro, italiani ultracinquantenni, che stanno facendo più fatica a rientrare nel mondo del lavoro e dopo di loro i giovani precari”, osserva il direttore di Caritas ambrosiana Luciano Gualzetti. A Milano poi sono ormai 54 mila (il 25 per cento di tutta la Lombardia) le persone assistite dal Banco alimentare.

 

Un attento osservatore come il sociologo Aldo Bonomi parla da qualche tempo di “città a cinque cerchi”: quello delle élite, quello del commercio, quello della città invisibile e dei lavori dequalificati, quello vitalissimo della creatività anche sociale, e infine quello sconfinata che si allarga oltre i confini municipali della produzione delle merci. “Non esiste una definizione scientifica di cosa sia il welfare ambrosiano”, spiega Bonomi, “con quell’espressione nel Novecento si definiva un meccanismo di inclusione delle plebi di lavoratori che dalle periferie venivano calamitati verso il centro, dove c’era il mondo produttivo. Oggi quel meccanismo non esiste più perché il centro dei ceti medi è in grande sofferenza e perché le periferie sono diventate un luogo di tensione fra povertà diverse, quella degli italiani da una parte e quella dei migranti dall’altra”. In questa cornice, conclude Bonomi, “noto un grande fermento anche da parte dell’amministrazione di innovare andando ad attingere proprio alla tradizione inclusiva che Milano non ha perso, mi auguro che sappia vincere la sfida”. Concorda con Bonomi Stefano Granata, milanesissimo e milanistissimo presidente di Cgm (Consorzio Gino Mattarelli), il più importante network italiano di cooperative sociali. “Le startup e gli hub per l’innovazione sociale vanno benissimo, ma il vero banco di prova della nuova amministrazione sono le periferie”, osserva, “e in questo senso occorre che gli assessorati che si occupano di Sociale, di Casa e di Lavoro imparino a lavorare insieme e fare squadra con i tanti soggetti profit e non profit che operano sul territorio”.

 

Dal 2011 l’assessorato alle politiche sociali è retto da Pierfrancesco Majorino, confermato da Beppe Sala dopo i cinque anni nella giunta Pisapia. In questi giorni è impegnato nella chiusura del bilancio previsionale per il 2017 (i fondi per il sociale saranno 232 milioni: 168,2 milioni comunali a cui si aggiungono 63,7 milioni di provenienza statale vincolati a contrasto delle povertà e immigrazione) e nella preparazione del sesto Forum delle Politiche Sociali, dal 23 febbraio al 2 marzo. Porta la sua firma la modernizzazione dei sistemi di intervento sul welfare non più organizzati sul target verticali (minori, anziani, disabili, stranieri e così via), ma sulla presa in carico complessiva della persona in stato di bisogno. L’ottica è quella di generare risposte integrate e non più settoriali (una persona che ha perso il lavoro, spesso somma alle difficoltà economiche quelle legate alla tenuta coniugale, alla gestione dei figli, alla possibilità di avere sostenere un affitto o di assicurare una buona assistenza a un genitore non autosufficiente). Una rivoluzione copernicana di grande valore. Che però fatica a tradursi in risultati concreti. Alcuni detrattori di Majorino lo accusano di avere un’impostazione eccessivamente pubblicocentrica, ma forse sino a ora il suo limite più grande è stato un altro: quello di non essere riuscito, malgrado gli sforzi, a cambiare davvero la macchina amministrativa e quella degli operatori pubblici che avrebbero dovuto trasferire al territorio l’input politico. Un esempio? Il nuovo sistema gestionale delle banche dati è di fatto rimasto inutilizzato. Può sembrare un aspetto secondario, ma l’impossibilità di gestire in modo efficiente le fatture, di fatto, è un macigno per l’intero sistema.

 

Un indubbio merito di Majorino è stato però quello di coinvolgere ad ampio raggio un Terzo settore (il portale wemi.milano.it è un ottimo esempio), che in città ha numeri ancora straordinari: oltre 21.300 soggetti organizzati in impresa, 61 mila addetti e 241 mila volontari. A cui si sommano la presenza di un colosso filantropico come Fondazione Cariplo (1,2 miliardi elargiti in 25 anni solo nella città di Milano) senza pari in Europa con esclusione della Fondazione La Caixa di Barcellona e quella di una chiesa ambrosiana sempre molto presente, basti pensare all’impatto che sta avendo il Fondo Famiglia e Lavoro entrato nella terza fase dopo che con 21 milioni di euro ha sostenuto undici mila persone).

 

A microfoni spenti però non sono in pochi quelli che notano un’ipertrofia del numero dei tavoli di co-progettazione municipale e dei convegni aperti sul welfare in una città che “dovrebbe essere quella del fare, più che del dire”. C’è poi un altro snodo. Lui nega ogni qual volta gliene viene data la possibilità, ma nei corridoi di Palazzo Marino, sono sempre più insistenti le voci che raccontato di un Majorino a vocazione nazionale, in caso di elezioni anticipate. Chi certamente non prenderà il Frecciarossa per Termini è il treno di un non profit ambrosiano che, come dice il portavoce del Forum del Terzo settore cittadino, Paolo Petracca, “ha ormai assimilato la capacità di operare al di fuori steccati ideologici – non profit vs profit; cattolici vs laici, pubblico vs privato – come nessun altra città in Italia”. Ma, per chiudere con le parole del presidente del Ciessevi (Centro servizi al volontariato locale) Ivan Nissoli, dovrà dimostrare “il suo ruolo di avanguardia nazionale sapendo utilizzare al meglio i nuovi strumenti previsti dalla riforma del Terzo settore a iniziare dalla nuova impresa sociale”.

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