Gran Milano

Nei bunker Breda. Quando nei rifugi antiaerei ci stavano i milanesi

Alle porte di Milano, immersi nel maestoso Parco Nord, un itinerario per capire la paura

Maurizio Baruffaldi

Lievita la richiesta immobiliare dei bunker, soprattutto nel centro nord: per farsene uno, da 5/6 posti, dotato di confort, servono dai 50 ai 90mila euro. Negli anni Trenta del Novecento invece, costruire insieme alla casa un ricovero antiaereo diventò obbligatorio per decreto. In genere era una cantina adibita a rifugio, con travi di legno a sorreggere. Da paese bombardato abbiamo una ricca mappa di ricoveri antiaerei. Alle porte di Milano, immersi nel maestoso Parco Nord, si possono visitare i Bunker Breda, rifugio degli operai della V sezione Aeronautica: costruttori di aerei che dovevano proteggersi da incursioni aeree. Mi prenoto con Alessandra Micoli e Michela Bresciani, dell’Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord.

   

Pausa pranzo, 15 gradi, un gruppetto di stagionati runners in microfibra costeggia il profilo fiorito di narcisi e giacinti, noi deviamo sul sentiero che taglia un pratone tempestato di margherite e arriviamo alla breve scalinata dell’ingresso, tappezzata di edera selvatica. Si spegne la luce nel cemento armato. “Ci teniamo a far sentire l’impatto del rifugio, il peso emotivo di questa discesa” esordisce Michela. “Prima di questa guerra, avevamo anche un allestimento sonoro, un collage di allarmi ed esplosioni, suoni originali presi da filmati dell’Istituto Luce. Poi abbiamo scelto di evitarli. La sovrapposizione col presente li rendeva eccessivi, inutili. Si rischiava l’effetto spettacolo.” Il mood televisivo incombe, deplora e festeggia. Infilo il giubbotto. Sono locali freddi, anche se poco profondi. “Non potevano nulla contro un colpo pieno: proteggevano però da schegge, detriti e spostamento d’aria”.

  

Nella prima cella, appeso come un lampadario, il profilo rigido di una bomba dell’epoca. “Ricamata a grandezza naturale da una delle donne che ha perso una persona cara nel bombardamento della fabbrica di Dalmine”, mi spiega Alessandra. Ordigni che pesavano cento chili, e quando stava per finire il carburante gli aviatori li scaricavano dove capitava. “La scuola Gorla, è stata colpita da una di queste bombe” aggiunge Michela. Per salvarsi la vita, ucciderne a caso. “Per questo, dopo le prime incursioni gli inglesi smisero per due anni, un tempo di silenzio utile a perfezionare gli aerei.”

  

Come si dimostra la bomba sganciata per liberarsene? “Le incursioni inglesi erano calendarizzate, con tanto di nome e obiettivi. C’è un’importante studio dell’International Bomber Command, Centro di documentazione dell’Università di Lincoln Uk, che incrocia le testimonianze di chi era bombardato, noi, con quelle di chi bombardava. Si trovano dei veri e propri storyboard, stupendi, con testo e disegni fatti dagli aviatori inglesi. Ci sono poi le loro lettere, alcuni terribili, per convinzione e obbedienza soldata, altre spaesate, smarrite, soprattutto quelle dei più giovani. E gli amuleti, anche, che portavano in volo.”

  

Nella seconda cella, lunga e stretta, panche di legno ai lati, copertura a volta a botte, che garantisce solo muri portanti, separata e sigillata con porte di cemento dal peso insostenibile, adesso divelte, e che così resteranno. “Ci stavano 50 persone per braccio, e l’autonomia d’aria in ogni cella era di poco più di due ore. Il tempo dell’incursione.”

  

Mi siedo un attimo. Chiudo gli occhi. Immagino. Anche i rumori. Respiro piano. Quindi torno alle mie due guide. Che ribadiscono come questo bunker sia costruito a tracciamento spezzato, ogni braccio chiuso e filiforme, per dipanare il bersaglio, renderlo sfuggente, per quanto possibile, ma che furono comunque fatti in fretta e furia nel ‘42. E non ci sono bocchette di aerazione”. Sposto la tenda che dà su una piccola stanza con due latrine primitive e quadrate. “Così come queste, sono senza scarico”. Bisognava tenerla. Insieme alla paura.

  

Nel nuovo corridoio sono incollate grandi foto in bianco e nero. Immagini del dopo. Sottofondo di macerie. Sembrano quadri a carboncino. "Sono stampate su film adesivo, applicate a caldo, con un grande phon. L’unico materiale che ha resistito. Il forex faceva muffa. Per non parlare dell’elettrico. I proiettori, ne abbiamo fatti fuori uno al mese", dice Alessandra. "Le ha fatte Gianfranco Ucelli, figlio di Guido, fondatore del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Lavorava nella Riva Calzoni, fabbrica di turbine idrauliche ed elettriche, e quando veniva chiamato in soccorso con le pompe faceva le foto. Perché non si poteva, era un reato mostrare la città distrutta. Reato di disfattismo". Niente di nuovo. E proseguiamo, in questo underground grigio compatto e ripetitivo. Illuminato appena, reso vivo da tavole e fotografie.

   

Una mappa della città di Milano pare il bersaglio delle freccette. La prima è del ’40, Stazione Centrale, due aerei, un morto. Poi si passa al ’42. Sporadiche, ma tutte verso il centro. “Gli inglesi li definivano loro stessi ‘attacchi terroristici’. Perché avevano come obiettivo i civili. Per smontare l’ancora grande consenso verso il regime”. Nel ‘44 i colpi delle freccette si allargano, al perimetro. “Dove c’erano le fabbriche e le vie di comunicazione. Dove la guerra veniva prodotta”. I nazisti presidiavano le nostre fabbriche, con fucile puntato sugli operai.

   

Davanti alle basiche segnaletiche di soccorso e orientamento, Michela mi ricorda il bombardamento del 30 aprile 1944 che distrusse completamente la fabbrica. Fortuna che fosse domenica. E gli operai avevano appena conquistato il diritto a un giorno, quello, di riposo settimanale.

   

Fine del percorso. Altra scala. Dal buio all’abbaglio. Nascosto dai rami di un piccola boscaglia si intravede un vecchio cartello di zona militare. Dietro c’è l’ancora attivo Campo Volo di Bresso. Michela e Alessandra mi raccontano delle richieste, per usi anche strambi del bunker, e con un ritrovato sorriso ci salutiamo. Mi incammino nel parco, sotto una volta di chiome d’albero.

   

A casa, sento il bisogno di scendere in cantina. La annuso, ne guardo il soffitto, misuro lo spazio per una eventuale branda matrimoniale. Accarezzo il sellino della bicicletta, saluto le munizioni di vino imbottigliato, e vado in pace.

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