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GranMilano

Il cattivo umore dei milanesi durerà a lungo, ma con juicio

Piero Borghini

Un sondaggio della Makno fotografa la duplice anima della città, tra la sofferenza sociale dovuta anche a un welfare da rifondare e "l'ottimismo della volontà" che la spinge a investire sulla cultura e sulla ricerca

Il Centro studi Grande Milano ha chiesto alla Makno di Mario Abis di condurre un’indagine sullo stato d’animo dei milanesi nel pieno della seconda ondata pandemica. Il risultato è apparentemente contraddittorio. Da un lato i milanesi appaiono fortemente stressati, arrabbiati e, soprattutto, insicuri dal punto di vista sociale. Dall’altro lato, però, si dimostrano fiduciosi sulla possibilità che Milano possa farcela, puntando sulla cultura e sulla città metropolitana. E’ una contraddizione solo apparente. La sofferenza sociale c’è e si sente, così come il timore che la società post Covid possa essere più atomizzata e ingiusta dell’attuale, ma al tempo stesso si è ottimisti sul fatto che ciò possa essere evitato crescendo.

 

Non si tratta di un pio desiderio, ma piuttosto di quello che un tempo si sarebbe chiamato “ottimismo della volontà”, ossia la voglia di non lasciare ad altri (il Covid-19, in questo caso) il proprio futuro, ma di rivendicarlo per sé. Anche perché la posta in gioco questa volta è troppo grande. La crisi pandemica, infatti, non viene da sola, ma si intreccia con un’altra crisi planetaria ancor più preoccupante, quella determinata dai cambiamenti climatici. Ed entrambe queste crisi mettono in discussione sia il “contratto sociale” che lega gli uomini tra di loro, in particolare nella distribuzione dei rischi tra individui, datori di lavoro e stato, che quello che lega gli uomini alla natura. Deriva da qui il senso così diffuso di insicurezza che si registra anche a Milano e la domanda di cambiamento del sistema di welfare che ne consegue, assieme a quella di una “crescita sostenibile” dell’economia (ma non, però, di una “decrescita felice”).

 

L’indagine di Makno fotografa esattamente questa duplice realtà. Da un lato ci sono le falle di un sistema di welfare nazionale cui quello ambrosiano di rincalzo non riesce a sopperire. Non si tratta del sistema sanitario, su cui si sono fatte tante polemiche e sul quale il giudizio dei milanesi è però molto equilibrato: ci sono stati limiti e ritardi, ma ha retto, poi si vedrà. Si tratta del sistema di welfare nazionale, che si appoggia sulla famiglia salvo lasciarla sola nei casi eccezionali. Con i nonni fuori gioco e le scuole chiuse, molte famiglie che lavorano hanno avuto difficoltà enormi. Anche i bambini hanno sofferto, perché il nostro welfare è molto avaro con loro (lo ha notato con sorpresa l’Economist). Così come con gli anziani o tanti marginali. E infine il mondo del lavoro, sia dipendente che autonomo, mai così differenziato e con aree crescenti di precarietà che la rete assicurativa del welfare non riesce a coprire.

 

L’insicurezza che l’indagine registra non è insomma uno stato d’animo destinato a svanire con la fine della pandemia, è un dato strutturale che spinge al cambiamento. Come dopo un nubifragio la richiesta universale è quella di reti di protezione più solide, e questo chiama in causa la politica. I milanesi, da parte loro, una proposta ce l’hanno: investire sulla cultura (che vuol dire sul capitale umano nel senso più ampio del termine) e sulla funzionalità di Milano rispetto al proprio arcipelago metropolitano. Un esempio c’è già, ed è la più bella eredità di Expo: l’apertura dei primi laboratori di Humane Technopole, ossia di quello che diventerà il più grande centro di ricerca di scienze della vita in Italia aperto a ricercatori di tutto il mondo, nell’area ex Expo. E’ possibile che “l’ottimismo della volontà” dei milanesi non sia poi così infondato.

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