Gli utili idioti del populismo

Francesco Cundari

La Casta, la Trattativa, la gogna dei talk-show, le campagne dei giornali, le case editrici, gli avvoltoi dell’establishment. Perché il populismo italiano è un fenomeno che nasce dall’alto e non dal basso. Inchiesta contromano (e staliniana) sui sonnambuli della classe dirigente

E’ opinione universalmente condivisa che il risultato delle elezioni del 4 marzo sia il frutto di una rivolta del popolo contro le élite, dei comuni cittadini contro l’establishment, dell’uomo della strada contro gli intellettuali: un sommovimento montato dal basso che solo l’imperdonabile miopia dei grandi mezzi di comunicazione, della cultura ufficiale e delle forze politiche tradizionali avrebbe impedito di scorgere per tempo. Ma è falso. Può darsi che questa lettura dipenda dalla tentazione di applicare all’Italia schemi validi, forse, per altri paesi, come Gran Bretagna e Stati Uniti, dove buona parte dell’establishment politico, intellettuale e giornalistico è stato colto alla sprovvista tanto dalla Brexit quanto dalla vittoria di Donald Trump. Quello che è certo è che una simile lettura va come un vestito su misura ai vincitori del 4 marzo e ai loro sostenitori, ben felici di accreditarsi oggi come audaci anticonformisti appena rientrati da un lungo esilio, finissimi analisti vissuti fino a ieri come isolate Cassandre, capitani coraggiosi costretti a navigare sempre controvento, risalendo la corrente a forza di braccia, per non essere travolti dalla marea del “politicamente corretto”, del “pensiero economico mainstream”, dell’“ipocrisia” e del “buonismo” imperanti.

 

 

 

Economisti del calibro di Antonio Maria Rinaldi, filosofi della levatura di Diego Fusaro, per fare solo due nomi degli ospiti più frequenti di ogni trasmissione televisiva, usciti direttamente dalla “Gabbia” di Gianluigi Paragone (un altro esule in patria, già passato da direttore della Padania a vicedirettore di Raiuno prima e Raidue poi, negli intervalli di tempo conduttore di una mezza dozzina di talk show su tutte le reti pubbliche e private del paese, e oggi parlamentare del Movimento 5 stelle). Ma ben prima della “Gabbia”, avevamo già “Striscia la notizia”, con il Gabibbo e il vice Gabibbo. Avevamo già “Le iene”. Le campagne contro la casta dei politici e quelle contro la casta dei medici. Gli assalti ai parlamentari a telecamera spianata e le interviste deferenti ai guru della medicina alternativa, dall’inventore del metodo Stamina al tassista cubano che illustra le proprietà antitumorali del veleno di scorpione. Che si tratti di retorica antipolitica o di propaganda antiscientifica, la sostanza non cambia, e neanche la forma. Perché la passione per la gogna, per la caccia alle streghe e per ogni genere di superstizione medievale, prima che una regressione etica, è il frutto di una mutazione estetica: è uno stile, è un modo di esprimersi, è un format.

  

Diego Fusaro (foto Imagoeconomica) 

 

Il problema, alla radice, è che da almeno trent’anni in Italia il lessico populista è di fatto l’unico vocabolario in circolazione. Le parole d’ordine, le categorie, gli slogan che in ogni altro paese occidentale si ritrovano solamente nella propaganda dei populisti più accesi – in certi programmi della Fox in America, in certi tabloid inglesi, nella galassia dei siti internet e delle pagine facebook dell’estrema destra francese o tedesca – in Italia sono copyright dei più antichi e blasonati quotidiani, appartengono al linguaggio condiviso di giornalisti e politici, ricorrono abitualmente in convegni e talk-show, serie televisive e spettacoli teatrali. Anche negli Stati Uniti c’è chi, a cominciare dal presidente Donald Trump, si scaglia quotidianamente contro la politica corrotta e “la palude di Washington”, riferendosi ovviamente agli avversari, ma si può scommettere che nessuno degli slogan trumpiani sia nato né potrebbe mai nascere da una campagna del New York Times o della Cnn. In Italia, cambiando quel che c’è da cambiare, è esattamente ciò che è accaduto e che continua ad accadere ogni giorno. Perché è questa la vera differenza tra l’Italia e tutti gli altri paesi occidentali sconvolti dal grande conflitto globale tra populisti ed élite: che da noi le élite stanno coi populisti. Il populismo italiano, infatti, non nasce dal basso, ma dall’alto.

 

  

 

Non c’è solo, ovviamente, la Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, frutto di una campagna del Corriere della Sera, giornale dell’establishment se mai ve ne fu uno nel nostro paese, edito da quella Rcs che è stata a lungo definita “il salotto buono della finanza italiana”. Una campagna di stampa che si è presto allargata all’intero spettro dei quotidiani italiani – con rarissime eccezioni che l’attento lettore non mancherà d’individuare da solo – grazie alla quale l’espressione dispregiativa “casta” è diventata in brevissimo tempo il termine più utilizzato dai mezzi di comunicazione per indicare i rappresentanti del popolo, ben prima di diventare il principale slogan delle campagne elettorali grilline. Un bestseller che a sua volta ha dato vita a un intero genere letterario, con tutto il corredo delle mille varianti e degli innumerevoli tentativi di imitazione, dal libro sulla “casta bianca”, dedicato agli scandali della malasanità, a quello sulla “casta rossa”, dedicato alla sinistra, passando per la casta delle Regioni e quella delle Province, per la “casta del vino” e persino per la “casta della monnezza”. Ma la Casta e i suoi derivati sono soltanto la punta dell’iceberg, o per essere più precisi la cima più alta di un’estesissima catena montuosa, che la precede e la supera, nello spazio e nel tempo.

  

Ben prima della “Gabbia”, avevamo già “Striscia la notizia”,
con il Gabibbo e il vice Gabibbo. Avevamo già “Le Iene”

 

Molto prima delle campagne contro la casta del Corriere della Sera, infatti, abbiamo avuto le campagne di Repubblica contro i “professionisti della politica”. Molto prima che Beppe Grillo e la Casaleggio Associati cominciassero a teorizzare il governo dei semplici “cittadini”, i filosofi di Micromega teorizzavano l’autogoverno della “società civile”.

Il cerchio sembrerebbe dunque chiudersi magnificamente con i reduci di mille girotondi contro il regime berlusconiano schierati ora al fianco di Matteo Salvini, mentre Silvio Berlusconi denuncia il clima illiberale e il rischio di scivolamento verso la dittatura, con parole che sembrano tratte da uno dei tanti appelli firmati a suo tempo contro di lui. Ma il cerchio non si chiude, perché non è un cerchio, né nessun’altra figura geometrica si voglia immaginare. Perché il populismo, in Italia, è il piano. E’ l’ambiente stesso in cui si dispongono gli oggetti. Non è una parte: è il tutto.

 

Questo è il paesaggio, questo è quello che offre il nostro dibattito pubblico a trecentosessanta gradi, da almeno tre decenni, contrariamente al ritornello sulla cultura ufficiale e le élite intellettuali che avrebbero ostracizzato le voci dissonanti. I campioni della futura classe dirigente gialloverde si sono formati, si sono riconosciuti e si sono abbracciati qui, nei salotti televisivi e sulle pagine dei grandi giornali, molto prima che in Parlamento. Hanno combattuto fianco a fianco nella grande campagna referendaria del 2016, ma avevano vinto prima ancora di cominciare, con Cinque stelle e Lega da una parte, a chiedere di votare No contro il regime renziano (con l’appoggio degli utili indignati della sinistra radicale), e con Matteo Renzi dall’altra, che invitava a votare Sì per “tagliare le poltrone della casta”. A dimostrazione di come in Italia l’egemonia culturale fosse già allora saldamente in mano ai populisti. L’abbraccio tra Movimento 5 stelle e Lega è stato possibile e naturale perché il terreno comune era stato preparato da decenni, e proprio da quei grandi mezzi di comunicazione che secondo loro – razza di ingrati che non sono altro – sarebbero il megafono dell’informazione e della cultura “radical chic”. E invece è proprio lì, tra quei giornalisti, quei conduttori, quei registi, quegli editorialisti, quei comici, quei professori, quegli intellettuali che dovrebbero rappresentare l’élite, che si è cementata una cultura condivisa, capace di affermare una comune visione del mondo e di imporre, soprattutto, un unico linguaggio. La koinè del populismo italiano.

 

Prima delle campagne del Corriere contro la casta, abbiamo
avuto le campagne di Repubblica contro i “professionisti della politica”. Prima che Grillo e la Casaleggio Associati pensassero al governo
dei semplici “cittadini”, i filosofi di Micromega teorizzavano
l’autogoverno della “società civile”  

Basta entrare in una libreria e scorrere i titoli degli ultimi dieci anni, nell’ordine casuale in cui li si incontra sugli scaffali. Ci sono quelli più semplici e diretti: “Chiamiamoli ladri” (Vittorio Feltri), “Impuniti”, (Antonello Caporale), “Nati corrotti” (Marco Cobianchi). Ci sono tutte le gradazioni della suspence, dal thriller all’horror, in cui si è specializzato Mario Giordano: “Sanguisughe”, “Avvoltoi”, “Vampiri”. Ci sono pratici vademecum: “Se li conosci li eviti – Raccomandati, riciclati, condannati, imputati, ignoranti, voltagabbana, fannulloni del nuovo parlamento” (Marco Travaglio e Peter Gomez). E c’è, come dimenticarlo, tutto il ricco mercato degli instant book giudiziari, che il più delle volte consistono semplicemente nella ripubblicazione dei verbali: generalmente l’atto d’accusa dei pm, più raramente le sentenze, spessissimo i puri e semplici brogliacci delle intercettazioni. Il classico di questo genere è il libro che nel 1995 raccoglieva “interrogatori, testimonianze, riscontri, analisi” dei pubblici ministeri del processo Andreotti, dal sobrio titolo: “La vera storia d’Italia”. Una storia che in libreria, effettivamente, sembra conoscere soltanto due filoni: mafia e corruzione.

 

Per quanto riguarda la corruzione, il testo di riferimento è naturalmente il ponderoso “Mani Pulite, la vera storia”, di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio. Opus magnum di cui in questi giorni non si può non segnalare una significativa edizione in portoghese, pensata appositamente per il fiorente mercato brasiliano: “Operação Mãos Limpas”. Sottotitolo: “La verità sull’inchiesta italiana che ha ispirato Lava Jato”. Edizione datata 5 dicembre 2016 e impreziosita dall’introduzione di Sergio Moro, che poi sarebbe, per l’appunto, il pm dell’inchiesta Lava Jato. Vale a dire l’operação che ha portato in carcere Lula – dopo un processo che ha sollevato molti dubbi sulla stampa internazionale, a cominciare dal New York Times, e pochissimi sul Corriere della Sera – spianando la strada alla vittoria di Jair Bolsonaro, il candidato dell’estrema destra che oltre a non avere mai nascosto la sua nostalgia della dittatura militare brasiliana, oltre ad avere sostenuto che se un poliziotto uccide venti delinquenti non bisogna metterlo sotto inchiesta ma dargli una medaglia, oltre ad avere espresso in ogni modo il suo disprezzo per omosessuali, donne e ogni genere di minoranza, appena eletto ha pensato bene di nominare Sergio Moro ministro della Giustizia. Inutile dire che Sergio Moro, forse anche in questo debitamente inspirado dai colleghi italiani, ha prontamente accettato. A conferma della tesi di Giuliano da Empoli (“La rabbia e l’algoritmo”), secondo il quale l’Italia è la Silicon Valley del populismo globale, avendone sperimentato ogni forma possibile, “dal populismo regionalista della Lega a quello giudiziario di Antonio Di Pietro, fino all’apoteosi catodica del populismo plutocratico del Cavaliere”. Un terreno su cui per una volta il nostro paese è dunque all’avanguardia, come dimostra il fatto che “molti dei nostri esperimenti li abbiamo poi esportati con successo”.

 

Dal crescente successo editoriale della saggistica antipolitica si è generata una casa editrice ad hoc: Chiarelettere. Dalle campagne girotondine dell’Unità di Furio Colombo si generava il Fatto di Marco Travaglio
e, sull’altro fronte, da una costola di Libero la Verità di Maurizio Belpietro  

 

Va detto però che l’esportazione ha un peso relativamente marginale, rispetto alla robusta filiera che alimenta incessantemente il mercato interno. Un mercato in continua espansione, grazie alla combinazione della spinta centrifuga data dal radicalizzarsi del conflitto politico e di una naturale tendenza alla specializzazione produttiva. Così dal crescente successo editoriale della saggistica antipolitica si è generata una casa editrice ad hoc: Chiarelettere (fondata giusto nel maggio 2007, proprio nel momento in cui Rizzoli pubblicava la Casta). Allo stesso modo, nel corso degli anni, dalle campagne girotondine dell’Unità di Furio Colombo si generava il Fatto di Marco Travaglio, mentre sull’altro fronte, in tempi più recenti, da una costola di Libero si generava la Verità di Maurizio Belpietro. E così come la nuova concorrenza fa apparire ormai Alessandro Sallusti uno smidollato buonista e il Giornale da lui diretto – un tempo, per la sinistra, il simbolo della “macchina del fango” berlusconiana – quasi un baluardo della democrazia liberale, così la presenza di un quotidiano integralmente populista qual è il Fatto alimenta da anni l’incredibile nemesi di Repubblica, bollata ormai come foglio di propaganda del Pd. Repubblica, il giornale-partito capace di dedicare all’“urlo di Nanni Moretti” contro i dirigenti dei partiti del centrosinistra l’intera prima pagina, e quattro, dicasi quattro, editoriali; la nave ammiraglia di quel gruppo Espresso che è stato l’incubatrice di quasi tutti i movimenti di contestazione dei partiti di governo e di opposizione degli ultimi vent’anni, inaugurando gran parte delle parole d’ordine che sarebbero poi finite nel repertorio del Movimento 5 stelle. Insieme, va detto, con le trasmissioni di Michele Santoro, al quale va però dato il merito di essere stato il primo, e a nostra conoscenza anche l’unico, tra tutti i protagonisti di questa storia, ad avere riconosciuto autocriticamente, giusto in un’intervista al Foglio, la propria parte di responsabilità nella deriva populista del paese. 

 

  

Fatto sta che l’intero armamentario polemico dei populisti di oggi non è altro che la rimasticatura, appena un po’ più sgrammaticata, di trent’anni di giornalismo da retroscena: a partire dagli anni Novanta, quando con Mani pulite e il processo Andreotti la cronaca politica si è fusa irreversibilmente con la cronaca giudiziaria, e ne ha adottato perfino il lessico. Così i vertici di partito sono diventati “cupole”, i capicorrente sono diventati “capibastone”, la vittoria dell’uno o dell’altro nella lotta interna è diventato il risultato di una “trama”, condotta attraverso “sicari” e a forza di “pugnalate alla schiena”. Dai retroscena dei giornali ai monologhi dei comici, dalla saggistica al cabaret, da allora in poi, questo è il linguaggio con cui la politica è stata presentata agli italiani. Grillo, la Casaleggio Associati, i troll russi e l’industria internazionale delle fake news sono arrivati dopo.

 

Persino in un testo di logica della Laterza, peraltro di esemplare chiarezza e piacevolissima lettura (“Logica – Da zero a Gödel” di Francesco Berto), a pagina 79, dovendo scegliere un esempio qualsiasi con cui illustrare alcuni caratteri della notazione simbolica, l’autore scrive: “Per dire che qualche politico non ruba, consideriamo ciò come sinonimo di: ‘Vi è almeno un x, tale che x è un politico e x non ruba’. Ossia, usando P per la proprietà di essere un politico, e R per quella di rubare: $x(P(x) Ù ØR(x)).

Potremmo chiamarla la formula magica del populismo italiano. Se persino in un testo specialistico, persino un filosofo non trova nulla di stonato in un simile esempio, vuol dire che ormai questo modo di pensare e di esprimersi è divenuto talmente diffuso da apparire neutro, oggettivo, naturale. Non è più nemmeno un’opinione o un punto di vista, è l’unico punto di vista rimasto, è la realtà stessa. Come la parola “casta”, termine dispregiativo che si è ormai apparentemente desemantizzato – direbbero i linguisti – tanto da divenire di uso comune come termine neutro. E non perché il significato originario, dispregiativo, lo abbia perduto. Ma perché il disprezzo è divenuto la norma.

 

L’armamentario polemico dei populisti di oggi è la rimasticatura,
un po’ più sgrammaticata, di trent’anni di giornalismo da retroscena.
Dai giornali ai monologhi dei comici, dalla saggistica al cabaret,
da allora in poi, questo è il linguaggio con cui la politica
è stata presentata agli italiani

  

Questa è la ragione – o se preferite la logica – per cui, nel corso degli ultimi anni, i reparti delle librerie dedicati all’attualità si sono divisi unicamente lungo due filoni: mafia e stragi, sprechi e corruzione. E con una simmetria perfetta. Se infatti per tutta la vasta letteratura concernente sprechi, ruberie, privilegi e prepotenze della politica la parola-chiave è senza dubbio “casta”, per quanto riguarda quello specifico settore, all’interno dell’ampia casistica delle malefatte della politica, che riguarda i rapporti con la mafia, la parola-chiave è “trattativa”. La “trattativa Stato-mafia”, come tutti i giornali l’hanno prontamente battezzata, al seguito dei pm di Palermo.

Anche qui, un giro tra gli scaffali è sufficiente per farsi un’idea della tesi di fondo: “E’ Stato la mafia” (Marco Travaglio), “I boss di Stato” (Roberta Ruscica), “Collusi” (Nino Di Matteo e Salvo Palazzolo). Ma il punto decisivo, come sempre, non è il singolo libro, e nemmeno la grandissima quantità di libri, riviste e dvd tutti dello stesso segno (dalle più pensose testimonianze degli ex pm di Palermo Antonio Ingroia e Giancarlo Caselli allo spettacolo di Sabina Guzzanti in dvd). Il punto decisivo, di nuovo, è la pervasività del lessico. E’ il fatto che tutti i giornali utilizzino naturalmente la definizione “trattativa Stato-mafia”. Come se oggetto dell’inchiesta non fosse, eventualmente, il tradimento di questo o quel singolo politico, magistrato, poliziotto o agente segreto, ma un negoziato tra legittimi e leali rappresentanti di ciascuna delle due parti, interpreti fedeli e attendibili delle loro volontà: come se Stato e Mafia fossero semplicemente due diverse organizzazioni criminali. Tanto è vero che nella conclusione del succitato libro di Nino Di Matteo si sostiene – ripetendo una formula da lui usata anche in tv, e prima di lui da Ingroia – che per avere la verità sui rapporti con la mafia servirebbe “un pentito di Stato”. E quando in aprile la sentenza di primo grado ha accolto sostanzialmente le tesi dell’accusa, Luigi Di Maio ha esclamato su Twitter: “Siamo in un momento in cui stiamo riscrivendo i libri di storia”. Insomma, non c’è niente da fare, siamo sempre lì: “La vera storia d’Italia”.

 

Non si tratta di questioni astratte. Anzi. Il primo problema di questo modo di vedere l’Italia – e soprattutto di raccontarla – è che ha effetti concreti. E’ il primo anello di una catena, l’avvio di una spirale in cui il passaggio successivo è rappresentato dai titoli a nove colonne sulle classifiche internazionali in cui l’Italia, quanto a corruzione, sarebbe dietro le petromonarchie del Golfo e le peggiori cleptocrazie africane, o tollererebbe un’influenza della politica sull’economia più pervasiva che nella Russia di Putin e nella Cina comunista. Salvo scoprire poi che si tratta di sondaggi, di rilevazioni fatte sulla base di questionari, dunque che quell’immagine assurda di un’Italia in cui anche l’ultimo sottosegretario avrebbe più potere di Xi Jinping, rilanciata ossessivamente dai mezzi di comunicazione a conferma del loro racconto, non ne è in realtà che la diretta conseguenza. Inutile stupirsi se poi ogni genere di osservatorio internazionale ci descrive (e ci valuta) come un paese in via di sottosviluppo.

 

Il guaio è che una simile spirale non cessa mai di autoalimentarsi, determinando una corsa al ribasso inarrestabile. E così, se persino quelli che dovrebbero essere i quotidiani dell’establishment si esprimono ormai come una trasmissione di Gianluigi Paragone, cosa resta per gli organi di controinformazione e controcultura che dovrebbero illuminare ciò che resta nell’ombra, svelare quello che gli altri nascondono? Cosa rimane, dopotutto, al fondo di questo inesauribile vaso di Pandora? Semplice: Pandora Tv. La televisione di Giulietto Chiesa, balzata recentemente agli onori delle cronache per il video con il falso discorso dell’ex presidente dell’eurogruppo Jeroen Dijsselbloem (quello con un doppiaggio che gli faceva dire cose che nell’originale non diceva affatto, e che ovviamente per Chiesa non era un falso, bensì una libera “interpretazione”). Video rilanciato dalla pagina facebook del gruppo del Movimento 5 stelle al Parlamento europeo, e di qui, anche grazie alla pubblicità fornita dalle polemiche sulla manipolazione, trasformatosi in un’insperata fonte di introiti per la piccola televisione.

L’azionariato di Pandora Tv rappresenta molto efficacemente l’ultimo anello della catena che abbiamo cercato di descrivere sin qui. “Il primo a mettere soldi è stato Antonio Ingroia, reduce dal flop di Rivoluzione Civile e futuro compagno d’avventura di Chiesa nella ‘Lista del Popolo’, nata dal movimento ‘La mossa del cavallo’, forte dello 0,03 per cento ottenuto alle elezioni”, scrive Ettore Livini su Repubblica del 9 novembre. Si sono poi aggiunti un esperto di “geoingegneria clandestina”, un ex consigliere regionale dei Cinque stelle piemontesi, una manager diventata giornalista per Sputnik (l’organo ufficioso della Russia di Putin in Europa), ma soprattutto, “a garantire davvero un’altra visione del mondo… Giorgio Bongiovanni, ‘contattista’ scelto dagli alieni, in particolare da Setun Shenar, per metterci in guardia sull’Apocalisse prossima ventura”.

 

Una spirale che non cessa mai di autoalimentarsi, determinando una corsa al ribasso inarrestabile. Il caso Pandora Tv. L’antipopulismo populista,
che persino nel momento in cui lamenta l’ascesa dei populisti ne attribuisce la colpa alle infinite malefatte o all’incredibile miopia dei partiti tradizionali 

 

Evidentemente, un altro e non secondario problema è che questo modo di vedere e raccontare l’Italia è un virus capace di resistere a ogni smentita della realtà. Come dimostra anche l’articolo scritto da Ernesto Galli della Loggia sulla prima pagina del Corriere della Sera, alla vigilia della sentenza sul sindaco di Roma. Editoriale in cui l’autorevole storico ha candidamente confessato il suo voto per Virginia Raggi, destando un immotivato stupore in molti osservatori (se avete letto fin qui, non c’è bisogno di spiegare perché non siamo rimasti altrettanto stupiti), ma soprattutto ha tenuto a chiarire che gli elettori “naturalmente non avevano la minima idea di chi fosse: come del resto è la norma nel nostro Paese”. Riassumendo: lui l’ha votata, ritiene che la città sia ora obiettivamente “al collasso”, ma è ancor più convinto del fatto che gli elettori della Raggi non ne portino alcuna responsabilità, anche perché “l’agonia in cui versa oggi la città indica chiaramente che il malgoverno o l’assenza di governo non è certo cosa degli ultimi due o cinque anni”. E così persino il fallimento della giunta populista diventa un argomento a favore dei populisti.

 

Il punto più estremo di una simile capacità di adattamento del discorso antipolitico, del resto, è proprio l’antipopulismo populista, che persino nel momento in cui lamenta l’ascesa dei populisti ne attribuisce la colpa alle infinite malefatte, o all’incredibile miopia, o all’imperdonabile insipienza – indovinate un po’? – dei partiti tradizionali, tutti quanti e nessuno escluso, senza tante distinzioni. Insomma, alla fine della fiera, in Italia anche il populismo è colpa della casta.

E così la nostra storia si conclude, confermando l’assunto di partenza. E cioè che la funzione fondamentale di questa incessante produzione di capri espiatori a mezzo di altri capri espiatori sta nell’assicurare a ognuno di noi – e anzitutto a noi che scriviamo e parliamo e ci ospitiamo vicendevolmente sui mezzi di comunicazione – che se il paese versa in queste condizioni, le colpe sono molte, gravi e diffuse, ma di sicuro non sono nostre.

Ma è falso anche questo.

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