Contro il cattivo ottimismo

Giuseppe De Filippi

La Brexit e la rivolta catalana arrivano come momenti tragicomici dell’ondata europea di esuberanza ottimistica irrazionale. L’idea che nulla potrà andar male ha inondato il mondo di fake news decliniste. Inchiesta su un populismo invisibile (sul quale tocca non essere ottimisti)

Ovviamente non siamo ottimisti, figuriamoci. Ci hanno costretti a questa sbornia di analisi positive, di letture incoraggianti, a questa sfida alla scaramanzia e soprattutto al dileggio. Non c’era altra scelta perché, come si dice paraculescamente per accomodarsi in zona torto, i posti dei pessimisti erano tutti occupati. E pure occupati male. E’ un ottimismo interinale quello in cui ci siamo schierati, senza articolo 18 e senza tutele crescenti, legato a fatti contingenti, tutto meno che assoluto. Ma che altra scelta di fronte al racconto nero che si fa ritratto di una nazione piegata dalla legge Fornero e di fronte allo sfruttamento della paura e alla induzione alla tristezza? Sì, è robetta, polemica giornalistica e politica corrente, ma provando a guardare tutte quelle vicende con il minimo indispensabile di onestà intellettuale ci sembrava, tanto per restare dalle parti della citata Fornero, delirante e anche moralmente vergognoso che, in sostanza, l’allungamento della vita media fosse diventato una brutta notizia. E lì rimane confinato il nostro ottimismo in leasing. Il pessimismo non va sprecato per queste cosette. E lo serbiamo per ciò che fa davvero preoccupare. Per capirci sono gli andamenti demografici e gli scontri tra civiltà a far paura, le vertigini vengono quando ci si affaccia sul vuoto di senso percepibile nel discorso pubblico europeo, perfino nell’iniziativa politica, ma non vengono se guardiamo ai numeri del debito pubblico o all’andamento dei crediti problematici o anche al tasso di disoccupazione e perfino ai famigerati dati sull’inquinamento. Guai risolvibili, magari con qualche sacrificio o con qualche colpo di furbizia (che consenta di prendere tempo o di diluire il peso del risanamento), tra gli equilibri mobili che continuamente si susseguono negli sviluppi economici e finanziari. Guai certamente non risolvibili col pessimismo e con il suo sfruttamento elettorale.

 

Si proclamano pessimisti o si atteggiano a gran realisti: sono invece gli ottimisti "unrealistic" scovati da Richard Thaler

Cerchiamo di rendere omaggio sempre al senso storico, da italiani che almeno un po’ orecchiano Giambattista Vico e Benedetto Croce. Questo ottimismo preso in prestito, che sbandieriamo come un cafonazzo mostrerebbe l’auto di lusso, almeno proviamo a infilarlo dritto nella storia e perciò ci ritorna intriso di tragicità, altroché. Mentre ci fanno paura i vicini di posto, che la storia l’hanno buttata via. E non sanno neppure di essere ottimisti. Certamente non lo confesserebbero, anzi, si proclamano ostinatamente pessimisti, che fa fico, o si atteggiano a gran realisti, “interpretiamo lo spirito del tempo, ciò che la gente vuole, e manteniamo le promesse”. Sono invece gli ottimisti unrealistic di Richard Thaler, e appunto ci voleva uno studioso di vaglia (e convinto dissacratore dei fondamenti tutti razionali dell’economia) per scovarli, definirli, strapparli alla loro attività sotto copertura. Due casi recenti, anzi, due casi in corso (e senza esito prevedibile, perché fuori dal senso storico sparisce anche la prevedibilità) ce li mostrano in azione e ci fanno preoccupare. Cominciamo dalla Gran Bretagna e dal suo voto ingestibile per abbandonare i legami operativi con l’Unione europea. I pazzerelli della Brexit, quelli della prima ora, sono perfino già usciti dalla scena politica. D’altra parte che ci stavano a fare? Hanno tuonato, hanno fatto gli spiritosi, hanno giocato al re è nudo (ma era vestitissimo), e hanno portato a casa come frontrunner situazionisti la vittoria referendaria, poi lasciata nelle mani di politici più professionali ma costretti a impegnarsi in una partita ormai impossibile. Il senso della storia sotto ai piedi e così perfino gli auspici pro integrazione europea di uno statista, lui sì realista e disincantato, come Winston Churchill, vengono abbandonati all’oblio. La logica della storia che va a farsi fottere, perché tanto cosa volete che succeda. Se la storia è finita (e Francis Fukuyama questa volta è innocente, e certamente non lo hanno letto) dell’Europa non ce ne può fregare di meno. A quella conosciuta si sostituisce una storia mitica, così se non ce n’è più per l’Europa data e reale allora si può ricorrere a una speciale fortuna britannica, a un destino segnato dall’Impero che si ricostruisce come comunità di amiconi e club commerciale pieno di fair play e di buoni affari. Sembravano cupi, pensosi dei loro destini, pronti a combattere le mani rapaci di Bruxelles sui borsellini britannici, sono invece degli unrealistic fatti e vestiti, dei dissennati, votati all’ottimismo della pigrizia (altro che volontà). E ora non sanno che fare, come è normale. Non è stata una sfida pazza, una battaglia senza speranze, la loro. Quella è roba da rivoltosi romantici, ed è perfino dotata di fascino. Nella insensata campagna per rimandare indietro la storia e staccare la Gran Bretagna dall’organizzazione politica e commerciale europea non c’è stato fascino né epopea, solo la terribile forza del convincimento più pericoloso che esista: l’idea che tanto andrà sempre tutto bene e che nulla di negativo ci può capitare.

 

Ottimismo insensato ma rivoluzionario in azione, invece, in Catalogna. Rapidamente è stata raggiunta e superata la soglia del ridicolo, tra richieste di chiarimenti sulla dichiarazione di indipendenza che ricordavano la scena della rapina in “Prendi i soldi e scappa”, quando Woody Allen presenta allo sportello il biglietto con l’intimazione a consegnare i soldi. 

  

In Gran Bretagna ha prevalso la logica della storia che va a farsi fottere, perché tanto cosa volete che succeda…

Il cassiere non riesce a leggere bene, comincia a discutere tra diverse interpretazioni della grafia, tra “siete sotto tiro” e “siete sotto giro”, chiama in soccorso filologico gli altri colleghi e tutto finisce con una specie di civilissima riunione nella stanza del direttore dell’agenzia per cercare di decrittare il testo della minaccia. Ma che vogliono ’sti catalani, ci si è cominciati dopo un po’ a chiedere in giro per l’Europa, mentre la commissione di Bruxelles e il governo di Madrid si riunivano come nella banca raccontata da Woody Allen per cercare di capire cosa diavolo ci fosse scritto negli ultimatum di Barcellona. L’ineffabile Carles Puigdemont, sostenuto da un’improvvisa ondata di ottimismo irrazionale, della storia non sapeva che farsene, tranne invocare i capitoli sulle repressioni franchiste in Catalogna. Una specie di vendetta postuma, un assurdo esprit de l’escalier politico. E anche un gioco, o quasi un esorcismo della pulsione ottimistica irrazionale: facciamola talmente grossa che non se ne possano trarre conseguenze reali (mica vorrete davvero l’indipendenza?) e mettiamo in vista tutte le follie che ci girano per la testa, scioriniamo ottimismo irrealistico così forse ce ne liberiamo. Una sfida a chi parla prima e la dice più grossa o sa toccare in modo più efficace le corde della commozione o quelle dell’indignazione, in attesa dell’applauso. Tutto nuovamente nella sicurezza che tanto la storia vale semmai solo per consumare questa specie di vendetta e per il resto non conta niente. Ne prendiamo un pezzetto, che è come dire non ne prendiamo nulla, e ci costruiamo il sogno ottimistico della nazione catalana, da far entrare poi nell’Unione europea e chissà che altro. Tutto andrà bene e nulla di inumano, rovesciando il precetto di André Glucksmann, ci riguarderà.

 

Una rivoluzione e una dichiarazione di indipendenza (che Thomas Jefferson li perdoni) che annegano nel ridicolo e nella versione burocratica del ridicolo: le proroghe. La rivoluzione prorogata è il contraltare comico della rivoluzione permanente. L’indipendenza procrastinata è uno spettacolo di stupidità. E Catalogna e Gran Bretagna sono ormai accomunate da questo milleproroghe eterno e non istituzionalizzato come il meraviglioso decreto ricorrente della legislazione italiana. La scadenza, il termine, sono effettivamente i più grandi nemici dell’ottimismo insensato, che non ha passato, perché la storia è roba da buttare, e banalmente non ha futuro. E quindi mette in moto processi il cui completamento sarebbe assurdo. Ne comporterebbe non semplicemente e sensatamente la fine ma la perdita totale di senso, o meglio il riconoscimento della condizione di insensatezza.

 

Brexit e rivolta catalana arrivano come momenti tragicomici dell’ondata europea di esuberanza ottimistica irrazionale, i cui primi segni si sono avvertiti negli anni Duemila

Brexit e rivolta catalana arrivano come momenti tragicomici dell’ondata europea di esuberanza ottimistica irrazionale, i cui segni si sono cominciati ad avvertire negli anni Duemila. Ma qualcosa nella consapevolezza politica era cambiato prima, con un processo che potremmo chiamare fine della paura. Le democrazie europee e ovviamente lo stesso disegno comunitario nel Dopoguerra funzionavano, permettevano di governare (non si nota mai come il meccanismo democratico fosse tutto sommato allora molto ma molto giovane e, da un punto di vista storico, poco sperimentato) e permettevano di avere una ricca dialettica politica, anche grazie alla persistente memoria della paura. Fascismo, nazismo, orrori delle deportazioni e orrori della guerra, stenti e sofferenze, tutti li ricordavano, di più, tutti, in qualche misura, li avevano vissuti, e i partiti democratici erano investiti di un rispetto e di una considerazione eccedenti ai loro stessi meriti, perché rappresentavano il dopo e l’alternativa a quelle tragedie. Non mancava il qualunquismo (la parola nasce proprio nell’immediato Dopoguerra) e non mancavano i populismi, semplicemente però non avevano spazio politico sufficiente a poter recare danni. La lettura populista dei fatti esisteva e circolava, ce la raccontano, anche involontariamente, i film e parte della narrativa dell’Italia dell’epoca, ma non aveva cittadinanza politica né influenza sul potere. Non solo per la paura persistente, ma certamente anche per la paura.

 

Tutti in Italia sapevano della morale non specchiata dei partiti, ne parlavano e ci scherzavano su perfino nella misuratissima Tv dell’epoca, ma mai avrebbero buttato via quell’impianto politico e quell’assetto generale del potere. Perché senza sarebbe stato peggio. Non un po’ peggio, ma tragicamente peggio. Piano piano la paura affievolisce, i ricordi veri, non semplicemente riferiti, svaniscono con chi li aveva vissuti con dolore, e il sistema del potere costruito sulla rappresentanza dei partiti, che da lì in avanti verranno chiamato tradizionali, diminuisce. La stagione del terrorismo interno e poi quella del terrorismo mondiale non determinano lo stesso effetto, o almeno non in misura sufficiente a rinsaldare i cittadini attorno alla rappresentanza politica. Perfino, con la loro strategia di piccoli colpi molto dimostrativi ma privi di una vera strategia, mettono invece in luce la debolezza dello stato, che non riesce a rispondere (e come potrebbe?) a nemici non individuabili, nascosti, non strutturati. Non ne nasce una coscienza collettiva di pericolo, ma, anzi, quasi una punta di disprezzo verso le istituzioni non in grado di assicurare la sicurezza. Quindi non è un colpo secco con tangentopoli, come si pensa normalmente, ma è un processo che parte almeno una decina di anni prima delle inchieste milanesi. E dà poi le basi per il colpo giudiziario che decapita la politica tradizionale. La citatissima caduta del Muro di Berlino non è solo un segno evidente della fine dell’influenza dei blocchi contrapposti (una delle architravi dell’assetto politico italiano) ma è anche un fortissimo segnale di fine della paura. Non c’è davvero più da temere, la Seconda guerra mondiale è proprio finita, ed è finita senza epopea, a picconate, e non nel segno della tragedia. E allora se non ci proteggete da niente, perché nulla dobbiamo temere, che volete voi politici? Scendete dalle auto blu, beccatevi le monetine, sprofondate tra gli sfottò, restituite i vitalizi, andatevene a fare in culo. Le ideologie hanno tenuto come la linea Maginot: non che mancassero armi e soldati, ma era sbagliata la strategia, non c’era velocità di risposta, i generali erano quelli che erano, e soprattutto bastava girarci intorno. Non nascono una nuova rappresentanza e la cosiddetta Seconda Repubblica perché finiscono le ideologie (Muro di Berlino eccetera), ma perché finisce la paura e alle ideologie si gira intorno, facendo ciao ciao dopo averle superate. Comincia così l’èra dell’ottimismo insensato anche in Italia, nella nostra versione nazionale, venata di abilità dissimulatrice, e perciò con le vesti del pessimismo.

 

E allora se non ci proteggete da niente, perché nulla dobbiamo temere, che volete voi politici? Scendete dalle auto blu, sprofondate tra gli sfottò, restituite i vitalizi

Tutto ciò ha una sua speciale declinazione economica. Il convincimento micidiale citato prima, ovvero l’idea che nulla potrà andar male, ha portato a un racconto del tutto fantastico della nostra storia economica recente e a interpretazioni inusitate delle vicende legate alla produzione di ricchezza, alla crescita, ai redditi e ai consumi. La traduzione corrente è che ogni generazione è rigorosamente destinata a stare meglio della precedente, che i figli staranno meglio, saranno più ricchi, dei genitori. Che i salari aumenteranno indefinitamente, come i valori immobiliari. Che un lavoratore dipendente, perciò, potrà accumulare ricchezza comprando la casa di famiglia per sé e per ciascuno dei proprio figli. E che le pensioni saranno sempre pagate dal flusso corrente dei contributi e le provvidenze dello stato sociale raggiungeranno tutti e saranno sempre crescenti. Il fatto che queste tendenze (non sempre tutte insieme) si siano verificate, almeno negli aggregati statistici, per un certo numero di anni ha creato l’idea di una loro naturale ineluttabilità. 

 

Nello stesso momento, a volte nello stesso discorso, c’è chi critica il mercato, distruttivo di un po’ di tutto (dal paesaggio rurale alle buone maniere, dalla formazione umanistica alla qualità alimentare) e poi ne invoca, anzi ne pretende, i risultati, così, subito, pronto cassa. E’ un motivo ricorrente anche nella nostra letteratura e nel nostro cinema. E nel trattamento riservato agli imprenditori di successo: una specie di “e ma che ci voleva e poi sarà stato aiutato chissà da chi”. Ottimismo pernicioso in azione, mettere su industrie che resistono sul mercato è facile, come fare una riforma costituzionale in sei mesi, basata appunto sulle tre o quattro cose necessarie, quelle che sanno tutti. Come tutti saprebbero tirar su una fabbrica e battere la concorrenza mondiale. La presunzione politica può allearsi con queste visioni: presunzione e ottimismo insensato, messi assieme, hanno sfondato pure la nostra storia economica. Il boom economico prima negato, poi disprezzato, dileggiato e posto all’origine della corruzione culturale, diventa così, infine, una specie di diritto acquisito. E’ la fine della paura (della povertà, dello sfruttamento, della stagnazione) applicata all’economia. E allora chi se ne importa più del mercato, della libera iniziativa, del funzionamento dello stato e della burocrazia, della stabilità monetaria, della giustizia efficiente, degli investimenti in capitale umano, della crescita del commercio mondiale, dell’apertura delle frontiere. Chi se ne importa più, insomma, di tutto ciò che, faticosamente e sia pure in modo non lineare, ha portato alla crescita dell’economia e dei redditi. L’ottimismo insensato (parente, ma talmente scemo da non essere neppure avido, dell’esuberanza irrazionale stigmatizzata da Robert Shiller) esprime la sua carica distruttiva anche nelle faccende economiche. E’ fatto di frontiere chiuse (tanto stiamo benissimo tra noi), di trattative sindacali svincolate dalla logica produttiva (chiedere a Pomigliano, dove gli ottimisti insensati non hanno prevalso solo per un pelo e grazie alla determinazione del campo avverso), di velleitarismi energetici (chiedete agli ottimisti veri, quelli razionali, che cosa rischiamo se non raddrizziamo le politiche per l’energia), e di velleitarismi agricoli (che, se applicati, ci porterebbero dritti dritti al razionamento e poi alla fame), di deliri valutari, di illusioni welfaristiche, di orge redistributive, di redditi di cittadinanza, di pensioni da talk-show. E di qualcosa di ancora più grave quando si va a toccare la sfera della salute personale, con la sacralità del corpo trasformata in una specie di rifugio per le proprie ossessioni, da cui l’anti-vaccinismo militante, ottuso, minaccioso. E anche l’attribuzione di responsabilità per le malattie, tipicamente il tumore, data con modalità casuali, a seconda delle idiosincrasie del momento, e ovviamente negando le cure tradizionali. Tanto, dice l’ottimista insensato, un po’ di aglio o qualche altra erbetta e passa tutto.

 

Il boom economico prima negato, poi dileggiato, diventa infine una specie di diritto acquisito. E’ la fine della paura
(della povertà, dello sfruttamento, della stagnazione) applicata all’economia

Una interpretazione più profonda, più fondata, certamente meglio articolata e più sistematica dell’idea di fine della paura ci viene dal tedesco Odo Marquard, uno dei filosofi più letti e studiati da Joseph Ratzinger. In una delle sue letture, poi trasformata in saggio da pubblicare, aveva dedicato una parte proprio al “mantenimento del bisogno di negatività”. Il suo intento era descrivere la nostra epoca come quella della estraneità al mondo. Cambiamenti tecnici e nelle conoscenze troppo accelerati inducono, diceva, una forma specifica di estraneità, che chiama tachiestraneità, perché causata proprio dalla velocità degli sviluppi scientifici e tecnologici. Ma bisogna partire da qualche sua parola precedente per andare a trovare i concetti con cui Marquard aveva perfettamente infilzato quelli che nei suoi anni, il testo è pubblicato nel 1981, erano i primi ottimisti insensati circolanti in Europa. E, guarda caso, i suoi argomenti vanno a parare polemicamente proprio dalle parti di Jean Jacques Rousseau. “All’incirca simultaneamente col contemporaneo trionfo delle filosofie del progresso e delle filosofie della decadenza si giunge – scrive Marquard (il suo linguaggio ha sempre un velo di ironia e di umorismo, che nel testo trascritto e quindi incompleto un po’ rischia di perdersi) – a quella che è stata definita la scoperta del fanciullo. Un bambino non è un adulto piccolo, bensì qualcosa di diverso da un adulto, vale a dire un bambino… Circa duecento anni fa, il Romanticismo, sotto l’influenza della dottrina rousseauviana del buon selvaggio, ha radicalizzato questa scoperta del bambino fino alla convinzione secondo cui il bambino è l’uomo autentico, mentre il divenire adulti, in quanto perdita dell’infanzia, sarebbe una caduta dalla condizione di uomo. Si tratterebbe cioè, nei termini di una storia della vita individuale, di ciò che, dal punto di vista della storia dell’umanità, è la moderna civiltà del progresso: storia della distruzione dell’uomo genuino, autentico, naturale, distruzione di quel buon selvaggio rappresentato nel nostro mondo estraniato ormai solo dal bambino.

 

E’ a partire da allora che i bambini, i giovani, sono considerati la misura dell’umano… diventare adulti è il peccato originale. Ad esso si sottrarrebbero, si dice, soltanto coloro che ricusano di diventare adulti. Costoro sono, credono alcuni, gli artisti oppure, pensano altri, i gruppi marginali e gli outsider (dallo stile di vita alla bohème fino ai gruppi alternativi di autocoscienza), tali sono, così vogliono i moderni movimenti giovanilistici, soprattutto i bambini, i giovani stessi. Non per caso essi esibiscono oggi un savage-look, l’uniforme del buon selvaggio; le figure che vediamo ciondolare arruffate e barbute non sono quelle di uomini rozzi e incolti, bensì sono citazioni dotte, citazioni da Rousseau”.

 

Ma poco più avanti Marquard comincia a smontare queste costruzioni sociali che vede intorno a sé. Dobbiamo necessariamente saltare alcune parti, provando però a mantenere, almeno approssimativamente, lo sviluppo logico del suo pensiero. Riguardo alla modernità ci dice e ne fa la propria tesi che “per gli uomini del mondo moderno è vero che non si diventa più adulti, dal momento che viviamo nell’epoca dell’estraneità al mondo… ma ciò che è nuovo è uno svantaggio specificamente moderno in termini epocali, caratteristico del diventare adulti, causato dall’accelerata velocità dei mutamenti moderni del reale”. Ciò avviene, sostanzialmente, per cinque ragioni, che qui possiamo accennare ma che sono tutte estremamente rilevanti per questa nostra riflessione sull’ottimismo esuberante, che porta con sé anche alcuni compagni di viaggio, tra i quali spicca il disprezzo per le competenze.

 

L’osservazione statistica tiene dentro tutto, storie di successo e drammi nazionali, ma nel conto finale mostra una straordinaria vittoria contro la povertà

Vediamole con Marquard le cinque ragioni. Si comincia dall’“invecchiamento accelerato dell’esperienza” e si passa poi all’“affermazione del sentito dire” (e scriveva anni prima dell’arrivo della rete). Marquard non condanna il ricorso al “sentito dire”, lo spiega, “sempre più – scrive – dobbiamo farci carico di esperienze che non siamo noi stessi a fare ma che conosciamo solo per sentito dire, attraverso informazioni dominate dai media specialistici, da quelli colloquiali o a sensazione, fino ai giornali illustrati, lo Spiegel, mettiamo. Ciò significa che nel nostro mondo, quanto più le esperienze vengono rese scientifiche, tanto più noi dobbiamo credere, e sottolineo perché suona paradossale: noi dobbiamo solo più credere al sentito dire, proprio perché le esperienze del mondo moderno vengono rese sempre più scientifiche… questo dover credere è sempre stata la condizione del bambino. Oggi, nel mondo moderno, è diventata la condizione normale dell’adulto, il quale, in questo modo, con un processo di accelerata estraneità al mondo, ridiventa in modo nuovo fanciullo”. Da qui la terza ragione e cioè “l’espansione della scuola”, cui segue la “voga del fittizio e della finzione” e infine il “crescente essere disposti all’illusione”. Siamo arrivati al punto che ci sta fortemente a cuore, “proprio perché le attese divengono nel loro insieme estranee al mondo, allorché alle illusioni positive succedono le delusioni, il risultato non è più il disinganno, bensì una sorta di ebbrezza negativa: le speranze eccessive non si ribaltano più in senso della realtà, bensì nel panico. Una testimonianza di questo è, mi sembra, l’inclinazione attuale a valutare negativamente la cultura del progresso”. Ci stiamo avvicinando, per gradi, ai nostri cari ottimisti insensati (vicini vicini, come sono, al pessimismo infantile). Purtroppo ancora bisogna saltare e andare dritti alle tesi, saltandone formazione e sostegni teorici. In seguito a questa condizione della modernità, scrive Marquard, succede che “quanto più il mondo moderno cancella orrori antecedenti, tanto più ora proprio ad esso si affibbiano orrori che, all’occorrenza, poiché non sono sufficientemente reperibili qui da noi, vengono procacciati tramite un turismo esotico in grado di certificarli. Quanto maggiore è il successo ottenuto dalla tecnica in quanto agevolazione della vita, tanto più la si esperisce senza remore come un aggravio della vita; quanto più di fatto essa rende possibile la conservazione dell’ambiente, tanto più viene definita un onere ambientale. Analogamente quanto più il capitalismo produce benessere, tanto più energicamente lo si definisce condizione di malessere; quanti più problemi il mercato risolve, tanto più appare esso stesso come il problema ed è solo perché i socialismi ad economia pianificata risolvono meno bene questi problemi che l’opposizione nei loro confronti è più blanda”.

 

Ci può bastare come casistica, calza perfettamente per definire l’atteggiamento dei nostri ottimisti insensati. Partono da lì, da quella specie di infantile disperazione, e si rifugiano nelle soluzioni ottimistiche e irrazionali. Disprezzo il mercato ma non so cosa voglio, la tecnica è un complotto e quindi fuggo nell’arcadia, il capitalismo è una schifezza e quindi via con la decrescita e con l’economia circolare. Ottimisti e disperati vogliono distruggere tutto della modernità, il mondo corre troppo, fa schifo tutto: la politica, la rappresentanza, l’impresa. I ragazzi nuovi, lanciati ottimisticamente in rivolta, ingenui e non corrotti, sono invece, per loro, meravigliosi. E le istituzioni sono un imbroglio da aprire come una scatoletta di tonno. Il buon Marquard capiva che tutto ciò poteva accadere e proponeva un antidoto. “Proprio questa crescente discontinuità tra passato e futuro spodesta l’esperienza e autorizza l’illusione, in particolare quella negativa. Al tempo stesso, però, si danno, in maniera compensativa, anche alcune decelerazioni: l’epoca dell’estraneità al mondo è, al tempo stesso, l’epoca delle continuità compensative. E’ per noi di vitale importanza richiamare favorevolmente l’attenzione proprio su queste continuità compensative, vale a dire sviluppare e coltivare il senso delle continuità”. Basandosi, proviamo a tradurre dal peculiare linguaggio di Marquard, su tre pilastri: il “senso storico”, il “senso delle abitudini”, la volontà di “tener fermo il rischiaramento”, inteso come adulto e consapevole uso della chiarezza nelle analisi, in chiave anti-utopistica. Siamo ritornati a noi, al tentativo, anche nella sfida fiorentina al dileggio e alla scaramanzia, di proporre una versione necessaria dell’ottimismo nel nostro discorso pubblico. Lavoro, crescita, investimenti, servizi, welfare, sicurezza, mobilità e tanto altro, tutte le variabili ordinarie della vita comune di un paese (quelle per le quali ci illudiamo vengano fatte le scelte elettorali), in Italia potrebbero andare meglio ma non vanno così male come viene raccontato.

 

Lo stesso, ma con addirittura maggiore fatica, si potrebbe e si dovrebbe dire osservando l’andamento dell’economia mondiale nel suo complesso. E’ osservazione statistica, che tiene dentro tutto, storie di successo e drammi nazionali, ma nel conto finale mostra una straordinaria vittoria contro la povertà, e le carte vincenti sono, con ogni evidenza, la diffusione delle conoscenze tecniche (non serve l’ultimo grido, ma basta che una tecnologia acquisita e anche superata nel mondo economicamente e produttivamente più avanzato venga diffusa in altre parti del pianeta per vedere risultati), la riduzione dei conflitti (sembra incredibile ma è un’altra variabile che sta migliorando e che non si prende in considerazione), e poi qualche elemento di mercato competitivo e una maggiore presenza di principi dello stato di diritto (particolarmente riguardo ai contratti), l’aumento in volume del commercio internazionale e l’aumento strutturale delle sue direttrici mondiali. Si tratta, nel valutare l’andamento di tutte le variabili citate, di “tener fermo il rischiaramento”. Un po’ di ottimismo, sensato, serve, per ordinare in modo logico le decisioni politiche (altrimenti c’è solo eterna campagna elettorale). Per il resto no, non siamo ottimisti.

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