La penisola dei Peter Pan

Francesco Cundari

Da anni la politica prova a darsi un tocco americano e da anni fallisce. E’ arrivato il momento di crescere e di prepararci a vivere con gioia nel paese che c’è: senza maggioranze e candidati premier. Inchiesta su una svolta culturale che ha già cambiato le nostre vite, e forse anche quella di Macron

Evocato, esecrato ed esorcizzato per oltre un quarto di secolo attraverso referendum e proposte di legge, partiti e movimenti costituiti al solo scopo di scongiurarne il ritorno, lo spettro del proporzionale è tornato infine a materializzarsi in una legge elettorale viva e pulsante. Con implacabile contrappasso, è stata proprio la disfatta dell’ultimo e più coerente tentativo di estirparlo definitivamente dalla politica italiana – l’ultimo di una lunga serie, che ha scandito l’intera storia della Seconda Repubblica ed è terminata con la sconfitta referendaria del 4 dicembre e la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum – a rimetterlo prepotentemente al centro della scena. Ma a dire la verità, quel venerabile fantasma non ha mai smesso di aggirarsi tra noi, popolando gli incubi dei suoi numerosissimi nemici così come i sogni dei suoi rari nostalgici. E ora che la sua ombra torna a proiettarsi sulle elezioni, nonostante la tenace resistenza dei tanti acchiappafantasmi di questi venticinque anni che ancora non vogliono darsi per vinti, è forse venuto il momento di porsi qualche domanda, e provare a raccontare la singolare parabola di un’ossessione che sembra non avere mai abbandonato il nostro dibattito pubblico.

 

A pensarci bene, però, ci sono due modi di raccontare questa storia. Un modo potrebbe consistere nel presentarla in termini del tutto astratti, scevri da ogni passione di parte, quasi si trattasse di stabilire la più esatta formulazione di una legge fisica. In tal caso, si potrebbe forse cominciare così: dall’introduzione del maggioritario a oggi, nessun leader politico italiano, con la sola eccezione di Silvio Berlusconi, è mai riuscito a trarre il benché minimo vantaggio dalle leggi elettorali che ha avuto modo di imporre ai suoi avversari.

 

Bisogna però aggiungere che, almeno fino all’ultimo e recentissimo caso del sistema tedesco affossato in aula dal Movimento 5 stelle, i protagonisti di questo gioco sono stati soltanto due: il centrosinistra, con i suoi molteplici leader, e il centrodestra, che di leader ne ha avuto sempre e solo uno. Per l’appunto, Silvio Berlusconi. Il che ci porta al secondo modo in cui è possibile raccontare questa storia.

Il nostro incipit potrebbe dunque essere riformulato così: dall’introduzione del maggioritario a oggi, tutti i leader del centrosinistra che si sono succeduti alla guida delle rispettive coalizioni sono rimasti vittime delle leggi elettorali che avevano sostenuto. Con atti o con omissioni.

 

Tutti i leader del centrosinistra che si sono succeduti sono rimasti vittime delle leggi elettorali che avevano sostenuto

Da qualunque parte la si voglia prendere, una cosa è certa. Nell’ultimo quarto di secolo la politica italiana è molto cambiata: partiti e culture politiche secolari sono scomparsi, nuovi partiti e nuove culture politiche si sono affermati; in politica economica come in politica estera, su tutti i principali problemi dell’Italia e del mondo, dai diritti dei lavoratori alla progressività fiscale, dalle questioni della pace e della guerra ai diritti civili, tutti i principali partiti al governo hanno dato prova di sempre maggiore pragmatismo e flessibilità, come si conviene a un’epoca generalmente definita come post-ideologica. Salvo su un punto.

  

Cacciato dalla porta delle grandi questioni di politica internazionale, sociale ed economica, infatti, il furore ideologico degli anni della Guerra fredda è rientrato dalla più improbabile delle finestre: il sistema elettorale. Nell’epoca dell’unipolarismo americano, quando ormai tutti i partiti si scoprono convinti sostenitori dell’occidente e dell’unica superpotenza rimasta in campo dopo l’89, le grandi mobilitazioni e le campagne di stampa capaci di infiammare intellettuali e militanti non riguardano più la minaccia golpista o la tenuta della democrazia, ma la tenuta del bipolarismo e la legittimità della quota proporzionale.

  

L’ombra della “restaurazione proporzionalista” e del ritorno alla Prima Repubblica ha tormentato i giorni e le notti dei riformatori con la stessa furia parossistica con cui la minaccia del complotto aristocratico e del ritorno all’Ancien Régime ha torturato le menti dei giacobini durante la Rivoluzione francese. Dal 1993 a oggi, almeno una volta all’anno, la minaccia del ritorno al proporzionale e il fantasma della Balena Bianca hanno alimentato sempre nuove campagne di purificazione ideologica e sempre nuove ordalie referendarie.

 

Leggi elettorali e riforme costituzionali sono stati per venticinque anni la preoccupazione costante e pressoché esclusiva della politica italiana. Non c’è questione di politica interna o internazionale di cui si sia discusso tanto. Né l’11 settembre, né la rivoluzione informatica, né la crisi economica mondiale hanno suscitato nulla di paragonabile nel nostro dibattito pubblico, né per intensità né per estensione. Il semplice elenco dei referendum dedicati a questa materia appare sufficientemente eloquente.

 

Elenco dei referendum sulla legge elettorale celebrati in Italia dagli anni Novanta a oggi:

 

9 giugno 1991 – Legge elettorale della Camera (preferenza unica). Vince il Sì.

18 aprile 1993 – Legge elettorale del Senato (introduzione del maggioritario). Vince il Sì.

11 giugno 1995 – Legge elettorale dei Comuni (estensione anche ai Comuni più grandi del maggioritario a turno unico). Vince il No.

18 aprile 1999 – Legge elettorale della Camera (abolizione della quota proporzionale). Non raggiunge il quorum.

21 maggio 2000 – Legge elettorale della Camera (abolizione della quota proporzionale, secondo tentativo). Non raggiunge il quorum. 

21 giugno 2009 – Legge elettorale della Camera e del Senato (abolizione dell’apparentamento e delle pluricandidature). Non raggiunge il quorum.

 

L’ombra del ritorno alla Prima Repubblica
ha tormentato i giorni
e le notti dei riformatori con furia parossistica

All’elenco di cui sopra, limitato esclusivamente ai referendum sulla legge elettorale, andrebbero poi aggiunti, per completezza, il referendum del 2001 sulla riforma del Titolo V della Costituzione promossa dal centrosinistra (approvata), quello del 2006 sulla riforma della seconda parte della Costituzione voluta dal centrodestra (bocciata) e naturalmente quello del 4 dicembre 2016 sulla riforma del Senato (bocciata pure quella, come si ricorderà).

 

Tralasciamo per misericordia del lettore l’infinità di battaglie parlamentari che hanno seguito, preceduto o sostituito quelle referendarie, e che hanno a loro volta occupato il dibattito politico per mesi. Se però ci limitiamo a riempire i pochi spazi vuoti rimasti tra un referendum e l’altro con il tempo occupato dalle campagne per la raccolta delle firme prima e per il voto poi, abbiamo un quadro approssimativo del tempo effettivo che il dibattito pubblico italiano e tutti gli elettori hanno dovuto dedicare alla discussione delle cosiddette “regole del gioco”. Un tempo talmente lungo che viene da chiedersi se e quanto ne rimanesse effettivamente per il gioco. Tanto da suggerire l’ipotesi che se in questi venticinque anni il disinteresse verso la politica è cresciuto vertiginosamente, in un paese che ai tempi della vituperata Prima Repubblica aveva sempre avuto tassi di partecipazione altissimi, la ragione forse è anche un po’ questa: che non se ne parla più. O almeno: non se ne parla più, se con politica intendiamo l’oggetto e lo scopo dell’attività, al di là delle regole e dei criteri di selezione del suo personale.

 

In altre parole, è come se per un quarto di secolo, al posto delle partite, agli appassionati di calcio fosse stata propinata da tutti i canali televisivi un’infinita serie di convegni specialistici sul regolamento del campionato di serie A. E’ ragionevole pensare che a quest’ora la maggioranza degli italiani si appassionerebbe di basket, cricket o hockey sul ghiaccio.

 

In nove anni, dal 1991 al 2000, in Italia si sono celebrati ben cinque – dicasi cinque – referendum sulla legge elettorale, alla media di uno ogni ventuno mesi. Se poi da questi ventuno mesi togliamo i tre mesi di campagna per la raccolta delle firme e almeno altri tre di campagna referendaria vera e propria (anche tralasciando, ripetiamo, tutte le riforme elettorali promosse e/o abortite nel frattempo per via parlamentare), l’intervallo di tempo libero tra una campagna referendaria e l’altra si riduce in media a un anno e tre mesi.

 

Il dibattito pubblico e tutti gli elettori hanno dovuto dedicare alla discussione delle cosiddette “regole del gioco” un tempo talmente lungo che viene da chiedersi se
e quanto ne rimanesse effettivamente per il gioco

All’attento lettore non sarà sfuggita, d’altra parte, un’evidente anomalia statistica. Un vuoto che si apre proprio verso la fine dell’elenco sopra citato, laddove il ritmo indiavolato delle consultazioni si interrompe con il referendum del 2000, per riprendere soltanto nel 2009. Bisogna peraltro precisare che la raccolta delle firme per il referendum del 2009 era stata avviata nel 2007, e che lo svolgimento della consultazione era stato rinviato di un anno a causa dell’improvvisa caduta del secondo governo Prodi.

 

Dunque, a rigore, l’unico lasso di tempo in cui in Italia il dibattito pubblico conosce un momento di tregua dall’implacabile successione delle campagne referendarie che chiedono di riformare la legge elettorale – ovviamente sempre in senso più maggioritario – va dal 2001 al 2006. Cosa succede dunque, in questi cinque anni, nel nostro paese? A cosa si deve questo improvviso acquietarsi della furia riformatrice?

 

In breve, quello che accade in Italia tra 2001 e 2006 è semplicemente che il centrodestra berlusconiano stravince le elezioni e governa tranquillamente per tutti i cinque anni della legislatura.

 

A guardare le cose in prospettiva, c’è poco da stupirsi. Sebbene, infatti, buona parte dell’elaborazione politico-culturale del movimento referendario nasca nell’area di centrosinistra, e per la precisione in quella terra di confine accademico-politica in cui si incontrano gli intellettuali della “destra” liberal del Pci e quelli della “sinistra” liberal della Dc, è tesi ormai largamente condivisa che il padre del bipolarismo italiano sia uno e soltanto uno: Silvio Berlusconi. Tesi certo non manifestamente infondata, che va tuttavia meglio precisata.

 

Il fatto è che l’ideologia del bipolarismo maggioritario, nata e affermatasi nel centrosinistra, anche con punte di fanatismo, ha trovato tuttavia il suo unico interprete di successo, paradossalmente, nel campo opposto. In altre parole, possiamo dire che del bipolarismo maggioritario il centrosinistra è stato il principale teorico, Berlusconi il principale beneficiario.

 

Del resto, si sa che un grande interprete lo si vede anche dalla libertà con cui, colto lo spirito di un testo, è in grado di servirsene e adattarlo a sé. Da uomo pratico, Berlusconi si è dunque tenuto all’essenziale. Ha lasciato ai pedanti ideologi della sinistra le tante e mai realizzate promesse sulla semplificazione del sistema (che nel frattempo, anche grazie alla pasticciata riforma del Titolo V, si è persino complicato), sulla drastica riduzione del numero dei partiti (che sono aumentati costantemente), sulla “costituzionalizzazione delle estreme” (che, lungi dal costituzionalizzarsi, hanno al contrario estremizzato le forze centrali). E si è concentrato sull’aspetto decisivo, vale a dire la divisione propagandistica dello spettro politico in due campi incomunicanti, ideologicamente e persino antropologicamente contrapposti. Cioè esattamente quel surrogato del Muro di Berlino di cui aveva bisogno per cementare un’ampia e variegata alleanza di centrodestra imperniata sul suo partito, ma soprattutto per proporre la sua Forza Italia come vera erede della Dc del ’48, e se stesso come nuovo campione di un fronte anticomunista che la caduta del comunismo rischiava di rendere altrimenti anacronistico e inverosimile.

 

Di qui l’esito paradossale delle elezioni del 1994, dove il fronte che sin dall’inizio si era battuto per l’introduzione del maggioritario di coalizione pensava bene di dividersi in due coalizioni diverse, con i Progressisti di Achille Occhetto da una parte e il Patto per l’Italia di Mario Segni dall’altra. Mentre sul fronte opposto, in nome del “modello Westminster”, il padre del bipolarismo italiano maggioritario arrivava alle elezioni talmente consapevole del suo ruolo che di poli ne guidava addirittura due: il Polo della Libertà al Nord (dove Forza Italia era alleata con la Lega) e il Polo del Buon governo al Sud (dove Forza Italia correva con Alleanza nazionale, che al Nord si presentava contro gli stessi candidati del fronte Lega-Forza Italia).

 

Come un meccanismo del genere, in cui gli stessi partiti erano alleati in alcuni collegi e si combattevano in altri per poi andare al governo tutti insieme, potesse rappresentare quel nuovo sistema che finalmente restituiva lo scettro all’elettore, semplificava il quadro politico e dava all’Italia stabili e moderni governi di legislatura, rimarrà sempre un mistero. Sta di fatto che la poliforme coalizione di centrodestra, alla prova del governo, regge per pochi mesi. Tra la fine del ’94 e l’inizio del ’95 si consuma il celebre “ribaltone”, la Lega abbandona la maggioranza in asse con il Pds di Massimo D’Alema e i centristi di Rocco Buttiglione, l’ex ministro del Tesoro del governo Berlusconi, Lamberto Dini, finisce a capo di un governo tecnico che ovviamente non è stato eletto da nessuno, e comincia così quella meravigliosa, infinita e a tratti vagamente inquietante telenovela di governi non-eletti ed eletti non governanti, coalizioni friabili e maggioranze componibili che avrebbe segnato il successivo quarto di secolo.

 



  

Alimentando vieppiù la furia riformatrice del movimento referendario, che a questo stato di cose reagirà con sempre nuove proposte di riforma e sempre nuovi referendum, ciascuno dei quali avrebbe dovuto dare finalmente all’Italia quel sistema più semplice e più stabile, con meno partiti e con istituzioni più forti, di cui si sarebbe continuato a discutere per oltre venticinque anni, senza vederlo mai.

 

Elenco dei leader del centrosinistra candidati e/o nominati alla guida del governo nella Seconda Repubblica:

 

1996 – Romano Prodi

1998 – Massimo D’Alema

2000 – Giuliano Amato

2001 – Francesco Rutelli

2006 – Romano Prodi

2008 – Walter Veltroni

2013 – Pier Luigi Bersani

2013 – Enrico Letta

2014 – Matteo Renzi

2016 – Paolo Gentiloni 

  

Elenco dei leader del centrodestra candidati e/o nominati alla guida del governo nella Seconda Repubblica:

 

1994-oggi – Silvio Berlusconi

 

Alle elezioni del 1994, il fronte che si era battuto per l’introduzione del maggioritario di coalizione pensava bene di dividersi in due coalizioni diverse, mentre sul fronte opposto il padre del bipolarismo italiano maggioritario arrivava al voto talmente consapevole del suo ruolo che di poli ne guidava addirittura due

Quello che colpisce, ripercorrendo la storia del bipolarismo italiano, non è tanto che ancora oggi vi sia chi rimpianga quella stagione – una stagione che nei libri di storia sarà ricordata come il ventennio berlusconiano – quanto il fatto che a rimpiangerla e a volerne rinverdire i fasti siano i nostalgici del centrosinistra. Ma soprattutto stupisce che ancora se ne parli come se si sapesse esattamente, mentre se ne parla, di cosa si sta parlando.

 

Il fatto è che il bipolarismo italiano è stato rappresentato finora come un sistema fondato su due schieramenti contrapposti, due distinte sfere collocate l’una di fronte all’altra, separate da un abisso incolmabile. Ma non c’è nulla di più falso.
Prendiamo il caso del campione indiscusso del movimento referendario: Mario Segni. Sull’onda del successo ottenuto con il primo referendum che da allora porterà il suo nome, quello sulla preferenza unica, fonda Alleanza democratica. L’obiettivo è la costruzione di quel polo progressista che dovrebbe rappresentare uno dei due cardini del bipolarismo italiano. Ma già alle prime elezioni con il nuovo sistema maggioritario questo campione del bipolarismo, che tutti gli schieramenti vorrebbero candidare alla presidenza del Consiglio, abbandona la sua creatura (che andrà con i Progressisti di Occhetto), fonda un altro partito (il Patto Segni) e comincia la campagna elettorale annunciando un accordo con la Lega Nord, solennemente sottoscritto da Roberto Maroni e platealmente stracciato da Umberto Bossi un minuto dopo. Quindi ripiega su un classico terzo polo con i Popolari di Mino Martinazzoli. Infine, vuoi per l’inedita posizione da campione del bipolarismo che si propone come terza forza centrista, vuoi per l’intempestivo abbraccio con la Lega, va a finire che proprio lui – l’uomo che fino a pochi mesi prima, secondo tutti i sondaggi, l’80 per cento degli italiani voleva come presidente del Consiglio – non riesce a vincere nemmeno nel suo collegio in Sardegna. In Parlamento ci entra, sublime ironia della politica, grazie alla quota proporzionale.

 

Non per questo si perde d’animo. Certo, nel 1996 annuncia l’intenzione di tornare all’insegnamento universitario, mentre quel che resta del Patto Segni, senza più Segni, confluisce nella lista Dini, quindi nel centrosinistra. Lui torna tuttavia in campo tre anni dopo, per la doppietta referendaria del 1999-2000. Nel frattempo, non cessa di intrecciare all’inesauribile sforzo per dare all’Italia un sistema bipartitico, o almeno bipolare, la costante creazione e disseminazione di nuovi partiti e nuovi movimenti, tutti rigidamente bipartitisti, per l’intero arco parlamentare. Alle europee di quello stesso indimenticabile ’99, ad esempio, promuove una lista unica con Alleanza nazionale. E così, se Arturo Parisi, sempre in nome del bipolarismo, promuove nel centrosinistra l’ennesimo partitino sotto il simbolo dell’asinello dei Democratici, Segni fa altrettanto a destra, adottando l’immagine dell’elefantino dei Repubblicani americani, a dimostrazione della coerenza di una vita spesa all’inseguimento del sogno bipartitico. Gli elettori, però, continuano a non capire: la lista Segni-An raccoglie appena il 10 per cento. Alle precedenti europee, An da sola aveva preso il 12. In compenso, essendo quella delle europee l’unica legge interamente proporzionale rimasta in Italia, Mario Segni è eletto anche questa volta.

 

Il caso di Mario Segni è comunque solo un esempio, che ci serve per illustrare come il bipolarismo italiano, al di là della propaganda, non sia affatto rappresentabile con l’immagine dei due aggregati distinti e contrapposti, ma piuttosto come un continuum. Le coalizioni sono a tutti gli effetti una materia fluida, vivente, in perpetua ebollizione: un brodo primordiale nel quale ora confluiscono e dal quale ora si distaccano un’infinità di micro-organismi, in formazioni sempre cangianti eppure, in qualche modo, sempre uguali a se stesse. Il grande mistero della vita.

 

Vale per il centrodestra e vale forse a maggior ragione per il centrosinistra. Per esempio, anche volendo sorvolare sull’infinita serie di scissioni e ricomposizioni di tutte le diverse filiazioni della diaspora post-ex-neo comunista e socialista, e dunque limitandoci al lato centrista della coalizione, chi potrebbe dire con esattezza quali partiti ne facciano parte, e quali no?

 

La vita delle coalizioni nella Seconda Repubblica è caratterizzata sin dall’inizio da un continuo, vorticoso brulichio
di particelle che incessantemente
si incontrano e si scontrano, per poi scindersi e quindi ancora ricomporsi

Giunto a questo punto, immaginiamo che l’ingenuo lettore comincerà a contare tra sé e sé, richiamando con qualche sforzo alla memoria le sbiadite figure di quell’antica saga: Margherita, Udr, Udeur… Ma cosa potrebbe replicare se qualcuno lo interrompesse d’un tratto, domandandogli a bruciapelo: “E il partito di Mastella, quante volte lo hai contato?”. Perché il primo problema che si trova davanti chi voglia seriamente dare una definizione delle coalizioni del bipolarismo italiano sta proprio qui: nelle duplicazioni.

 

Per essere precisi, bisogna dire subito che alla domanda appena formulata non è possibile dare una risposta esatta. Certo, in modo superficiale, potremmo dire che la risposta giusta è “tre volte”, giacché effettivamente Clemente Mastella è stato con la sua pattuglia uno dei promotori dell’Udr prima e dell’Udeur poi, la quale a sua volta è stata, per qualche tempo, tra i partiti-componenti della Margherita. Del resto, la stessa Margherita è nata a sua volta dall’aggregazione tra Lista Dini, Democratici, Popolari di Pierluigi Castagnetti e, per l’appunto, Udeur.

 

A questo proposito non si può però fare a meno di notare che i Popolari di Castagnetti e l’Udeur di Mastella, diverse scissioni e ricomposizioni prima, erano già nello stesso partito – la Dc – da cui del resto proveniva anche, originariamente, quello stesso Patto Segni poi confluito nel partito di Dini, a sua volta confluito nella Margherita. Senza dimenticare che ben due su quattro dei partiti appena citati (Lista Dini e Udeur) non si limitavano a popolare in diverse configurazioni la coalizione di centrosinistra, ad esempio fuori o dentro la Margherita, ma passavano spesso anche da una coalizione all’altra.

 

Non entriamo poi nella genesi dei diversi partiti che componevano ciascuno degli altri partiti che a loro volta componevano la Margherita, perché non finiremmo più. Quello che ci preme sottolineare è che la vita delle coalizioni nella Seconda Repubblica è caratterizzata sin dall’inizio da questa perpetua danza dionisiaca di accoppiamenti improvvisi e smembramenti reciproci, da questo continuo, vorticoso brulichio di particelle che incessantemente si incontrano e si scontrano, per poi scindersi e quindi ancora ricomporsi in sempre nuove aggregazioni.

 

Di conseguenza, tornando alla domanda da cui eravamo partiti, definire esattamente il momento in cui l’elettrone-Mastella, per dir così, compie il salto da una coalizione all’altra, stante il principio di indeterminazione di Heisenberg, è tecnicamente impossibile. Al massimo, utilizzando le categorie della fisica quantistica, possiamo parlare di una probabilità, entro un dato intervallo di tempo, di trovare il partito di Mastella nell’orbita del centrosinistra piuttosto che del centrodestra. Una probabilità che verosimilmente tenderà a crescere all’approssimarsi della suddetta coalizione al governo del paese e a scemare in prossimità della sconfitta (variante di quello che nella vita interna del Partito democratico è conosciuto come principio di determinazione di Franceschini).

 

La verità è che il sistema politico italiano, nel corso di questi venticinque anni di maggioritario, non si è avvicinato al modello promesso dai suoi sostenitori più di quanto i paesi del socialismo reale si siano avvicinati al modello della società comunista. E allo stesso modo, infatti, i sostenitori dell’una e dell’altra ideologia hanno replicato alle smentite della storia. Il modello è perfetto, hanno ripetuto in coro, è stato solo applicato male. Ma una teoria che sia stata sempre e sistematicamente applicata male, in tutte le circostanze in cui si sia cercato di applicarla, forse è una cattiva teoria.

 

L’Italicum, in fondo, non è stato che l’ultimo e il più coerente tentativo di portare a compimento questa infinita transizione.

 

La legge elettorale e la riforma costituzionale promosse dal Pd potranno piacere o non piacere, ma è evidente che se il Senato avesse perso il potere di sfiduciare i governi e la maggioranza alla Camera fosse stata attribuita con un ballottaggio nazionale tra le prime due liste, c’è poco da dire, la sera stessa del voto gli italiani avrebbero saputo il nome del vincitore, secondo il ritornello che lo stesso Renzi aveva ripreso dalla propaganda del movimento referendario.

 

Fallito anche quest’ultimo tentativo, non si capisce quale altra diavoleria si dovrebbe inventare, con tre poli sostanzialmente equivalenti in campo, per realizzare quel bipolarismo che non si è riusciti a costruire quando erano due, in venticinque anni di inesausti sforzi riformatori. E cioè sin dai tempi dei primi referendum Segni degli anni Novanta, quando c’erano ancora l’Unione sovietica e i telefoni a gettoni, e per vedere una partita di campionato bisognava andare allo stadio.

 

Nel tempo in cui l’Italia discuteva su come conformarsi al modello americano, infatti, l’egemonia della superpotenza statunitense ha fatto in tempo a estendersi all’intero pianeta e poi a declinare. Il mondo è passato dall’unipolarismo al grande disordine di oggi, segnato al tempo stesso dalle conseguenze della crisi economica e dall’emergere di nuove potenze.

 

Come scriveva Charles Kupchan già nel 2012 in un libro illuminante (“Nessuno controlla il mondo”): “Lo scenario che sta emergendo è contraddistinto da una diffusione del potere e da una diversificazione dei sistemi politici”. Il pacchetto privatizzazioni, apertura dei mercati, adozione di sistemi elettorali maggioritari e riforme istituzionali incentrate sul rafforzamento dell’esecutivo, che componeva la ricetta passepartout degli anni Novanta, è ormai da tempo tornato in discussione, anzitutto nei paesi guida di quel modello: gli Stati Uniti di Donald Trump e la Gran Bretagna alle prese con Brexit.

 

Persino nella Francia che ha appena trionfalmente eletto Macron all’Eliseo e dato una netta maggioranza al suo neonato partito anche alle legislative, con somma invidia di tutti i riformatori di casa nostra, si discute di riforma elettorale proporzionale, o quanto meno di una “quota proporzionale” da introdurre nel sistema attuale (buona fortuna).

 

Solo in certe aree del centrosinistra italiano, insomma, come in quei remoti isolotti del mar del Giappone al termine della Seconda guerra mondiale, combattivi gruppetti di intellettuali e politici resistono strenuamente, a difesa dell’ultima trincea del bipolarismo mondiale.

 

Del resto, buona parte dell’intellettualità democratica si è abituata in questi anni a discutere delle virtù del turno unico all’inglese o del doppio turno alla francese con la stessa cieca fiducia con cui i marxisti degli anni Settanta spiegavano la caduta tendenziale del saggio di profitto e altre indubitabili leggi della storia. Sono passati direttamente dal socialismo scientifico all’ingegneria istituzionale, senza perdere nulla del fervore ideologico-escatologico della loro giovinezza.

 

A dimostrazione di quanto profonda sia stata la mutazione rispetto alle generazioni precedenti, si può leggere con quale disincantata laicità Palmiro Togliatti, ai tempi della discussione sulla legge elettorale in Assemblea costituente, replicava alla lettera in cui Umberto Terracini si diceva convinto che il Pci non dovesse abbandonare la richiesta del sistema uninominale per un accordo al ribasso con la Dc (oggi si direbbe certamente “un inciucio”).

 

“La pregiudiziale che tu sollevi – replicava il segretario – e cioè che data la nostra lotta contro la Dc non dovremmo venire a nessun accordo con essa, non ha consistenza. E’ una posizione massimalistica. Si sta discutendo una legge elettorale, e a noi spetta il compito di arrivare alla soluzione nel complesso più favorevole a noi”. Togliatti spiegava poi come in linea di principio i comunisti fossero proporzionalisti, e avessero presentato la “proposta uninominalista” solo per escludere la formazione corporativa del Senato. E soprattutto aggiungeva: “Per un grande partito, tutti i sistemi elettorali su per giù si equivalgono, ammessa la imparzialità nella distribuzione delle circoscrizioni. Quello che si perde da una parte, lo si guadagna dall’altra”. Fine della riflessione togliattiana sui pro e contro dei diversi sistemi elettorali.

 

Ma è pur vero che allora – in quei tempi oscuri, ai primordi della deprecata Prima Repubblica, oggi per noi così lontani e indecifrabili – la politica italiana si divideva su questioni come il pericolo di una nuova guerra mondiale, i diritti dei lavoratori o la distribuzione della ricchezza, invece che sulla distribuzione dei collegi.

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