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La Svizzera non è il canton grillino

Maurizio Crippa

La Svizzera, o il paese “a un passo dalla felicità”. Fuori dall’Unione, pacifista e armato, locale e globale. Fondato sul federalismo, la democrazia diretta e il sacro totem del referendum. Sembra il paradiso in terra del sovranismo realizzato. Invece è un’Europa in miniatura. E funziona per questo

Ora mi scusi, ma devo andare a votare. C’è un importante referendum sull’energia nucleare e uno sulle tasse locali per i rifiuti”. Una domenica mattina, domenica scorsa a Lugano. Il professor Mauro Baranzini, oggi emerito di Economia dell’Università della Svizzera Italiana, a lungo docente al Queen’s College di Oxford, è arguto e gentile, mentre spiega perché la Svizzera è “il paese (quasi) più felice del mondo” e perché è difficilmente esportabile, per esempio in un posto come l’Italia. La motivazione con cui chiude la telefonata è la più svizzera che si possa concepire: ci sono due referendum da votare. Racconta di quella volta che una consultazione locale bocciò il progetto di istallare due bagni pubblici sul lungolago di Ascona, per spiegare i paradossi del vivere tra l’infinitamente piccolo e il decisamente grande, un su e giù tra cime e valli da vertigini. Domenica 21 maggio la Confederazione elvetica ha votato con il 58,2 per cento di Sì un piano che impegna il governo all’uscita dal nucleare civile, con lo spegnimento progressivo dei cinque reattori attivi, e al contempo ad accrescere entro il 2050 l’energia da fonti rinnovabili e persino a ridurre i consumi individuali. Per proteggere l’ambiente. Con un referendum. Certo, era capitato anche in Italia. Ma la Svizzera è stata il primo paese nel mondo a puntare sull’energia atomica (la centrale di Beznau, Canton Argovia, fu inaugurata nel 1964 quando l’Euratom, la Comunità europea dell’energia atomica, aveva appena cominciato a camminare). Che cambi strada dopo cinquant’anni, effetto Fukushima, la dice lunga sulle mutazioni della pubblica sensibilità ma anche sul potere dei referendum. Tra un anno, nel 2018, gli svizzeri andranno a votare per l’abolizione del canone per la radiotelevisione pubblica, oggi finanziata per il 70 per cento dalla tassa. Vincesse il Sì, il servizio pubblico rischierebbe lo smantellamento e la privatizzazione. Ditelo a Matteo Renzi: era così semplice.


Illustrazione di Vincino


 

La Svizzera è anchea un passo per gli italiani, con la loro quota di frontalieri in aumento nonostante tutto.

La Svizzera è a un passo da tutto. Un sistema perfetto a un passo dalla felicità. Ma come ogni specchio, sembra soltanto a portata di mano. E’ a un passo per gli italiani, con la loro quota di frontalieri in aumento nonostante tutto. Ma anche la Francia è a un passo da Ginevra, la città più globale, e pure cara, del mondo. E allora i frontalieri diventano loro, quelli che lavorano a Ginevra ma vivono di là dal confine, in quella Francia che Marine Le Pen avrebbe voluto far diventare una specie di Svizzera, sigillata contro l’Europa. Anche Costanza è vicina, di là da un braccio ceruleo di lago. Solo che di là sono tedeschi, e dicono: “Gli svizzeri? Una piaga”. Qualche mese fa è scattata un’operazione in grande stile di multe e rimozioni forzate contro i “turisti degli acquisti” targati CH che quotidianamente invadono la cittadina tedesca dove tutto costa meno. “Ci intasano le strade del centro. Con questi posteggi selvaggi bloccano anche i mezzi di soccorso”. L’Europa dei muri e dell’ordine ha anche i suoi rovesci.

 

A volte è il rifugio della libertà dalle altrui barbarie; a volte è il luogo arcigno e separato, fuori dal pazzo mondo

A un passo dalla felicità. Come la volpe e l’uva. E sempre di moda. Rifugio, fuga o modello sociale. Con un suo certo movimento a pendolo (vietato pensare ai cucù, o a Foucault). A volte è il rifugio della libertà dalle altrui barbarie; a volte è il luogo arcigno e separato, fuori dal pazzo mondo. Noioso sempre, e noioso mai. Non è più neanche la Svizzera di una volta, deragliano i treni ad alta velocità e c’è stato pure un leggero terremoto. Sopravvive il mito di una metodica indolenza, condensata nella celebre battuta dello scrittore zurighese Hugo Loetscher, gloria delle lettere e del giornalismo: “Se Dio fosse svizzero, starebbe sempre aspettando il momento giusto per creare il mondo”. Ma nel pendolo immaginario, nel nostro transfrontalierismo ideale, uno degli elementi di maggior fascino è senza dubbio il sacro totem della democrazia diretta che funziona. Che importa se il referendum contro il canone potrebbe azzerare la maggiore industria culturale a controllo partitico e a parità linguistica e di bilanci, e disintegrare la stessa comunità nazionale, come pensano in molti? Il professor Baranzini, si badi bene, all’istituto tiene molto. E non soltanto perché è cittadino svizzero. Ma perché fa parte di quel sistema decisionale “botton-up vs. top-down” – ovvero un sistema federalista in cui le spinte partono dal livello più basso per ottenere poi risposte da quelli più alti – che, dice, è uno dei meccanismi più precisi prodotti dal paese. L’economista lo spiega, ad esempio, nel saggio introduttivo a un libro pubblicato qualche mese fa da Armando Dadò, l’eccellente editore locarnese: La Svizzera - Il paese più felice del mondo, dello storico franco-svizzero François Garçon.


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Che la Svizzera sia il paese più felice del mondo è, sotto il profilo della percezione psicologica e sociale, opinabile come tutte le classifiche: dipende dallo sport e a quale campionato si è iscritti. Ma, come i ranking Fit, i dati che certificano la posizione di Roger Federer sono inconfutabili. Nel 2015 in cima all’Happiness Report dell’Onu c’era la Confederazione. Nel 2017 è quarta classificata (dietro a Norvegia, Danimarca e Islanda). Tutti hanno subito pensato: isolamento ed essere in pochi (meno di dieci milioni di abitanti per ognuno).

 

La Danimarca è fuori dall’eurozona, Norvegia, Islanda e Svizzera proprio fuori dall’Unione. Indipendenza, ricchezza, niente superburocrazie esterne sono i segreti del successo. E un basso coefficiente di Gini, il valore che misura la diseguaglianza economica. “La ricetta svizzera della felicità risiede anche altrove”, spiega Baranzini. E’ il frutto di un sistema paese che funziona, con le sue “tre E”. Nell’ordine: è “efficiente” – dall’organizzazione del lavoro ai processi di bilanciamento tra sistema pubblico e privato. E’ “efficace” per il basso livello di pastoie burocratiche e per il buon funzionamento “dal basso all’alto” federale. E’ “equo” perché le diseguaglianze economiche e sociali vengono combattute dall’ente pubblico a ogni livello, con una delle migliori redistribuzioni del reddito a livello europeo. Fuori dell’Europa. Ben arginata sul fronte dell’immigrazione, armata fino ai denti. L’eccellenza cui tutti aspiriamo. Oppure la nazione del populismo e dell’antieuropeismo realizzati. Dipende da come la si guarda. Secondo Baranzini, però, è un modello difficile da esportare. “Ma almeno serve più democrazia, in Italia. E almeno un rapporto più diretto con lo stato. Qui c’è una grande cura del rapporto con i cittadini, per questo l’indice di fiducia nel governo è così alta”.

 

Where Swissness grows

L’indipendenza, la ricchezza, l’assenza di superburocrazie esterne sono i segreti del successo. Il “marchio Svizzera”. La difesa dei diritti, un mito che va e viene

In realtà il segreto del suo successo si è modificato parecchio nel tempo, negli ultimi tempi. Perché il massimo di localismo, la piccola Heimat difesa dalle sue ininterrotte catene di monti, corrisponde al massimo della globalizzazione. Gli altri continuano a chiamarla “la Svizzera”. Loro la chiamano “Swissness”. Il progetto Swissness, approvato nel 2013 e in vigore dall’inizio del 2017 riguarda la regolazione del “marchio Svizzera”. Non è una faccenda politica. E’ la nuova legge sulla protezione dei marchi cui devono uniformarsi tutti gli operatori economici elvetici per poter sfruttare la “svizzerità” (secondo la traduzione italiana ufficiale) a fini pubblicitari e commerciali. Uno studio del 2014 su “Immagine della Svizzera e valore aggiunto nel marketing internazionale” certifica che “la Svizzera ha un posizionamento molto chiaro. In patria come all’estero le associazioni più ricorrenti sono cioccolata, orologi, banche, montagne/Alpi e formaggio”. E fin qui, siamo sempre nei paraggi di Hitchcock quando spiegava che, se vuoi fare un film di successo ambientato in Svizzera, devi metterci le montagne e il cioccolato: “Se no, fai un film d’autore, ma è un’altra cosa”. I consumatori apprezzano il “marchio Svizzera”. I prodotti e i servizi così etichettati godono di una reputazione straordinaria sia in patria che all’estero, e si può richiedere un prezzo più alto rispetto ai corrispettivi prodotti di altra o sconosciuta origine. La croce svizzera, o “un altro accattivante simbolo svizzero”, premiano. In futuro, per presentarsi con la croce svizzera, un alimento dovrà essere stato prodotto qui per le sue parti essenziali. Materia prima autoctona almeno all’80 per cento. Una bottiglia di Valser, ad esempio, dovrà contenere almeno l’80 per cento di “acqua Valser dalle montagne di Vals”. La legge esclude le materie prime non disponibili in Svizzera. “Nessun consumatore si aspetta che la cioccolata svizzera sia prodotta da chicchi di cacao coltivati in Svizzera”. (Sull’olio di palma, non ci sono indicazioni). Ma la cosa importante è che l’immagine della Svizzera è un valore aggiunto internazionale. E’ la messa a frutto di un “sistema paese”. Noi siamo lontani anni luce.

 

Il sogno (tutto nostro) della democrazia digitale

Il massimo di localismo, la piccola Heimat difesa dalle sue ininterrotte catene di monti, corrisponde al massimo della globalizzazione. Zug è il gioiello più ricco della Confederazione, una Singapore medievale e di cristalli specchiata nell’acqua. Ha quasi più imprese che abitanti

Zug è il gioiello più ricco della Confederazione, una Singapore medievale e di cristalli specchiata nell’acqua. Ha quasi più imprese che abitanti, trentamila a trentamila. Il più piccolo dei cantoni svizzeri è la più beata delle oasi fiscali elvetiche. L’elenco dei residenti-expat di lusso ve lo risparmiamo. In più, i trenta chilometri della stretta valle che congiungono Zug a Zurigo sono da anni chiamati “Crypto Valley”, un paradiso non solo fiscale ma di altissima tecnologia in cui si concentrano, tra l’altro, le innovazioni sulla sicurezza informatica a ogni livello. Il paradiso possibile per tutti gli idolatri della democrazia 2.0. Quelli del clic insomma. Però nell’aprile scorso la giornalista Adrienne Fichter di swissinfo.ch, esperta di democrazia digitale, ha pubblicato un lungo articolo molto critico: “In tutto il mondo iniziative dei cittadini e start-up sperimentano nuove forme di partecipazione politica tramite il web. E cosa fa la Svizzera? Ha perso il treno di questa nuova tendenza, a dispetto del fatto che, quale ‘campione del mondo di democrazia diretta’ sarebbe stata predestinata per il loro sviluppo”. Spiega che “in Germania e Portogallo, i cittadini si esprimono per via elettronica sul bilancio dei loro comuni. In Australia e Argentina, gli elettori potranno probabilmente presto votare direttamente in questo modo. In Estonia, si riceve una sorta di cittadinanza virtuale che permette di fondare aziende. E cosa succede in Svizzera in materia di democrazia digitale? Praticamente nulla!”. Paradossalmente, uno dei problemi sarebbe proprio il federalismo. Hannes Gassert, politico e imprenditore considerato un “pioniere in campo di dati aperti”, spiega: “Uno dei motivi della mancanza di un innovativo cluster della democrazia elvetico è l’autonomia molto pronunciata dei cantoni nella struttura federale della Svizzera. La competenza cantonale per votazioni ed elezioni è una vacca sacra inviolabile, diversamente si sarebbe probabilmente molto più avanti con l’e-vote”. Così “da anni, la Svizzera stagna a metà delle classifiche internazionali”. E forse abbiamo infilato una pulce nell’orecchio di chi vuole la web democracy.

 

Qualche mese fa la Svizzera aveva deciso di chiudere in via sperimentale, dalle 23 alle 5 del mattino, tre valichi di frontiera con l’Italia: Pedrinate-Colverde e Novazzano-Ronago in provincia di Como, e di Ponte Cremenaga, Varese. Schengen o non Schengen. Tutto nasceva da una petizione della Lega dei Ticinesi per contrastare l’ingresso ai malavitosi provenienti dall’Italia che nottetempo commettono reati oltreconfine (curiosamente, tutti i dati federali sui reati sono in costante calo). In realtà quel che da sempre irrita i ticinesi sono i frontalieri diurni, che aumentano sempre. Per chi conosce la zona, il massimo della minaccia di massa è la movida di quelli che “van su a Lugàn” a far bisboccia, come cantava Van De Sfross, e il fiorente frontalierismo dei bordelli tipo Las Vegas. Scambi culturali più caotici che pericolosi con gli svizzeri in gita ad outlet e centri commerciali. Ma la bizzarra guerricciola di cortile, con sbarre di plastica bianca e rossa a fermare lo straniero, la dice lunga su un altro aspetto della nostra mitologia: sicurezza, e padroni a casa nostra.

 

La Svizzera come paradiso referendario è tornata di moda nel dibattito europeo quando nel 2014 un referendum stabilì che l’ingresso degli stranieri dovesse essere contingentato. Per le cancellerie e la stampa internazionale la Confederazione era pericolosamente tornata a essere “xenofoba”

La Svizzera come paradiso referendario è tornata di moda nel dibattito europeo quando nel 2014 un referendum intitolato “Contro l’immigrazione di massa” stabilì che l’ingresso degli stranieri dovesse essere contingentato. Per le cancellerie europee e la stampa internazionale la Confederazione era semplicemente, pericolosamente, tornata a essere “xenofoba”. Per migliaia e migliaia di persone, non solo in Svizzera ma sui social di tutta Europa, quel voto era la dimostrazione che esiste un luogo in cui ci sono veramente i diritti politici, e la facoltà di determinare il corso degli eventi. La Brexit non era ancora arrivata, ma il 9 febbraio del 2014 il referendum – lo spettro che s’aggira per l’Europa – apparve. La democrazia diretta, lo strumento principe di ogni populismo, uno vale uno. Nonostante il referendum del 2014, il mito svizzero delle piccole patrie protette da molteplici muri vacilla ed è ambivalente. A partire dai simboli più popolari, come la “Nati”, la nazionale di calcio, che da anni sfoggia un calcio brillante grazie alla sua composizione multietnica e balcanizzata.

 

E se la demografia ha ripreso il segno positivo, il fattore è proprio l’immigrazione: 75 mila persone in più nel 2016, la cifra più alta dal 2005, con i cittadini stranieri che aumentano del 2,5 per cento: ora sono 2 milioni e centomila, il 24,9 per cento della popolazione. Non è un paese per giovani: gli svizzeri sono più vecchi degli stranieri e il rapporto è di 29 over 64 ogni 100 persone in età lavorativa. Quindici cantoni hanno già superato questo rapporto, in testa il Ticino.


Foto di Tobias Van Der Elst via Flickr


Il fantasma della libertà

Il luogo da cui si vogliono far passare tutte le trame segrete del mondo, i fiumi carsici della finanza, le reti onusiane, lo spionaggio, i traffici di armamenti. Adesso, da noi, va molto di moda la dolce terra della dolce morte. Pure Beppe Grillo ha lodato il paese dell’eutanasia e delle case chiuse

Ciò che noi latini, e in generale noi figli di burocrazie ottusamente napoleoniche o borboniche invidiamo alla Svizzera è la qualità adamantina della sua difesa dei diritti. Mito che va e che viene. Ma che in mezzo ai totalitarismi novecenteschi e alle guerre mondiali ha trovato una sua caratura definitiva. Non è solo questione di andare a votare per ogni cosa. E’ il tema della libertà. Che fa rima con neutralità e con un culto dei diritti civili e individuali che da sempre fa della Confederazione la mecca dell’espatrio. Le radici sono antiche, e hanno segnato in profondità la nostra percezione di cittadini europei. Nel suo celebre libro autobiografico La lingua salvata, Elias Canetti racconta di quando arrivò profugo, con la madre e i fratelli, a Zurigo nel 1916, in pieno conflitto mondiale. L’ammirazione della madre per quella nazione libera e pacifista, neutrale e accogliente era totale, “nutriva per la guerra un odio assoluto e implacabile”. Fino a infatuazioni internazionaliste: “Un giorno, passando accanto a un caffè mi mostrò la testa enorme di un uomo seduto accanto alla finestra”. Gli disse: “Guarda bene quell’uomo, è Lenin. Di lui sentirai ancora parlare”. Per Elias, l’ammirazione materna per la democrazia fu tutt’uno con la scoperta della storia: “Io mi trovavo per la prima volta in una repubblica che con l’impero e la sua amministrazione non aveva nulla a che fare”, scrive. “Era dunque possibile liberarsi da un imperatore, ma bisognava lottare per la propria libertà”. L’ardente semplificazione adolescenziale coglie un altro aspetto del mito fondativo elvetico, neutralità e indipendenza: “La libertà degli svizzeri si mescolò nella mia mente con quella dei greci… La libertà degli svizzeri la vivevo nella realtà e la sperimentavo io stesso: per essersi mantenuti padroni del proprio destino, per non aver accettato alcuna autorità imperiale, gli svizzeri erano riusciti a non farsi coinvolgere nella guerra mondiale”. Dal treno di Lenin in avanti, il concetto di neutralità della Confederazione rispetto agli avvenimenti del mondo ha subito molti smacchi. La Svizzera è il luogo da cui passano tutte le trame segrete del mondo, i fiumi carsici della finanza, le reti onusiane, lo spionaggio, i traffici di armamenti. Non c’è nulla come “i nani di Zurigo”, o i misteriosi membri del club di Bilderberg e persino i plutocrati e i capi di stato di Davos capace di aizzare il complottismo antiglobalista mondiale.

 

Secondo la politologa Regula Stämpfli, la lentezza stupefacente con cui una delle prime democrazia del mondo ha dato il diritto di voto alle donne è colpa “in una certa misura del servizio militare. C’era uno stretto legame con l’obbligo di prestare servizio militare poiché, per secoli, in Svizzera erano gli uomini armati di fucile a decidere se iniziare la guerra o stipulare la pace. Prestare servizio militare era quindi un obbligo e nel contempo un diritto, visto che permetteva di prendere tali decisioni. E’ per questi motivi che le donne svizzere hanno dovuto attendere tanto a lungo il diritto di voto e di eleggibilità”. In Svizzera anche i diritti, in fondo, sono uno strano pendolo. Adesso, da noi, va molto di moda la dolce terra della dolce morte. In gita oltre Chiasso, pure Beppe Grillo ha lodato il paese dell’eutanasia e delle case chiuse. Due decenni fa era stata la volta del Platzspitz di Zurigo e della somministrazione di stato dell’eroina. Ma si è fatta marcia indietro. Ora è la volta di chi suggerisce l’uso dell’Lsd contro la depressione. Secondo l’Università di Basilea è una “possibile alternativa terapeutica per depressioni, dipendenze e disturbi ansiosi”. Sotto questi profili (bio)etici, è uno dei paesi più anti-tradizionalisti del mondo.

 

A far da guardia a questa orgogliosa difesa della libertà (o da cinico contraltare, secondo le anime belle del pianeta) c’è la forza militare. Ma “Il formidabile esercito svizzero” – titolo di un illuminate libretto di John McPhee dedicato ormai una trentina d’anni fa ai segreti socio-psicologici di un pacifico popolo sempre in armi – necessita di aggiornamenti nell’epoca della terza guerra mondiale a pezzi. Qualche settimana fa il nuovo capo dell’esercito, Philippe Rebord, ha battuto cassa con voce stentorea a Berna: i cinque miliardi l’anno stanziati dal Parlamento non sono sufficienti, artiglieria e carrarmati sono vecchi, la nuova aviazione dev’essere pronta a decollare entro il 2020. Il riformando esercito punta a un’efficienza di geometrica potenza. Sarà migliorata la proverbiale prontezza di intervento: in un lasso di tempo fra uno e tre giorni 8.000 militari equipaggiati devono essere pronti all’azione, entro dieci giorni 35.000. Spiegatelo a Lady Pesc Federica Mogherini.

 

Dopo la Brexit, seppure con i sovranisti in ritirata, dopo Manchester e le onde periodiche delle invasioni del terrore, ognuno si chiede se l’Europa resisterà.
Ma soprattutto: come. E se il modello fosse una (con)federazione diversa, come quella con lo scudo crociato?

Ma c’è un passaggio della Lingua salvata di Canetti in cui il ricordo della sua passione adolescenziale per la formidabile democrazia svizzera – che prendeva forza dall’“immagine peculiare che Grecia e Svizzera avevano creato in me” – approda a una sorprendente (no, non sorprendente: appartiene a molti) intuizione geografica, perciò geopolitica: “Libertà era diventata a quel tempo una parola importante… In questo un ruolo importante spettava alle montagne. Non pensavo mai ai greci senza vedermi davanti le montagne, e queste erano – ecco la stranezza – le stesse montagne che avevo quotidianamente sotto gli occhi… Gran parte della vita si svolgeva vicino ai laghi, proprio lì erano successe le cose più esaltanti; questi laghi io li sognavo e li desideravo come il mare greco, e quando cominciai ad abitare sulle sponde del lago di Zurigo essi si fusero per me in un unico lago… Nel sogno tutto era sempre e soltanto ‘il lago’, ciò che era accaduto in riva a un lago era accaduto anche in riva agli altri. La Confederazione nella quale si erano uniti gli svizzeri con sacro giuramento era per me un vincolo tra laghi… Questa dunque era per me la storia: la federazione dei laghi, prima della quale non si dava storia”. Visione romantica di un ragazzo, ma che fa giustizia di tutti i luoghi comuni sulla Svizzera da cartolina dei laghetti alpini e spiega molto della resistente democrazia identitaria elvetica. Il suo segreto risiede nell’intimo legame tra una natura separata, difesa e sempre sulla difensiva, e il valore dell’autonomia e dell’indipendenza. Frutti stessi della configurazione del suo paesaggio. La Svizzera è un inespugnabile castello di montagne in mezzo alle grandi pianure europee.

 

Ma nel terzo millennio globalizzato e assediato da populismi senza popoli – e soprattutto senza fortezze naturali in grado di difenderli – è un modello ancora praticabile? Un modello europeo cui ispirarsi? E se sì, in quale dimensione? Quella local delle piccole Heimat o quella global della Swissness? Dopo la Brexit, seppure con i sovranisti in ritirata, dopo Manchester e le onde periodiche delle invasioni del terrore, ognuno si chiede se l’Europa resisterà. Ma soprattutto: come. E se il modello fosse una (con)federazione diversa, come quella con lo scudo crociato? Carlo Lottieri, docente di Filosofia politica, liberista scuola Bruno Leoni, ha da poco scritto un libro che s’intitola appunto Un’idea elvetica di libertà. Nella crisi dell’Europa. Rottamare il Vecchio continente sclerotico e senz’anima e seguire il modello del federalismo svizzero è la sua idea: l’Europa si rinnoverà soltanto se “riconoscerà che essa è l’unica area culturalmente coerente che non abbia mai conosciuto una vera unificazione politica”. Invece la Svizzera è “il luogo in cui l’Europa ha meglio preservato la propria specificità e, insieme a ciò, il gusto per le differenze e per l’autogoverno”. Senza ricorrere alla pantomima del clic (che non funziona nemmeno a Berna).

 

Babele in miniatura

La neutralità e il “formidabile esercito svizzero”. Il culto dei diritti civili e individuali che da sempre fa della Confederazione la mecca dell’espatrio.
I “nani di Zurigo” che aizzano il complottismo antiglobalista mondiale. Il gusto per le differenze e per l’autogoverno, la competizione di lingue diverse

Ovviamente la storia di Elias Canetti è anche (soprattutto) la storia di una conquista della lingua, nel suo caso di molte lingue. La Svizzera è per lui l’approdo al tedesco, idioma d’elezione di sua madre e suo padre, ebrei “spagnoli” ma provenienti dall’impero russo. C’è un magnifico librino, se lo trovate, della scrittrice ungherese Agota Kristof che racconta un’analoga conquista, in Svizzera. In questo caso il francese. Il libro si intitola L’analfabeta. E c’è dell’ironia, da parte di una delle scrittrici europee più famose del secondo Novecento. Ma c’è anche la tragedia dello sradicamento, così totale e ambivalente nel contesto di una piccola patria che è da sempre anche il luogo inevitabile di ogni apolide. Giunta profuga attraverso l’Austria dall’Ungheria del ’56, accolta con i suoi compagni di sventura dalla popolazione con cordialità e addirittura entusiasmo, benvenuti nella terra della libertà, la lingua sconosciuta le impedisce però di comunicare. E di leggere, per lei fin da bambina è come vivere: “Leggo. E’ come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano”, è l’incipit del libro. Smistata, in modo “del tutto casuale”, in un sobborgo di Neuchâtel, inizia a lavorare in una fabbrica di orologi. “Nella fabbrica tutti ci trattano bene. Ci sorridono, ci parlano, ma noi non capiamo niente. E’ qui che comincia il deserto. Deserto sociale, deserto culturale”. “Le mie amiche operaie mi insegnano l’essenziale. Dicono ‘Oggi è bel tempo’, indicando la Val-de-Ruz. Cinque anni dopo essere giunta in Svizzera parlo il francese, ma continuo a non saperlo leggere. Sono tornata analfabeta”. Un dramma comune oggi a migliaia di persone immigrate – musulmane, turche, asiatiche che cercano oggi un difficoltoso diritto di cittadinanza. Agota Kristof è diventata una grande scrittrice in lingua francese. Anche Canetti ebbe i suoi grattacapi a destreggiarsi tra il tedesco letterario impartito al liceo e il dialetto zurighese dei suoi compagni. Non è un problema solo della Svizzera. Ma in Svizzera è concentrato, come la cioccolata fondente. Qualche settimana fa Junker s’è presentato a Londra a fare la voce grossa sulla Brexit. Con un filo d’arroganza francofona ha parlato in francese: ve ne siete andati, l’inglese conterà meno in Europa. Vaste programme, l’inglese è il latino universale. Ebbe migliori ragioni e più eleganza Mario Capanna quando, il 13 novembre 1979, fece il suo memorabile intervento al Parlamento europeo esprimendosi, appunto, in latino. Quel grande europeista di Otto d’Asburgo attraversò l’aula e andò a stringergli la mano.

 

Anche vista da questa prospettiva la Confederazione Elvetica somiglia enigmaticamente all’Unione europea, anziché esserne l’orgoglioso e identitario contrario. La piccola patria, la somma di Heimat, è un coacervo in cui vivono giustapposte quattro lingue ufficiali. Di cui una, il ladino, più che altro nominale. Le complicazioni delle normative scolastiche cantonali e i vincoli di subordinazione nei linguaggi che un cittadino elvetico deve saper usare sono un incredibile capitolo a parte nell’enciclopedia dello “strano ma vero scudocrociato”. Ma anche qui la modernità sta cambiando le regole. E non in senso dell’omologazione. Ad esempio lo svizzero-tedesco, il micidiale Schwytzerdütsch incomprensibile in Germania e Austria, è in realtà una babele di una dozzina di dialetti ufficiali. Oggi la comunicazione scritta dei social, di Whatsapp, sta moltiplicando le sottolingue e i sottodialetti: ognuno scrive la complessa grafia tedesca come vuole, un fenomeno di meticciato creativo che sta incuriosendo i linguisti. Altro che la competizione tra le lingue nazionali dell’Unione.

 

Ricca, vecchia, frammentata, con una distanza sospettosa tra città e campagna che avrebbe fatto la felicità di Pol Pot, pacifista e armata fino ai denti, con tre religioni diverse (ormai l’islam c’è) e quattro lingue che in realtà sono di più, con le Heimat che sono anche una marca di sigarette e che convivono a ogni curva di valle o di puntualissimo trenino con la Swissness del Terzo millennio, la Confederazione in realtà somiglia dannatamente all’Europa. Altro che la “Svizzera in miniatura” a due passi da Lugano (e dal confine) dove ci portavano da piccoli. La Svizzera è l’Europa in miniatura: non funziona proprio benissimo, dunque funziona benissimo. Dove altro volete andare?

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"