“Le persone che stanno soffrendo di più per ragioni economiche non sono interessate a soluzioni economiche. Cercano identità” (nella foto LaPresse, comizio di Trump in North Carolina)

L'identità strangolata

L’angoscia esistenziale dell’America di Hillary e Trump, che non si domanda “chi voto?” ma “chi sono?”. Il compito di fornire ipotesi esistenziali, e non solo leggi di bilancio, toccherebbe agli intellettuali, ma dove sono finiti? Il trionfo della politica delle emozioni raccontato da Leon Wieseltier.

In America, ma non soltanto in America, ci stiamo strangolando con l’identità. E non soltanto con l’identità degli altri, ma con la nostra stessa identità”. Leon Wieseltier, che del profeta ha la capigliatura e la facilità di parola, ha scritto queste righe profetiche nel 1994, in una raccolta con un titolo chiaro: “Against Identity”. L’America, allora, correva a perdifiato verso la fine della storia, convinta che la visione morale che aveva spazzato via l’alternativa marxista e sovietica si sarebbe propagata per capillarità, ma l’intellettuale ebreo che per una vita ha diretto le pagine culturali di New Republic vedeva ribollire scontri identitari sotto la superficie del consenso liberale. Lo spettacolo elettorale “molto inquietante” – come dice lui – che si sta squadernando sotto i nostri occhi, nella sua essenza non è che l’emersione di questa faida identitaria.

 

La cosa strana è che la vittima finale di questa furia non è l’altro, ma il sé, e lo scontro assume la forma ambigua dell’omicidio-suicidio. E’ una formula paradossale che, in quanto tale, non esaurisce ma suggerisce, evocando il tema dell’autodistruzione che si è annidato fra le pieghe di una campagna elettorale piena di rumori, distrazioni, depistaggi, iperboli. Come siamo arrivati a questo strangolamento dell’identità che lo scontro fra Trump e Clinton porta al parossismo? Per spiegarlo Wieseltier parte dall’economia, ma la usa un po’ come il bollitore di cui Engels parlava ai suoi studenti, dove l’acqua che d’improvviso diventa vapore rappresentava il mutamento qualitativo indotto da una serie di mutamenti quantitativi. L’acqua si scalda lentamente, e d’improvviso è vapore. “La dinamica più ampia dietro alle elezioni è questa: la politica è stata colta di sorpresa dalle sofferenze economiche e dai loro effetti. Abbiamo avuto la globalizzazione, la recessione e poi la ripresa diseguale, ma la politica non si è mai adeguata a questa successione di fenomeni, non ha saputo rispondere. Soprattutto non ha saputo impedire la perdita di un elemento che per una società è anche più importante del benessere stesso, ovvero la cultura della produttività, la mentalità industriale nella quale siamo cresciuti. Si è generato così uno strano fenomeno: le persone che stanno soffrendo di più per ragioni economiche non sono interessate a soluzioni economiche. Cercano rappresentanza, forza interiore, empatia, senso della comunità. In una parola, cercano identità: identità religiosa, identità di classe, identità razziale e via dicendo. Non sono interessate alla policy, hanno un’altra domanda: chi siamo?”. E’ la stessa domanda che, da una sponda ideologica opposta rispetto a quella di Wieseltier, ha tenuto desto Samuel Huntington nei suoi ultimi anni di ricerca, quando ha esplorato le caratteristiche del “credo americano” e ci ha trovato puritanesimo, cultura e istituzioni britanniche, coscienza dell’identità bianca e protestante, insomma tratti particolari e irripetibili, nulla a che vedere con il mito della “nazione universale”, atemporale ed esportabile nello spazio e nel tempo. Se invece dei padri pellegrini l’avessero fondata i coloni francesi o portoghesi, diceva il politologo, oggi sarebbe il Quebec oppure il Brasile. Su queste promesse identitarie crescono le infiorescenze etnonazionaliste del trumpismo, lo sghembo animale ideologico che con l’istinto e la capacità di intercettare gli umori ha afferrato la più anticlintoniana delle verità: it’s not the economy, stupid. Meglio: è l’economia, ma questa non è che il sintomo di una malattia antropologica sottostante.

 

Questa frattura è, secondo Wieseltier, anche all’origine dell’invincibile noia che trasmette Hillary, candidata “profondamente sgradevole, ma che voterei cinque volte se potessi”. Sbaglia chi crede che la sua proverbiale incapacità di scaldare i cuori sia soltanto un fatto di personalità e mancanza di talento comunicativo: “Il suo problema è che offre risposte di policy a domande che non sono a livello della policy, e questo rende estremamente difficile la comunicazione con le persone. Se ti chiedono una cosa e tu rispondi con una che non c’entra nulla diventa difficile guadagnare credibilità e simpatia. Che la policy non sia più il centro del dibattito, com’è evidente in questa campagna, ha come pericolosa conseguenza lo spostamento della politica dal regno della ragione a quello delle emozioni. La politica tende così ad avvicinarsi e a sovrapporsi alla cultura: significa che diventa impossibile da controllare, perché non risponde alle leggi della logica. Il motivo per cui Trump può dire una cosa e il suo contrario senza perdere consensi è lo stesso per cui gli elettori votano contro i loro stessi interessi economici: i loro problemi non pertengono più al regno dell’economia, la loro impostazione non segue le linee della ragione. Il dominio delle emozioni in politica ha anche un altro nome: populismo”. E quale emozione muove più della paura? “La politica della paura contiene un aspetto negativo e uno positivo. Quello negativo è che un disgustoso misogino e xenofobo è candidato alla Casa Bianca, quello positivo è che molta gente ha risposto con disgusto a questo fatto. Consideriamo un episodio. Alla convention del Partito repubblicano hanno difeso pubblicamente per la prima volta i diritti lgbt. Significa che nessuno fra i repubblicani è omofobo? Certo che no. Significa che si sono resi conto che la società rigetta una certa posizione sull’omosessualità. Lo prendo come un indizio, insufficiente ma incoraggiante, contro la politica della paura”.

 

L’apparizione di Trump ha composto anche in America il dipolo della contemporaneità politica occidentale, che non è fra conservatori e progressisti, fra repubblicani e democratici ma fra tecnocrati e demagoghi. I primi rispondono in modo assai ragionevole a domande che non si pongono, i secondi intercettano e alimentano le domande che si pongono, ma offrono risposte iperboliche e ambigue, emotivamente infiammabili. La classe dirigente ha gli strumenti, gli argomenti, le parole per dare risposte adeguate? “No”, dice Wieseltier, e nel tono compare una nota grave e nostalgica che lascia intendere almeno due fatti. Il primo: c’è stato un tempo in cui gli esponenti dell’establishment avevano questa facoltà. Il secondo: il compito di fornire ipotesi esistenziali, e non solo leggi di bilancio e riforme sanitarie, toccherebbe agli intellettuali, ma dove sono finiti? E’ il momento storico giusto per soffiare via la polvere da “Flight of the Intellectuals” di Paul Berman e da una serie di saggi di alcuni anni fa che esplorano il filone della volatilizzazione dell’intellettuale liberal. C’è stato un periodo, a cavallo di quella guerra al terrore che (ri)poneva domande di fondo sulla resilienza dell’ordine liberale, che il genere sulla scomparsa degli intellettuali ha avuto una certa fortuna. La fortuna è scemata quando hanno preso a scomparire anche gli intellettuali che denunciavano la scomparsa degli intellettuali. Ora tocca intrattenersi con “The Shipwrecked Mind”, raccolta di saggi di Mark Lilla che racconta il passo successivo alla fuga liberal: il ritorno della mentalità reazionaria. Nel “no” di Wieseltier c’è la fine di un’epoca.

 

Esiste una seconda ragione, di natura non economica, per spiegare lo stato tormentato del paese: i cambiamenti demografici. “Stiamo diventando una cosiddetta ‘minority-majority society’, cioè una società dove i bianchi non saranno più la maggioranza. Questo ha generato un fenomeno che non posso che chiamare ‘white panic’, il terrore dei bianchi di perdere la loro posizione di razza dominante. In questa campagna sono emersi elementi di xenofobia e razzismo, com’è ovvio a tutti, e questi elementi precedono Trump. La destra estrema in questo paese è basata sul ‘white panic’. E’ una vita che questi gruppi cercano una strada verso il centro della scena politica, tentano di agganciarsi a qualcuno per diventare presentabili e influenti, e questa volta hanno trovato il vuoto che cercavano. Il terrore bianco ha cercato di farsi largo per tanto tempo, e questi cazzo di idioti di repubblicani gliel’hanno permesso. Hanno dato una casa a questo veleno politico”, dice Wieseltier. E’ la teoria che vede Trump come un catalizzatore di idee altrui, un “rozzo e volgare narcisista senza una visione del mondo”, e che quindi riflette qualunque cosa gli rimbalzi addosso: “E’ diventato uno strumento”. In un certo senso, e siamo ancora al paradosso, è il contrario esatto dell’identità. E’ il coacervo, il centone, l’accozzaglia, il collage, l’ibrido, il mantello iridescente. La cosa più difficile da stabilire, per i critici, è se il carattere a-ideologico e a-morale di Trump sia una buona o una cattiva notizia per la condizione dell’America contemporanea. Se le idee che ha in testa non sono le sue, ma sono quelle che le sue potenti antenne hanno captato, cosa dice questo sui sentimenti e le inclinazioni che circolano in America? Che Trump non va collocato nell’ordine della patologia ma in quello della norma.

 

“Sarebbe disonesto – continua Wieseltier – dire che l’America non ha dentro di sé questa orribile forza dall’inizio. E’ il lato oscuro della politica americana, ed è scorretto dire che Trump rappresenta un fenomeno ‘un-American’. Ma il paese nel tempo ha lottato contro i suoi demoni, e molti di questi sono stati battuti. Nonostante i nativisti, ad esempio, abbiamo accolto e integrato gli immigrati, e adesso accettiamo di definirci una nazione di immigrati. Essere contemporaneamente portatori di un peccato originale e poterlo combattere e sconfiggere è uno dei tratti fondamentali della democrazia americana: la Costituzione che diceva che un nero vale tre quinti di una persona è lo stesso documento che ha permesso a Martin Luther King di battersi per i diritti civili”.

 

Lo strangolamento identitario americano non c’entra nulla o quasi con i populismi europei né con la democrazia illiberale russa. Wieseltier mette la carta di Trump in un mazzo a sé, separato da quello dei Putin, delle Le Pen, dei Salvini e dei Grillo, e la grande differenza sta nella concezione dell’altro: “In America l’altro è legittimo, perché siamo tutti stranieri e abbiamo tutti un iPhone. L’Europa ha un problema millenario con l’alterità, mentre l’America è multiculturale per concezione di sé”. Una parentesi. Wieseltier ammette di conoscere “un paio di persone che votano per Trump” e il fatto non è da poco nel contesto di una piccola campionatura senza alcun valore statistico fra accademici, intellettuali, “pundit” e animali da think tank, che per lo più vivono vite separate rispetto all’elettore di Trump, questo sconosciuto. “Non so come abbia fatto a vincere, non conosco nessuno che lo ha votato” è una citazione attribuita alternativamente a Pauline Kael e Mary McCharty ai tempi dell’elezione di Nixon, e non è chiaro se fosse da intendere come una battuta di spirito oppure no. Che non ci siano prove che qualcuno l’abbia pronunciata è totalmente irrilevante, perché la frase coglie una verità che ha una sporgenza perfino geografica: nell’America vasta dei sobborghi, dei backyard, delle comunità protette dai muri, della gentrificazione, della “white flight”, delle università in mezzo al nulla, chi vive nel mondo dell’élite l’elettore di Trump non lo vede nemmeno. Wieseltier sintetizza: “In America siamo tutti provinciali. Nella storia umana le città hanno avuto il merito grandioso di mettere insieme persone che per scelta non lo avrebbero fatto, ma ci siamo progressivamente allontanati da quel modello. Quando è arrivato internet tutti pensavano che ci avrebbe connesso e fatto avvicinare, mentre ha creato soltanto nuove dimensioni di segregazione. Anche online cerchiamo soltanto chi è simile a noi, non chi è diverso”.

 

L’intellettuale che è stato un giovane protetto di Isaiah Berlin e poi allievo di Lionel Trilling non manca di rimarcare il suo disappunto, in termini assoluti, per Hillary e per tutto quello che odora di Clinton. Ma i cinque voti che le darebbe si spiegano con una parola soltanto: liberal. Lei è l’espressione, appannata quanto si vuole, del pensiero liberal che resiste da una parte alle pulsioni nativiste, dall’altra a quelle del progressismo. Progressismo è un termine che dà l’orticaria a Wieseltier, gli ricorda la New Left e le sue radici marxiste. L’eroe progressista di stagione, Bernie Sanders, è un isolazionista che disprezza il capitalismo e rimesta nel torbido della “identity politics”.

 

Nel panorama della sinistra il giudizio peggiore di Wieseltier andrebbe al senatore del Vermont, se soltanto non ci fosse Obama, il presidente che “otto anni dopo aver vinto la campagna elettorale sulla speranza lascia un paese senza speranza”. La tocca piano: “La presidenza Obama è un intermezzo grottesco nella storia di questo paese. La sua politica estera è un disastro morale, perché è cosmopolita ma non internazionalista, la sua politica interna è stata decente, ma questa campagna ha reso evidente che non è riuscito a parlare agli americani. Oggi siamo esattamente come nel 2008, e infatti la campagna è stata sul cambiamento, ma stiamo molto peggio. Obama è responsabile dell’infelicità del paese? No, certo, ma non può nemmeno esserne totalmente estraneo”. Pensa che ci sia un collegamento fra la politica del disimpegno di Obama e il ritorno di moda dell’isolazionismo? Wieseltier ride, ma non di gusto: “Non lo penso, lo so! L’indebolimento dell’America e del suo sistema di alleanze è la cosa più scioccante di questa presidenza. Nessuno pensava che la Russia sarebbe tornata a essere il nostro principale avversario geopolitico, e secondo me nemmeno la Russia stessa ci aveva pensato. Ha soltanto occupato i vuoti lasciati da Obama. Non dev’essere sembrato vero a Putin di trovare un campo così aperto”. L’ultima parola è per il Partito repubblicano, che è finito “giù da un burrone molto più profondo di quello in cui sono finiti i democratici quando hanno nominato McGovern, perché si è illuso di poter portare dentro di sé e controllare le forze più oscure che si agitano a destra. Alla fine sono loro ad aver preso il sopravvento”. Il dramma oggi è che “tutti quelli rispettabili nel Gop, e ce ne sono tanti, oggi non contano assolutamente nulla”. Dopo martedì chissà.