L’hotel Ergife, a Roma, ospita ancora oggi e domani “Gay Wedding”, una fiera dedicata alle unioni civili

Il confetto gay

Fabiana Giacomotti
Sempre meno matrimoni, e sempre più fai da te. Succede anche questo: si trova una coppia di amici o di perfetti sconoscuti purché di gusti simili e si condividono fiori e catering. Così il mercato degli sposi guarda anche alle unioni civili. Una fiera a Roma

Avevo già raccolto i commenti, e mi preparavo a scrivere che la fiera dedicata alle unioni civili ora in corso a Roma mi sembrava al tempo stesso ghettizzante e ridicola come i sacchetti di confettini arcobaleno degli espositori di dolciumi e delikatessen che vi erano accorsi numerosi. Poi, dopo giorni di telefonate a vuoto, ho rintracciato il simpatico organizzatore di questo “Gay Wedding Italia”, finito vittima del classico blackout da cambio di gestore, che mi ha confermato candidamente la gabola del titolo architettato a fini promozionali facendo crollare tutta l’impalcatura sociologica, lo confesso un po’ moraleggiante, su cui andavo costruendo queste righe. “Signora cara, questa è una fiera per tutti, etero e omo, ci mancherebbe. Ma che ve ne fareste voi giornalisti dell’ennesima expo della sposa? Con questa idea sto avendo un grande ritorno stampa, e la sua telefonata me lo conferma”, mi dice dunque Fabio Ridolfi, ed è come se buttasse tutto il caricatore che avevo preparato con cura nella fontanella dell’hotel Ergife, il brutto palazzone alla periferia di Roma dove tutti noi che non sappiamo che fare delle notizie scipite abbiamo sostenuto l’esame di abilitazione professionale. Lui, invece, lo ha riempito con un centinaio di stand al costo di duecento euro al metro quadrato, quattromila metri quadrati coperti, a cui ha garantito un allestimento standard ma personalizzabile a piacere (un gazebo costa qualcosa di più di questa cifra, l’ho scoperto perché nella singhiozzante frenesia del blackout mi è arrivato per errore un sms che me ne confermava il prezzo, di fatto affittandomelo). Il prezzo del biglietto di ingresso, invece, è stato ridotto del cinquanta per cento per i visitatori che hanno inviato un sms a un certo numero di cellulare inserendo la password “unionecivile”. Insomma, zero morale, tutto business e anche al dettaglio.

 

Questa è una fiera aperta al pubblico e gli organizzatori, insieme con l’abile ufficio di pubbliche relazioni, sperano di accogliere quante più coppie omo intenzionate a celebrare il rito del gay wedding, qualunque cosa sia e che di certo il depliant non aiuta a capire: “Un percorso in cui ricevere informazioni su tutte le parti del ricevimento: location, catering, bomboniere, liste di nozze, autonoleggio, foto e video, wedding planner, flower designer, musica e intrattenimento, confetterie, agenzie di viaggio, tour operator, enti del turismo”, e subito uno pensa quanto debba essere difficile scegliere una destinazione di vacanza nelle vaste porzioni del mondo dove i sostantivi “coppia” e “omosessuale” non rientrano mai nello stesso capoverso. In ogni caso, il sito non lo spiega. Ridolfi precisa solo che le voci del viaggio e del ricevimento sono le più sensibili fra gli ipotetici visitatori della fiera, e pare che ne abbia sondati parecchi nei mesi scorsi. Negli ultimi anni, il mercato degli sposi ha infatti perso chilometri di tulle e lustrini, quello di fascia bassa in particolare. In Italia come altrove ci si sposa con più difficoltà: nel 2014, ultimo anno disponibile, sono stati celebrati circa centonovantamila matrimoni, quattromilatrecento in meno rispetto all’anno precedente (unica città in controtendenza Bolzano e non è difficile comprenderne le ragioni). E si spende in media il trenta per cento in meno di quanto accadesse in anni pre-crisi. Il web tracima di consigli e suggerimenti per i matrimoni fai da te e in sharing e così, almeno a leggerli come ho fatto io che vado per i trentadue anni di matrimonio e detesto le cerimonie, sono molto divertenti e creativi: si trova una coppia di amici, di conoscenti o anche di perfetti sconosciuti purché di gusti simili, e si condividono allestimento floreale e catering. Se poi la sposa decide di affittare l’abito, o fa adattare quello di mamma che è anche una soluzione affettuosa e chic, le spese possono ridursi di quindicimila euro per un ricevimento con cento invitati, e magari ne nasce pure una bella amicizia con i vicini di tavola.

 

Insomma, ci si sposa di meno, spendendo di meno, e ricercando sempre meno anche i servigi del wedding planner, professione che fino a due anni fa sembrava in vertiginosa crescita, oltre che una possibile e lucrosa alternativa a quella dello stylist, e che ora invece sta perdendo quota, in parte per ragioni economiche, in parte per via della scarsa professionalità di molte fra queste figure, idolatrate dalla stampa di gossip ed esecrate da quella di moda e stile (“una massa di cafoni che organizzano matrimoni peggiori di quelli che i poveri sposi saprebbero fare da soli”, osserva la collega Giuliana Parabiago, massima esperta del settore in Italia).

 

Non vorrei banalizzare il tema sostenendo, come hanno fatto molti da più parti in questi anni, che le unioni civili siano state fortemente sostenute dagli operatori del colossale business del matrimonio, da sempre una fra le massime voci di spesa nella storia di una famiglia in ogni parte del mondo, ma vi sarà chiaro come la legge Cirinnà sia apparsa a molti di questi imprenditori del pranzo con il tris di primi un’insperata scialuppa di salvataggio, e che vi ci siano buttati sopra con tutto il loro carico di chiffon e di risottino al profumo di limone. La cifra che le coppie omosessuali spendono in media per un “ricevimento arcobaleno” negli stati che lo consentono non ha ancora un data base storico consistente e comparabile, ma si presume che sia inferiore a quella che le coppie etero riservano alla stessa occasione, a causa di un minor numero di invitati e a dimostrazione che il momento viene vissuto con gli stessi intenti festosi ma una minore intensità fracassona di quello che gli antipatizzanti, ma anche una certa estetica omosessuale, vorrebbero far credere. In ogni caso, si tratta di una somma interessante. Alla fine del 2015, il Williams Institute della University of California valutava la spesa media per la cerimonia di un’unione omosessuale in 9 mila e 39 dollari contro i 31 mila di un’unione etero. Non molto se calcolato in termini singoli e in dettaglio; molto più attraente se considerato in progressione fino al 2018 come ha fatto lo stesso istituto, ottenendo la bella sommetta di 492 milioni di dollari per i soli stati di New York e della California, “le destinazioni preferite per le unioni omosessuali”.

 

Abiti, catering, luogo del ricevimento, inviti sono invece ed evidentemente del tutto identici per le coppie etero e omo e, tranne che per i pochi eccentrici, del tutto privi dell’elemento kitsch su cui tanti insistono, a partire dalla fiera del “Gay wedding” con le discutibili cromie lisergiche dei cartelloni che la pubblicizzano. Dev’essere per via dell’estetica colorata del Gay Pride che da decenni ha trasmesso un’immagine drag, dunque parziale e fuorviante, dell’omosessualità, ma questo “Gay Bride” romano tinto di viola e rafforzato dall’immagine di due ragazzette mal vestite e peggio mechate che si baciano non mi pare porti argomenti a favore della normalizzazione che la maggior parte delle omosessuali ricerca.

 

Fulvio Zendrini, uno dei primi manager di rilievo a fare coming out in Italia e ormai prossimo all’unione civile con un imprenditore dell’hotellerie di charme sulla riviera ligure, consultato sul tema mi chiede anzi esplicitamente il favore di “tenerlo lontano da queste baracconate che vorrebbero presentare noi coppie omosessuali con la tuba azzurra e le statuine di zucchero mano nella mano sulla torta”. Furio Garbagnati, presidente di Weber Shandwick, una delle più importanti società mondiali di pubbliche relazioni, strizza gli occhi dietro gli occhiali tondi, contrarissimo alla “spettacolarizzazione variopinta di una conquista come la Cirinnà”. A dire il vero tube azzurre, bigliettini arcobaleno e confetti sono perlopiù espressione non della realtà, ma di una logica promo-pubblicitaria leggerina e a tratti potenzialmente pericolosa (ci vuole poco ad eccitare gli animi in un paese solo superficialmente pacificato sul tema come il nostro) che rifiutano in toto, per esempio, imprenditori seri come Maria Celli, proprietaria di uno dei primi atelier di abiti da cerimonia ad aver vestito coppie omosessuali quando le unioni civili non erano neanche all’orizzonte e certe celebrazioni si effettuavano in privato o, come nel caso di certe nobilissime signore, con una generica benedizione da parte di amichevoli prelati, al termine della quale gli amici si congratulavano festosi ma senza sapere bene per che cosa: “Quale differenza nei tight? Che differenza vuole ci sia? E’ solo una questione di gusti nella scelta dei tessuti. Come per qualunque tipo di coppia”.

 

Ma ci sono anche imprenditori di parere opposto, come la wedding planner Erika Morgera che, invece, ritiene utilissimo offrire alle coppie omosessuali servizi ad hoc, o per meglio dire in atmosfera protetta: “Non tutti gli operatori con cui entro in contatto per l’organizzazione delle cerimonie sono preparati o interessati a lavorare con questo tipo di clientela. Bisogna sapersi orientare ed evitare che le coppie omosessuali possano trovarsi in situazioni poco gradevoli”, dice, e mentre la ascolto mi viene in mente il “marchio di garanzia” con cui il regime mussoliniano segnalava alle signore fasciste le sartorie che usavano solo tessuti autarchici e a cui avrebbero dunque potuto rivolgersi senza tradire gli interessi della patria, o certi adesivi applicati sulle vetrine dei negozi che segnalano l’eventuale gradimento di cani e bambini.

 

D’altronde, se pensate che il segnalino con l’indicazione “gay couples welcome” in toni arcobaleno sfiori il paradosso, vi assicuro che non ne siamo lontani. A detta di Ridolfi, molti partecipanti al “Gay Wedding Italia” avrebbero cambiato denominazione, brand e logo pur di riuscire graditi alla presunta clientela omosessuale e ai suoi gusti ancor più presunti: “Uno degli studi fotografici specializzati in cerimonie, per l’occasione ha cambiato la propria insegna in Hi-Glam. Sa, in inglese fa più effetto”. Se è vero, come osserva Christopher Bram nel saggio “Eminent Outlaws”, che “la rivoluzione gay è iniziata come un fenomeno letterario”, non saprei proprio in quale punto delle barricate collocare questa incerta trouvaille lessicale. Di sicuro, quando l’autore americano scrive che “fu la parabola intellettuale e sociale di un gruppo di scrittori gay ad aprire gli occhi e le menti del mondo anglosassone all’esperienza omosessuale, rimodellandone il panorama culturale“, di certo non si aspettava che l’opera di James Baldwin, di Tennessee Williams, di Truman Capote e di Gore Vidal fino a Armistead Maupin, si sarebbe risolta nella promessa di “un rito civile autentico” (forse c’è chi predilige anche adesso le messinscene, chissà) come annuncia sul proprio sito la tenuta “La seminatrice - Ricevimenti” di Rieti, che però non ha cambiato quel nome che in effetti suona come una promessa.

 

Sapete com’è: anche le rivoluzioni nascono e finiscono al bar, pensate al Risorgimento italiano, dunque non si vede perché questa avrebbe dovuto sfuggire alla regola e non adattarsi alle esigenze di un allestitore di catering o di un impaginatore di album fotografici filettati d’oro. Non ho mai capito per quale motivo gli omosessuali continuino ad accettare questa rappresentazione distorta e parecchio cialtrona di un universo estetico ricco e variegato come il loro, che da secoli modella in larga misura quello di noi etero a partire dall’arte per toccare il design e la moda (se qualcuno volesse darsi la pena di leggere il saggio “A queer history of fashion”, dove si analizza l’influenza del mondo gay sulla moda femminile e maschile dell’ultimo secolo, avrebbe molte sorprese). Dopotutto, noi donne ci siamo battute per decenni contro gli stereotipi della bionda sdraiata sul cofano dell’auto e dell’angelo del focolare con i capelli cotonati e il grembiulino di sangallo, il vecchio dualismo della strega e della Madonna per intenderci, e se non fosse per Donald Trump potremmo dire di aver raggiunto qualche risultato apprezzabile. Nessuno evoca più la Peroni aspettandosi di veder sbucare una stangona ossigenata in reggiseno push up, nonostante il suo simulacro sia entrato a far parte dell’immaginario nazionale e del lessico comune. Al contrario, anche nel mondo ufficialmente progressista la parola “gay”  evoca tuttora la ribalta finale del “Vizietto” con tutto il corredo di piume, penne e risatine affettate.

 

E’ terribilmente difficile rimuovere i luoghi comuni, anche con le migliori intenzioni e con un pubblico ben predisposto. Per questo, se l’idea più condivisibile di questo “Gay wedding” è lo spazio offerto al progetto Refuge Lgbt di Croce Rossa italiana, la prima casa di accoglienza per giovani omosessuali aperta di recente a Roma, quella che lo è di meno in assoluto è non aver saputo offrire un’alternativa interessante a questo aggettivo, gay, che da tre secoli indica dissolutezza e facili costumi. A noi donne diede una mano Totò, liberandoci per sempre, con una battuta fulminante, del concetto idiota di “donnina allegra”. Dopo Monica Cirinnà, adesso alla causa gay servirebbe più che altro Tullio De Mauro.

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