Illustrazione di Norman Rockwell

Le anime morte a scuola

Maurizio Crippa
Il destino dei prof, ridotti a Funzionari Docenti da una riforma che non li ha resi liberi. Tra Concorsone, Piani Triennali dell’Offerta Formativa e Organici di Potenziamento.

Nell’Aula professori del liceo B. della città di G., nel governatorato di L., il primo giorno dell’anno scolastico 2016-’17, Anno secondo della Buona scuola, entrano otto nuovi professori. Non a bordo di una graziosa piccola vettura, bensì annunciati da regolare cablogramma ministeriale, tempestivamente giunto nel mese di agosto al Dirigente Scolastico preposto (un tempo più semplicemente “preside”, ora nella vulgata “preside manager”). Sono gli insegnanti dell’Organico di Potenziamento, o Aggiuntivo. Quello che dovrebbe servire per tenere aperte le scuole al pomeriggio, creare progetti che migliorino l’Offerta Formativa, dalla musica alle visite guidate alla lotta al bullismo alle attività manuali e pratiche. Personale immesso in ruolo e nell’Organico di Fatto di tutti gli istituti nazionali – sub specie corporis o anche soltanto nominis – attraverso la Fase C delle assunzioni della riforma. Assunzioni in cui rientrano, attraverso complicati e gogoliani passaggi di carte, anche gli Aspiranti Docenti delle GaE, le Graduatorie a Esaurimento, il girone infernale dei dimenticati e dei precari in attesa di qualsiasi ingaggio, come marinai seduti sul molo.

 

La pattuglia dell’Organico di Potenziamento irrompe nel Collegio Docenti, tonico e guidato come un sol uomo dal Dirigente Scolastico, sventolando curriculum i più disparati, qualcuno non ha precedenti esperienze didattiche, qualcuno un lungo precariato alle spalle, qualcuno provenienze geografiche di quelle che riempirebbero i titoloni delle gazzette di lacrimevoli “deportazioni”. Il Dirigente Scolastico, con zelo, li aveva convocati in anticipo sull’inizio dell’anno scolastico per conoscerli e valutarli. (Qualche dirigente, più zelota che zelante, pare abbia chiesto le foto, prassi illecita. Ma è diceria da social professorali). In alcuni deplorevoli casi (non tutti, per verità di cronaca) si è sentito rispondere “no”, “non posso”, “mi presento il primo giorno di presa servizio”. In qualsiasi azienda privata del Regno, o anche d’Oltremare, non si sarebbero nemmeno permessi.

 

Il liceo B. della città di G. ha una pianta organica (Organico di Diritto) adeguata e con pochi buchi (cattedre scoperte). Ha organizzato già dallo scorso anno regolari attività extra-curriculari, in ottemperanza a quanto indicato dal PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa) in base al quale stabilisce i suoi obiettivi di miglioramento, ottemperando a quanto previsto dalla Scuola dell’Autonomia. A tempo debito il Dirigente Scolastico ha inoltrato regolare richiesta di quanti insegnanti dell’Organico di Potenziamento o Aggiuntivo avrà bisogno, per tipologia di competenze (le Classi di concorso della Scuola Secondaria di Secondo Grado sono cento, da “1/A Aerotecnica e costruzioni aeronautiche” a “100/A Trattamento testi, calcolo, contabilità elettronica ed applicazioni gestionali in lingua tedesca e con lingua di insegnamento tedesca delle località ladine”). Però poi, nell’Anno secondo della Buona scuola, ha dovuto scegliere in una graduatoria chi potesse trovare. Per un numero di otto. Il Dirigente Scolastico non sa esattamente come impiegare questo Organico Aggiuntivo. Sa che, al momento, è in parziale eccedenza. Ma sa che i nuovi arrivati riceveranno regolare stipendio a tempo indeterminato: sono stati assunti. Qualcosa dovrà fargli fare.

 

Sic stantibus rebus, il Dirigente Scolastico convoca il Funzionario Docente (anticamente “professore”, per gli studenti pur sempre “prof”, ma nella nuova scuola è una rotella nell’ingranaggio della Funzione Docente) che presta servizio a tempo indeterminato in pianta organica e che in ottemperanza alle nuove direttive, oltre all’insegnamento in classe per 18 ore settimanali, svolge durante l’anno attività didattiche extra-curriculari le più varie: dai corsi di aiuto allo studio alle uscite didattiche, dallo sportello psicologico al ruolo di Animatore Digitale. Per questo lavoro in più, il Funzionario Docente riceve un compenso aggiuntivo (ridicolo, ma lo riceve). Poiché è un Funzionario coscienzioso, ha accettato già dagli anni scolastici scorsi di aderire ai nuovi criteri di produttività, in vista di “una scuola non più novecentesca” (Giannini).

 

Il Dirigente Scolastico comunica al suo Funzionario Docente, in via informale, dissimulando un qualche imbarazzo, che per il buon funzionamento della burocrazia riformatrice – e per un minimo di decenza e responsabilità nei confronti della spesa pubblica – deve cercare di ottimizzare il suo Organico: di Diritto, di Fatto e Aggiuntivo. Dunque: il Funzionario Docente quest’anno dovrebbe gentilmente – ma non è determinante, sarà il Dirigente a decidere – rinunciare a una parte delle sue ore in cattedra per fare un posticino al nuovo arrivato altrimenti nullafacente, seppur pagato, della Buona scuola. Le ore che perderà in classe, le svolgerà per una delle attività extra di cui ha già fatto pratica. Lo stipendio resterà uguale, ma con un problemino: quei quattro soldini che guadagnava in più, grazie a uno sforzo volontario di produttività, spariranno, inglobati nello stipendio dell’Aggiuntivo. In qualsiasi azienda privata, si chiamerebbe contratto di solidarietà. In ogni azienda normale, il Funzionario Docente sa che quanto gli viene proposto (imposto) si chiamerebbe taglio secco di retribuzione. Punto. Alla faccia dell’aver accettato di lavorare di più per guadagnare di più (Valorizzazione della Funzione Docente). Ma è la Buona scuola, dove gli assunti in sovrannumero trovano comunque stipendio e qualcosa da fare.

 

Nel liceo B. della città di G., nel governatorato di L., l’Anno secondo della Buona scuola può cominciare.

 

Il lettore perdonerà il piccolo gioco iniziale, preso indegnamente in prestito dall’incipit delle Anime morte di Gogol’ (“Nell’androne d’una locanda della città di N., capoluogo di governatorato”). Ma oltre ad assicurarlo che in ogni città e in ogni governatorato d’Italia casi come quello evocato sono all’ordine del giorno, c’è una paradossale verità che è difficile spiegare senza evocare l’ironico non-senso delle anime contadine di carta trafficate nell’impero dello zar. In quel gigantesco carrozzone burocratico che è la scuola italiana (la più grande azienda del paese: 8.384 istituzioni scolastiche, 41.286 sedi scolastiche, 746 mila docenti cui va aggiunto il personale amministrativo, dirigente e Ata) l’organico docente – le “maestre” e “i professori”: il linguaggio popolare rimane ancorato a un’irreale divisione per gender – viene trattato, spostato, conteggiato e distribuito in modo “virtuale”, esattamente come le anime morte del romanzo di Gogol’. I professori, il nerbo operativo e pensante della scuola – coloro che la Legge 107 del 13 luglio 2015, comunemente la Buona scuola, intende valorizzare (“l’importante è che ci sia un principio: agli insegnanti bravi vanno dati soldi in più. A quelli che ti fanno amare la poesia, quelli che ti fanno amare persino la matematica, bisognerà dare un po’ più di prestigio e qualche soldo in più”, Matteo Renzi), sono per prima cosa pedine sul domino. Poi, si vedrà. Parliamo degli uomini e delle donne (più donne) giovani o di età ormai vicina al pensionamento (soprattutto) che hanno su di sé ogni giorno il gravoso compito di istruire, formare, educare, condurre verso l’età adulta e il mondo del lavoro i vostri figli. Questi sono, di fatto e nonostante la riforma e il Concorsone, o anzi proprio per colpa dei nodi gordiani che quella riforma ha evitato di affrontare, le anime morte della scuola. Proveremo a spiegare il perché, per quanto difficilmente spiegabile sia.

 

Ciò che tutti raccontano, in questi giorni di inizio anno, è che nonostante il Concorsone (“Concorso a posti e cattedre per il personale docente”) e il gigantesco piano triennale di assunzioni varato dalla riforma (scopo esplicitato: finirla per sempre con gli organici scoperti e gli incarichi di supplenza annuali. Scopo implicito: rimediare ai contratti a termine condannati dalla Corte europea) molte cattedre rimarranno vuote, o riempite da supplenti. Eppure si tratta di un totale di 63.172 posti (scuola primaria, superiore e insegnanti di sostegno) creati nel triennio 2016/2018. Il Concorsone avrebbe dovuto riempire le cattedre ancora vuote in questo primo anno a pieno regime della Buona scuola (l’anno scorso erano stati assunti vincitori di concorsi e aventi diritto in attesa). Stando alla fonte del portale Orizzonte Scuola, ci sono 10.500 posti vacanti sui 63.712 messi a bando per il triennio. Notizie parcellizzate e difficilmente riconducibili a contabilità generali si susseguono sui giornali e sui siti specializzati (contrariamente a quel che si pensa, la scuola è un mondo che parla molto si sé e fra sé). In Toscana, per gli ambiti delle discipline letterarie erano disponibili 700 cattedre, ma poiché solo 143 dei 590 docenti partecipanti al Concorsone sono stati ammessi alle prove orali, il buco da riempire è di centinaia di posti. In Sicilia solo 35 candidati ogni cento sono stati amessi all’orale. A livello nazionale la media è 47. C’è chi dà la colpa alla riforma, chi al governo che vuole deportare i docenti, chi al concorso, chi ai somari che si sono fatti bocciare. Così, per coprire i buchi, i presidi (Dirigenti Scolastici) dovranno utilizzare l’Organico di Potenziamento, o attingere alle liste dei precari, le famigerate Graduatorie a Esaurimento. Poi succede che in certe scuole ci siano insegnanti in più. Forse soltanto perché sono state più efficienti nel comunicare i fabbisogni. Al secondo anno di attuazione della riforma, l’ambizioso piano di finirla con i supplenti e gli organici non a posto (discrepanza tra Organico di Diritto e Organico di Fatto) non è risolta. In ogni caso, si può dare la colpa all’algoritmo.

 

Sul Concorsone si è scatenato l’inferno sindacale e mediatico, riassumibile in modo sommario in due scuole di pensiero. C’è chi ha detto: be’, sono asini, no? Ad esempio Gian Antonio Stella: “Che se ne fa, un ragazzo che vuole imparare l’inglese, d’un professore che ignora cosa sia l’ormai diffusissimo ‘peer tutoring’?”. E quale mamma, “per solidarietà verso chi soffre il dramma della disoccupazione, affiderebbe suo figlio a un docente di italiano che scrive ‘cmq’ invece di comunque, ‘X’ invece che ‘per’ o ‘ke’ invece di ‘che’? Ha studiato Dante e Petrarca o il manuale ‘Abbreviazioni per sms’”?

 

Ma c’è anche chi, guardando le prove degli scritti, s’è chiesto: chi le ha ideate? Lo storico della letteratura Claudio Giunta, sul Sole 24 Ore, ha provato a misurarsi con le materie letterarie. Tracce di lavoro come questa: “Elaborare un breve curricolo di letture (tre o quattro testi) di autori non solo italiani intorno al tema dello straniero, del diverso, del profugo e, più in generale, dell’estraneità. La scelta di ogni singolo testo va motivata alla classe e vanno spiegate le connessioni tra le diverse opere scelte”. O anche “Il candidato evidenzi la rilevanza della didattica della letteratura ai fini dell’orientamento formativo dello studente, ispirandosi alla lezione di Sciascia”. Domande secondo Giunta “piuttosto assurde” e mal formulate. La conclusione è che “in due ore e mezza io avrei saputo rispondere dignitosamente a due, forse a tre di queste domande”. Ma soprattutto, scrive, sono test “che incoraggiano al dilettantismo perché premiano non la conoscenza reale dei testi e degli autori ma quella tabe dell’istruzione umanistica che è l’infarinatura”. Ernesto Galli della Loggia ha scritto che i test di storia apparivano “più che un esame un tentativo di decimazione”.

 

Ovviamente c’è del vero in ambedue le scuole di pensiero. Ma va aggiunta un’altra cosa: spesso è capitato che i commissari ne sapessero meno degli esaminandi. Ed è capitato che le commissioni faticassero a partire per mancanza di esaminatori. Ci sono stati ritardi nelle correzioni, ci sono state evidenti diversità nel metro di valutazione. Qualcuno ricorderà le polemiche quando i commissari (colleghi esaminatori degli esaminandi) scoprirono che sarebbero stati pagati per il loro lavoro di correzione cinquanta centesimi a compito. In una qualsiasi azienda di grandi dimensioni, se vengono chiamati consulenti per selezionare il personale da assumere, quanto li pagano? 50, 200, 500 euro all’ora? L’indegnità del compenso proposto, sommato al fatto di impiegare parigrado per selezionare futuri colleghi, dà la misura della scarsa o nessuna considerazione che il Moloch burocratico ha per la Funzione Docente. E spiega come il problema sia questo: il Concorsone, che avrebbe dovuto essere il calcio d’inizio della nuova scuola, è stato nei fatti l’ultimo atto (forse) di un modello vecchio e disfunzionale di selezione del pubblico impiego. La domanda è: come si reclutano i professori?

 

Sarebbe solo stupido affermare che nulla sta funzionando, e negare lo sforzo di cambiamento in atto nelle molte direzioni richieste da una scuola più adeguata ai tempi.

 

Nel mese di agosto il mensile Vita ha pubblicato un eccellente dossier – nella sostanza positivo verso la riforma – per raccontare quel che accade nella Buona scuola. Nelle parole di Giovanni Bondi, presidente dell’Indire, Istituto nazionale documentazione innovazione ricerca educativa, significa “superare il modello di scuola novecentesco e tayloristico che conosciamo. Passare dalla lezione frontale a un altro modello di apprendimento, perché quel modello che si rivolgeva a una società che non esiste più, non funziona. E’ un problema che riguarda la didattica ma anche gli spazi”. E per superare “la lezione frontale” (a dire il vero in migliaia di “buone scuole” italiane non esiste più da tempo, e i docenti sono più digitalizzati di quanto si creda) servono insegnanti adeguati. In un articolo per lo stesso dossier, Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, pur apprezzando gli sforzi della riforma per migliorare la qualità dei docenti e del loro lavoro, ha scritto che “non vi è garanzia che le decine di migliaia di docenti precari delle GaE messi in ruolo abbiano le qualità didattite, relazionali e organizzative desiderate”. Soprattutto, “si è deciso di rimandare la costruzione di un’articolata carriera, che sarebbe il vero premio per il merito dei docenti”. Infine, afferma, “la condizione necessaria è un nuovo sistema di reclutamento e formazione iniziale”. In parole povere, passare dalla lotteria del concorso pubblico, che valuta di fatto le competenze disciplinari acquisite, a un percorso di preparazione fatto anche “di molto tirocinio nelle scuole durante il percorso accademico”, che servirebbe anche “da deterrenza per chi nei fatti si riveli inadeguato alla professione”. La colpa non è del malfunzionamento del Concorsone o degli algoritmi, è che va cambiato il metodo della selezione.

 

Il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur) ha emanato il 29 aprile 2016 la nota 11.729 in cui, sulla base di uno “schema di Decreto interministeriale”, ha trasmesso le tabelle di ripartizione dei posti alle regioni. Nei diversi gradi e ordini di istruzione, si tratta di sistemare casella per casella attraverso tabelle un totale di 601.126 docenti per l’Organico Comune, 48.812 per l’Organico di Potenziamento, più l’Organico di Sostegno, 96.480. In base alle ripartizioni e alle tabelle, si procede. Con la complicazione pratica, ma che va nella direzione dell’autonomia, che con la riforma gli insegnanti (da assumere o trasferire) scelgono l’ambito e la zona, poi inoltrano il loro curriculum alle scuole dove ci sono posti, e a quel punto il preside sceglie dal menù che gli è stato sottoposto. Ci sono anche certi sindacati che hanno protestato, chiedendo che l’insegnante possa scegliere direttamente il posto del suo lavoro. Si è mai visto, in un’azienda normale, che un nuovo assunto scelga, lui, che ruolo andare a occupare e in quale sede?

 

Chi si prendesse la briga di leggere lo schema del decreto ministeriale sulle dotazioni organiche del personale docente, scoprirebbe con qualche stupore, se non è avvezzo alla burocrazia e alla politica in genere, che per emanarlo è stato necessario il concerto di tre ministeri diversi – “Il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze e con il ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione” – e che, soltanto per entrare nel merito di quel che si intende decretare, è stato necessario premettere quattro pagine di elencazione – da “VISTO il decreto legislativo 16 aprile 1994” a “VISTA la circolare n. 22 del 21 dicembre 2015” – per un totale di 41 (quarantuno) norme pregresse che i tre ministri hanno dovuto osservare. Prima di poter indicare come, dove e quanto personale docente verrà assunto. E ovviamente nulla dicendo, né potendo dire o decretare, sul fatto che tale personale esista davvero, dove sia e di quale tipo. Le anime morte della scuola.

 

Il difetto non sta nella macchina burocratica (quasi perfetta pensando alla sua enormità, a rifletterci). Ma nel manico. Per avviare una Scuola dell’Autonomia sarebbe stato sufficiente, oltre che necessario, stabilire che il Dirigente Scolastico, nella sua nuova funzione (teorica) di preside manager (“quello dei presidi è uno dei punti più qualificanti, non vogliamo dei presidi passacarte”, Matteo Renzi) potesse assumere, in base alle esigenze dell’istituto che gli è affidato, il personale di cui ha bisogno. Uno o dieci, di questa o quella materia, da applicare qui o lì. A tempo indeterminato o determinato. Attingendo, semplicemente, a un registro (albo professionale, lista certificata, agenzia di “tagliatori di teste” specializzata in insegnanti) che in base a pochi semplici criteri – laurea, tirocinio svolto, corsi di abilitazione – certifichi la capacità di svolgere quel dato lavoro. Venisse da Milano o da Messina. Però per fare questo occorrerebbero un paio di semplici riforme, le più impossibili da realizzare in Italia. Riformare la Pubblica amministrazione. Creare davvero la figura del preside manager. Che non può esistere fintantoché il Dirigente Scolastico sarà un Funzionario Docente (professore) con le stesse qualifiche e abilità (laurea in Matematica, in Filosofia) dei suoi “dipendenti” (meglio una laurea in Management aziendale, no?), assunto con la stessa trafila concorsuale, inserito nello stesso schema e livello di organico e retribuzione.

 

Ciò che distingue oggi il preside da un suo collega è un qualche corso di aggiornamento e preparazione, l’aver superato tramite curriculum e domanda uno step che gli ha fatto cambiare funzione e, con un margine invero modesto, il livello retributivo. Non è detto – né si vuole negarlo a priori – che la riforma non intenda andare in questa direzione. Però mancano la radicalità e la linearità che richiederebbero i cambiamenti semplici: lo stato assume un dirigente preparato a guidare una struttura (magari non ha mai insegnato, magari dirigeva una Asl) e gli affida il potere gestionale e amministrativo della sua scuola. E persino il potere di assumere il diplomato in musica che, in tutto il territorio nazionale, più gli pare adatto. Questo la Buona scuola non lo ha fatto. Il discorso vale anche per la carriera degli insegnanti. Nella tavola rotonda organizzata da Vita, il ministro Stefania Giannini ammette: “Lo dico con franchezza, io ero per l’introduzione del concetto di carriera, con una differenziazione anche dal punto di vista stipendiale. Non so se qui abbiamo avuto un po’ meno coraggio, forse coraggio non c’è stato nemmeno da parte delle organizzazioni sindacali”.

 

C’è un altro aspetto che condiziona il problematico inizio d’anno, strettamente legato alla riuscita della Scuola dell’Autonomia e della sua potenziata offerta formativa. Bisogna tornare all’inizio. Quest’anno avrebbe dovuto concludersi la fase della copertura dei posti per il Potenziamento dell’Offerta Formativa (a livello nazionale sono 55.258), i famosi otto del liceo B. E’ la mitica Fase C delle assunzioni – le Fasi Zero, A e B hanno riguardato l’assunzione dei docenti iscritti a pieno titolo nelle graduatorie dei concorsi a cattedra e del concorso del 2012, cioè chi era in attesa del posto conquistato e (in parte) nelle Graduatorie a Esaurimento. L’Aspirante Docente (è la dizione tecnica) viene nominato nella prima provincia nella quale vi sia disponibilità per l’insegnamento per cui concorre, individuata secondo le preferenze indicate nella domanda (è la regola che ha generato le famigerate “deportazioni” con annesse polemiche ridicole). Ora è la volta della Fase C, quella per i posti del Potenziamento (volete chiamarli prof di serie B? Giammai). Vi accedono “i docenti non di ruolo iscritti a pieno titolo nelle Graduatorie a Esaurimento e nelle graduatorie del concorso 2012 che non hanno avuto una proposta di nomina nelle fasi precedenti”. L’Usr, Ufficio scolastico regionale (un tempo Provveditorato) verifica le esigenze comunicate dalle scuole attraverso il PTOF e il preside chiama scegliendo dalla lista. Tutto lineare? No. La questione è questa. Nei posti del Potenziamento sono entrati – entrano – tutti quelli “che non hanno avuto una proposta di nomina nelle fasi precedenti”, il residuo del precariato. La nuda verità è che il sistema di concorsi e assunzioni della riforma è stato deciso – se non in primo luogo, però come causa determinante – per prosciugare la platea dei precari e di quelli rimasti a vario titolo fuori. Una grandiosa immissione di assunti nella Pubblica amministrazione ope legis.

 

A fine 2015 Fabrizio Reberschegg della Gilda, sindacato d’impronta liberale, scriveva: “Con l’assunzione dei 55 mila insegnanti sul mitico Organico di Potenziamento si è conclusa la fase straordinaria delle immissioni in ruolo prevista dalla cosiddetta Buona scuola. Il governo ha sostenuto trionfalmente che l’organico potenziato servirebbe ad ampliare l’offerta formativa in arte, musica, educazione fisica, cittadinanza, lingue, ecc., fornendo le singole scuole di almeno 6-7 docenti in più… Il risultato è che almeno il 50 per cento dei posti di potenziamento concessi alle scuole non corrispondono a quello che le scuole avevano richiesto. Di fatto, dunque, la Fase C è stata finalizzata a piazzare in organico i docenti inseriti nelle Graduatorie ad Esaurimento e dunque per ‘svuotare’ le GaE senza una visione di medio periodo sull’articolazione degli organici”. La Gilda degli Insegnanti, ma non solo lei, sostiene che per uno svuotamento serio delle GaE servirebbe un piano pluriennale di assunzioni su posti effettivamente disponibili.

 

“Il governo ha preferito invece una immissione in ruolo di massa dei docenti in GaE con il rischio che in tantissimi casi non si sappia cosa far fare a questi colleghi. Tappabuchi? Progettisti? Manovalanza per l’organizzazione della didattica?”. Vi ricordate il dilemma del Dirigente Scolastico del liceo B.? “Avrebbe dovuto essere il piano triennale dell’Offerta Formativa a stabilire le modalità di utilizzo sulla didattica, ma il piano è stato di norma approvato ex post alla Fase C e su posti e cattedre decisi unilateralmente dal MIUR attraverso i soliti misteriosi algoritmi. Così le scuole si trovano a gestire in maniera ‘creativa’ docenti di diritto, storia dell’arte, economia aziendale, ecc. quando avrebbero invece bisogno di lettori di lingua, docenti di inglese, matematica, italiano, italiano per stranieri”. C’è di più, secondo Reberschegg: “Il paradosso è che per tutti quei docenti assunti nella Fase C che rimarranno sulla cattedra di supplenza annuale e che quindi non prenderanno servizio diretto nell’Organico Potenziato, verranno chiamati supplenti ‘potenziati’. A fare che cosa non si sa”. E il vero problema è che con la Fase C sono entrati docenti anche con una esperienza lavorativa vicina allo zero”.

 

Non è così in tutti i casi e in tutte le scuole, ci mancherebbe. Ma la disamina è indicativa, per quanto parziale. Il raggiungimento del mitico Organico dell’Autonomia resta un obiettivo mancato. D’accordo, c’è ancora il terzo anno di attuazione e tutto si aggiusterà. Del resto riformare la scuola non può essere che un lavoro di avvicinamenti successivi.

 

Se si vuole però capire come lavoreranno davvero, in futuro, i Funzionari Docenti del nostro liceo B. – e di conseguenza quale tipo di scuola potranno offrire agli studenti (i vostri figli, o se preferite il nostro patrimonio sociale) – è interessante notare un altro aspetto, di solito assai trascurato nei discorsoni teorici e nelle chiacchiere minute. Tutte le questioni di tipo organizzativo-burocratico che riguardano la scuola – compresa la langue de bois della tecnostruttura, che qui abbiamo provato ad evocare con uno sproposito di maiuscole e dizioni ufficiali – hanno una ricaduta nella qualità del lavoro degli insegnanti. Il loro lavoro specifico, quello di entrare in classe ogni giorno e istruire, educare, addestrare. Dalla qualità del loro dire, fare e pensare dipende l’unico e vero successo della scuola, le nuove generazioni che ne usciranno.

 

Il nuovo sistema, secondo il ministro Stefania Giannini “punta a valorizzare le esperienze e i percorsi professionali che gli insegnanti si sono costruiti nel tempo e consente alle scuole di scegliere i docenti di cui hanno bisogno per portare avanti la loro offerta formativa”. Su questo obiettivo, però, non pesa soltanto la scelta (temporanea) di sistemare l’occupazione a scapito delle necessità e della qualità (alla fine entreranno tutti, no prof let behind). C’è che il disegno complessivo della Buona scuola tende a potenziare “l’offerta” purchessia. I docenti sono chiamati sempre più a fare “altro” rispetto allo specifico dell’insegnamento, scontrandosi anche con un pletorico lavoro burocratico e di modulistica elettronica (neo-gogoliano, verrebbe da chiamarlo) che sottrae tempo ed energie. Ricordate il caso del Funzionario Docente del liceo B., che farà meno ore in classe per dedicarsi alla biblioteca? Fate l’ipotesi che si tratti di un eccellente insegnante, ma che non gli importi nulla delle biblioteche e delle gite: la qualità del suo lavoro, e della scuola, sarà migliorata? Le ore dedicate ad altre attività – l’alternanza scuola lavoro in primis – sono ore sottratte alla didattica specifica, comunemente detta, ma sempre meno consdiderata, il tempo per imparare.

 

Certo, è una nuova didattica, e nessuno rimpiange la matita rossa e la lezione alla lavagna, che del resto non esistono più da vent’anni almeno, senza aspettare la Buona scuola. Ma si tratta dello specifico della scuola: insegnanti preparati che insegnano a studenti offrendo loro la possibilità di imparare col minimo di dispersione. Invece i professori rischiano di diventare sempre più funzionari addetti ai PTOF, tra “Competenze Linguistiche, Competenze Digitali, Prevenzione e Contrasto Dispersione Scolastica, del bullismo e del cyberbullismo” e tutta una serie di altre competenze che un buon insegnante di Fisica non necessariamente dovrebbe avere: non c’è un Funzionario del Potenziamento pronto a essere assunto? Ma per parlare di questo servirebbe un altro romanzo. Magari Padri e figli di Turgenev.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"