Aprile 2010, semifinale di Champions League al Camp Nou: con Ibrahimovic, Guardiola allenatore del Barcellona e Mourinho tecnico dell’Inter (foto LaPresse)

I duellanti

Beppe Di Corrado
Mourinho contro Guardiola. Oggi il derby di Manchester, partita vera grazie agli sceicchi. Ma soprattutto sfida tra due carissimi nemici. E’ la guerra dei mondi del calcio che finisce in una sola città. Uno scontro cercato, voluto, creato, un derby personale, un mercato stellare. I 22 titolari che giocheranno oggi all’Old Trafford valgono nel complesso 713 milioni di euro.

Quindi ci siamo. Presto, come se il caso abbia deciso di togliersi in fretta questo peso. Quarta giornata di campionato, quando è tutto ininfluente perché ci sono ancora tante partite e quel match quasi si depotenzia. Inizio settembre, quando è ancora tutto fresco, nuovo, incerto. Indefinito, soprattutto. Immaginate Manchester United-Manchester City alla quart’ultima giornata: statisticamente potrebbe essere molto più decisiva, per la vittoria di uno o dell’altro, ma anche della possibile sconfitta di entrambe. Perché è un duello, tra loro ma poi ci sono gli altri. Alla quarta giornata, invece, è tutto molto blando, molto soffuso, molto soft. L’urna elettronica che ha disegnato la mappa del campionato inglese 2016/2017 ha scelto così. Subito, adesso.

 

Quindi oggi: 10 settembre 2016, derby di Manchester, United contro City, rossi contro azzurri. Mourinho contro Guardiola. Che poi è questa la storia. Perché il derby di Manchester c’è praticamente da sempre e storicamente non è un duello di quelli più importanti. Cioè non è Liverpool-Everton, né Arsenal-Chelsea, né Arsenal-Tottenham. Non è neanche Manchester United-Liverpool, che non è un derby ma resta probabilmente la partita che interpreta la più grande rivalità della storia del calcio inglese. Il motivo è semplice: fino all’intervento degli sceicchi di Abu Dhabi, non c’era mai stata partita. Era uno di quei derby scontati, una sfida tra un ricco e un povero, tra un vincente e un perdente, tra uno che lottava per vincere il campionato, l’altro per non retrocedere (quando non era retrocessa e quindi il derby neanche c’era). I milioni arrivati al City hanno reso la sfida di Manchester una cosa vera, combattuta, interessante perché non interpreta solo due modi di vivere il calcio e il tifo, ma anche perché vale per qualcosa. O quantomeno può valere per qualcosa. E però è questo di oggi il vero derby, quasi fosse il primo. Perché questa è una nuova èra, per Manchester. José Mourinho contro Josep Guardiola.

 

L’attrazione più importante del campionato più importante del mondo. E’ la guerra dei mondi del calcio che finisce in una sola città. Perché c’era già stata e se volete era ancora più globale: Real Madrid contro Barcellona, ovvero il calcio e oltre il calcio la politica, financo la geopolitica. Adesso la sfida è più vicina, è più locale e però al tempo stesso universale. Perché questo scontro è stato cercato, voluto, creato. Hanno cominciato a lavorarci tutti da quando Guardiola ha annunciato che aveva firmato con il City. Mourinho aveva voglia da tempo di andare allo United, ed è diventata impellente quando ha cominciato a pregustare il derby personale che si inseriva in quello cittadino.

 


Josep Guardiola (foto LaPresse)


 

Quindi siamo qui, oggi. I giornali di questi giorni sono pieni di molte cose. E di molti numeri. Il derby più costoso della storia del calcio mondiale. Ricordano che quest’estate lo United ha speso 172 milioni di euro per il mercato, comprando Pogba, Mkhitaryan, e prendendo Ibrahimovic, mentre il City ha sfiorato i 200 milioni di euro, per Stones (il difensore inglese più pagato di sempre) Sané, Gundogan, Nolito e Gabriel Jesus che arriverà però a gennaio. Nonostante l’assenza di Sergio Agüero, fermato dal giudice sportivo per tre giornate, si calcola che oggi scenderanno in campo 713 milioni di euro, il valore di mercato dei 22 titolari. Tra questi, sei dei dodici acquisti più costosi nella storia del calcio inglese. I soldi che ruotano attorno al match e l’importanza che ne viene data dalla stampa servono a certificare che stiamo parlando di una partita straordinaria. Eppure i denari, così come la forza dei calciatori in campo, sono l’accessorio. Perché la storia che si compie è il ritorno del duello di quei due. Mourinho contro Guardiola. Come ha scritto Nicola Sellitti: “Si stringeranno la mano sotto gli occhi dei 70 mila dell’Old Trafford e di tutte le tv del mondo puntate sulla Premier.

 

Cosa altro potrebbero fare due attori che hanno mandato a memoria il copione di questo dualismo plasmandolo a piacimento? Certo, quasi vent’anni fa tra Pep Guardiola e José Mourinho c’erano abbracci, pacche sulle spalle. Lo spagnolo era il vigile del centrocampo del Barcellona che doveva giocare in verticale per Ronaldo, il Fenomeno – poi il brasiliano sapeva cosa farne, di quella sfera – mentre Mou era tra gli assistenti del tecnico blaugrana Bobby Robson. Poi Pep si è piazzato in panchina e tutti hanno scoperto che era bravo, bello e carismatico almeno quanto il portoghese. Un vincente. E con un ego smisurato, come l’uomo da Setúbal. Il punto di rottura sarebbe dovuto a quella panchina del Barça senza dipendente nel 2008 che Mou voleva occupare, addirittura proponendo lui stesso Pep assistente e che invece finiva allo stesso Guardiola. Ecco il tiki taka, il calcio concettuale del Pep, poi la manita subita dal primo Real Madrid di Mou al Camp Nou e quella strana coincidenza fatta notare dal portoghese, le sue squadre per cinque volte in fila rimaste in dieci uomini contro il Barça del Pep”.

 

C’è il calcio europeo degli ultimi quindici anni nella storia della rivalità tra questi due uomini. Una rivalità che ha avuto il suo culmine nell’aprile del 2011, quando in 18 giorni Guardiola e Mourinho si incontrano quattro volte: Clasico della Liga, finale di Coppa del Re e doppia semifinale di Champions League. Quello che è accaduto in quei 18 giorni, ciò che l’ha scatenato e ciò che ha seguito è stato raccontato da Paolo Condò in “Duellanti” (Baldini & Castoldi). Un libro fantastico, un saggio che diventa romanzo per capacità dell’autore e per capacità intrinseca dei due personaggi protagonisti. I 18 giorni del 2011 sono la base di quello che va in scena oggi a Old Trafford. E che poi si ripeterà il 26 febbraio all’Ethiad Stadium del City. Qualcosa che c’entra con il calcio e con ciò che sta ai lati del calcio. Perché la rivalità diventata duello indica diversità che spesso sono nate come analogie per poi distaccarsi successivamente. E’ stato il calcio a metterli contro, più che loro a mettersi contro per il calcio.

 


José Mourinho e Josep Guardiola (foto LaPresse)


 

Barcellona è stata la terra degli incroci e di un rapporto che se non di amicizia era di frequentazione. Pep s’è fatto grande davvero quando Mou era ancora un numero due. Van Gaal in mezzo, José dietro e Guardiola davanti, ex ragazzino diventato campione. Quattro: il numero e l’idea, la certezza di quello che sta in mezzo con le gambe storte e il cervello dritto, che ha visto dove lanciare già prima di ricevere. Louis e José non possono avergli insegnato molto perché quelli così nascono imparati, portati all’organizzazione da una vita passata a immaginarsi le azioni fatte da un tocco solo: a destra, a sinistra, avanti, indietro, in profondità, corto, lungo. Van Gaal non ha spiegato, Mourinho non ha insegnato e Pep ha capito ugualmente. Diventato allenatore presto dove un giorno José sarebbe voluto tornare (senza mai averlo detto apertamente) e dove probabilmente mai tornerà. Il perché è in quei 18 giorni e in quella dichiarazione che nessuno potrà mai dimenticare, specie in Catalogna: “Guardiola è un allenatore fantastico.

 

Lo ripeto: Josep Guardiola è un allenatore fantastico, ma ha vinto una Champions della quale io mi sarei vergognato. Perché è arrivata dopo lo scandalo di Stamford Bridge”. Mourinho stava parlando della semifinale della Champions 2009: il Barcellona di Pep segna con Iniesta al minuto 93 il gol che lo qualifica alla finale di Roma dopo che il Chelsea di Mourinho reclama per sei rigori negati dall’arbitro Ovrebo. Quella sconfitta ha condizionato l’intera carriera da quel momento in poi di José e ha trasformato la sfida tra due allenatori fortissimi nella guerra di civilità. Messi contro per lo stile di gioco delle loro due squadre e per questioni caratteriali. I 18 giorni raccontati da “Duellanti” hanno cucito la drammaturgia dei loro confronti anche al di là della realtà.

 

Oggi sei mouriniano o guardiolista, come se fossero due visioni opposte. In parte è anche vero. In parte no, perché cultura del lavoro, abnegazione, identificazione del calcio come pilastro fondante della costruzione dell’identità dell’uomo oltre che del professionista sono più simili di quanto si creda. E’ l’applicazione che è opposta. E dall’applicazione opposta è nato il dualismo. Perché in fondo è così: per essere rivali davvero bisogna avere dei punti di contatto. Il cortocircuito arriva dopo: quando il lavoro fatto si porta sul palcoscenico e quando si entra in scena. Lì José e Pep sono diversi. Buoni e cattivi in modo diverso: José ha un rapporto fantastico con i calciatori, meno con gli avversari. Guardiola lascia spesso macerie negli spogliatoi, ma non litiga con uno di un’altra squadra.

 

Guardiola vive di calcio. E non è una frase fatta, per quanto lo possa sembrare. In questo caso è letterale. Il giornalista e amico Martí Perarnau l’ha seguito per tutta la sua prima stagione a Monaco e ne ha poi scritto un libro, che è sì una biografia, ma al tempo stesso è un manuale dell’allenatore. Perarnau racconta quello che Zlatan Ibrahimovic ha sintetizzato con una frase che ha fatto scoppiare il caos: “Guardiola non è umano”. Non era soltanto una critica che testimoniava la difficoltà nei rapporti tra i due. C’era un sottinteso legato alla mania, all’ossessione per la preparazione delle partite, al modo totalizzante di vivere il calcio che s’è perso a vantaggio della polemica di Ibra contro Guardiola, ma che nel libro di Perarnau viene fuori per quella che è: un modo di approcciare il lavoro, di viverlo, di trasferirlo. Per esempio: come regola generale, Guardiola fa tre colloqui con la squadra squadra prima di ogni partita, ognuno dei quali dura più o meno 15 minuti. Usa le immagini per chiarire i suoi punti, di solito riprese video che non durano più di sette minuti.

 

I tre colloqui seguono lo stesso schema, una ridondanza che serve a fissare meglio i concetti. Per Mourinho gli allenamenti sono simulazioni della partita, come ha ricordato qualche tempo fa Francesco Pacifico: durano novanta minuti, contro il concetto di carichi di lavoro. Mai isolato lavoro fisico e calcistico. Intensità più che quantità, perché l’intensità produce una risposta emotiva nel calciatore. L’esercizio deve durare novanta minuti al massimo di esercizi di squadra, perché l’esercizio deve preparare alla dimensione emotiva della partita e bisogna creare una specie di memoria fisica della partita intesa come contesto e sua durata precisa. Ci sono analogie, ci sono differenze. C’è il contesto e c’è ciò che sta leggermente fuori dal contesto, ovvero noi che sembriamo avere bisogno delle rivalità altrui per non sentirci cattivi quando proviamo invidia per qualcun altro, o quando non sappiamo domare la rabbia per aver perso. Il loro duello è da anni una delle cose più interessanti del mondo del calcio globale. Perché José e Pep non sono attori, ma sono straordinari interpreti della comunicazione e hanno capito entrambi che la sfida fa bene a entrambi.

 

E’ come se la presenza dell’altro sia funzionale al successo di entrambi. Condò lo riassume alla perfezione così: “E’ divertente, e tutt’altro che fuorviante, cercare gli accostamenti fra i duellanti più stimolanti del calcio mondiale – il livello intellettuale del loro confronto non ha eguali nel football, e si avvicina molto a un Karpov-Kasparov – e la saga di ‘Guerre stellari’, perché se José Mourinho è un perfetto Darth Vader, o meglio un perfetto Anakin Skywalker che si trasforma in Darth Vader, Pep Guardiola ricalca molto bene il profilo di Obi-Wan Kenobi. Nello sviluppo cronologico della saga i due, un tempo amici, finiscono per combattersi all’ultimo sangue, e se in una prima fase Obi-Wan ha la meglio sul discepolo (‘La vendetta dei Sith’), in seguito è Darth Vader a prevalere (‘Una nuova speranza’). Analogamente Guardiola vince la guerra dei 18 giorni, ma è il suo canto del cigno in terra catalana: stremato dalla durezza del confronto, col veleno del rivale che ormai gli è entrato in circolo, crolla nella stagione successiva arrivando nove punti dietro il Real in Liga, e soprattutto perdendo in casa a primavera, e in modo inappellabile, lo scontro diretto che avrebbe potuto rilanciarlo.

 


Se José Mourinho è un perfetto Darth Vader, o meglio un perfetto Anakin Skywalker che si trasforma in Darth Vader, Pep Guardiola ricalca molto bene il profilo di Obi-Wan Kenobi (un fotogramma di "La vendetta dei Sith).


 

Entrambe le squadre escono in modo rocambolesco nelle semifinali di Champions, il Real ai rigori dal Bayern, il Barça dal Chelsea quando pareva ormai fatta: le energie spese in campionato erano evidentemente state troppe. E’ a quel punto che Guardiola si ferma per un anno sabbatico, decisione che lascia stupefatto l’intero mondo del calcio. Ma è una scelta saggia, perché in quel momento davvero non ne ha più, e necessita di tempo e di tranquillità per riconsiderare il suo rapporto con il calcio. Pensate a come la guerra con Mourinho l’abbia scosso fin nelle fondamenta. Privato del rivale cui in un certo senso ha consacrato la propria carriera, José è un altro uomo e un altro tecnico: distratto, distante, svuotato dall’adrenalina che ne faceva una macchina da guerra, in Liga subisce la perfetta stagione di Tito Vilanova – la sua breve vita felice ai comandi del Barça – in Champions paga la serata nera di Dortmund e perfino in Copa del Rey lascia strada in finale al nascente Atletico di Simeone.

 

‘La peggiore stagione della mia carriera’, la definirà, risolvendo il contratto col Real con reciproca soddisfazione delle parti. Una stagione – aggiungiamo noi – nella quale ha terribilmente patito l’assenza del suo nemico preferito. Perché in definitiva è questo il vero tesoro, la vera ricchezza che trasforma vite e carriere: un oppositore – che sia nemico, rivale o avversario in fondo non importa – che ti costringa a dare il meglio, pena la sconfitta”. Manchester è un territorio nuovo. Geograficamente più piccolo rispetto al palcoscenico del passato, ma per questo emotivamente più grande. Perché rende reale ciò che sembrava filosofico. Vivere la stessa città da due lati opposti è una sfida diversa anche per loro, per Mourinho e Guardiola. Non è vero, come hanno fatto capire in questi giorni, che questa è una partita importante ma non più importante delle altre partite importanti. Oggi comincia una storia che non è mai finita. Può essere semplice o complicata, ma è di nuovo vera. I soldi che vanno in campo e che rendono il derby unico per la prima volta nella sua vita sono le quinte che si muovono per lasciare spazio al palco. José e Pep devono soltanto interpretare se stessi.

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