L’allora professor Barack Obama alla University of Chicago Law School

Il declino culturale dell'impero

Mia cara America, stai perdendo la tua identità

Giulio Meotti
Politicamente corretto e isolazionismo trumpiano si alimentano a vicenda. Gli Stati Uniti sembrano dire addio alla società aperta. Forum con George Will, Mary Ann Glendon, Harvey Mansfield, David Gelernter, Robert George, Ruth Wisse, Midge Decter, Charles Kors e altri.

Il buon umore e la curiosità intellettuale che degenerano in sconforto e isteria, la voce bassa in politica estera, il paese che indossa una veste dimessa, l’isolazionismo e il protezionismo che spodestano gli ideali della “nuova frontiera”, la “società affluente” che diventa la “società indecisa”, l’America che appare sempre più un animale, per usare la formula di New Republic, che si lecca le ferite dopo la battaglia. E’ quella che Charles Koch, magnate repubblicano, sul Wall Street Journal ha definito la nuova “chiusura della mente americana”: “Gli Stati Uniti stanno diventando una società meno aperta e libera: in molti campus, un clima di conformità intellettuale ha sostituito il dibattito aperto, soffocando la discussione su una serie di argomenti che vanno dalla storia alla scienza all’economia. Si interrompe il processo di scoperta e di sfida che è alla radice del progresso umano”.

 


Charles Koch


 

Koch ha ripreso la formula resa celebre da un professore di Lettere classiche dell’Università di Chicago, Allan Bloom, che ne trasse un libro fenomenale nel 1987. Anche David Brooks sul New York Times l’ha ritirata fuori per indicare quella “cultura del senso di colpa e di vergogna” che oggi domina il mainstream americano. Come in “I am Charlotte Simmons”, il romanzo di Tom Wolfe che ha per protagonista una studentessa. Quattro anni in un’università della Ivy League costano quanto comprarsi una casa in alcune parti degli Stati Uniti: circa 120 mila dollari di sole tasse universitarie. Ma che cosa si riceve in cambio di questi soldi? Un biglietto per “Animal House”.

 

Nell’immaginaria università di Tom Wolfe i piaceri del corpo hanno l’assoluta precedenza su quelli dello spirito. Gli studenti sono impegnati a “cuccare” (ovvero, andare a letto) con zelo indefesso. Mentre spadroneggiano tipi da discoteca decerebrati, i topi di biblioteca impoveriti sono ridotti a scrivere temi per loro. L’amministrazione universitaria è assolutamente indifferente a tutto tranne ai dogmi della “political correctness” (maschi e femmine sono obbligati a condividere i bagni in nome dell’eguaglianza tra i sessi). I baccanali si svolgono con l’accompagnamento di musica gangsta rap intrisa di violenza. Non è paradossale che Donald Trump, col suo populismo nazionalista, sia emerso proprio adesso in questo clima di santimonia morale che domina gli Stati Uniti e che segna la crisi della cultura Wasp, acronimo che sta per “White Anglo Saxon Protestant”, protestanti anglo-sassoni bianchi, coloro che hanno dato all’America la sua forma specifica, particolare, il “nucleo d’acciaio”. Il Foglio è andato a parlarne con alcuni volti noti del mondo accademico e intellettuale nordamericano.

 

Tutti concordano con l’analisi di Rich Lowry, direttore della National Review, portabandiera del pensiero conservatore: “La correttezza politica è in ascesa nelle università da molto tempo, ma adesso è diventata ancora più rancida e potente, se possibile”, dice Lowry al Foglio. “E ha iniziato a diffondersi in una cultura più ampia. I decenni d’oro della vita in America dopo la Seconda guerra mondiale stanno finendo”. Partiamo dando la parola a George Will, premio Pulitzer, decano del giornalismo americano, dove da decenni spicca come una solitaria voce conservative, definito nel 1986 dal Wall Street Journal “il più influente giornalista d’America” assieme a Walter Lippmann. “Quando John Kennedy venne eletto presidente, si circondò di ex studenti della Ivy League”, dice Will al Foglio. “Sessant’anni dopo, le università si sono ritirate dalla società americana, i radical degli anni Sessanta sono diventati professori e hanno condotto i campus a una sorta di ubriacatura ideologica. Viste dall’esterno, queste università sono in preda all’isteria, gli studenti pensano di essere fragili ‘snowflakes’ da proteggere da qualsiasi pensiero, la libertà di parola è diventata la libertà dalla parola, in una bolla di perpetua infanzia.

 

E’ anche una conseguenza degli ‘helicopter parents’ che devono proteggere i figli da qualsiasi sfida, in una sorta di prolungamento dell’adolescenza, come se il college ne fosse la continuazione e non la fase d’ingresso nell’età adulta. Questo fenomeno si deve al multiculturalismo nuovo negli Stati Uniti, il relativismo che vige su tutto e che bolla la civiltà occidentale come razzista, sciovinista, sessista. Quindi le università hanno abdicato alla tradizione di Matthew Arnold di trasmettere la civiltà. E i radical degli anni Sessanta si stanno replicando a una velocità impressionante, rafforzando così i pregiudizi. Questo fenomeno si sta espandendo ovunque. I giornalisti vengono dai campus, le star della tv vengono dai campus, e la cultura di Harvard è la stessa delle università pubbliche. Sta nascendo una nuova cultura americana”.

 

Questa estate, Will ha scritto sul Washington Post che a causa della candidatura di Donald Trump non si riconosce più nel Partito repubblicano. “Il fenomeno Trump nasce da qui, dall’alienazione della cultura accademica e del politicamente corretto”, conclude Will al Foglio. “Trump non sa niente di niente, se non la cultura del dileggio, scioccare la sensibilità delle persone che hanno imposto il politicamente corretto. La cosa triste è che così facendo Trump fa buon gioco al politicamente corretto. Il nuovo isolazionismo americano, da Obama a Trump, è legato alla mancanza di fiducia nella propria civiltà. L’interventismo è in crisi proprio a causa di questa fine della saggezza americana. A novembre gli americani eleggeranno un presidente che non amano. E questo non era mai successo nella storia. Non ci sarà alcuna luna di miele per il prossimo presidente.

 

L’America ha ancora grandi vantaggi, il libero mercato, la potenza militare, una forza industriale ben istruita, ma questo è il primo decennio in cui non siamo mai cresciuti oltre il tre per cento. Robert J. Gordon nel libro ‘The rise and fall of American growth’ sostiene che ‘la rivoluzione economica del 1870-1970 è stata unica… Nessun’altra epoca della storia umana, né prima né dopo, ha combinato così tanti elementi in cui il tenore di vita è aumentato più rapidamente e in cui la condizione umana è stata trasformata del tutto’”. Conclude allora Will: “L’America ha avuto un secolo irrepetibile, ma adesso dobbiamo fare i conticon la fine dell’eccezionalismo americano”.

 

Il 24 giugno del 1993 il genio dei computer dell’Università di Yale, David Gelernter, aprì un pacco senza mittente nel suo ufficio al quinto piano della Arthur Watson Hall. Inventore del “cloud”, Gelernter è stata la vittima più illustre di Unabomber, alias Theodore Kaczynski, il matematico docente a Berkeley che andò a vivere in una capanna nel Montana per lanciare la sua guerra luddista all’America. Gelernter sopravvisse all’attentato con l’occhio destro accecato, la mano destra monca e gravi lesioni agli organi. Oggi Gelernter, che ha vinto contro la Apple una delle cause informatiche più importanti della storia americana, continua a occuparsi di computer e tecnologia a Yale, ma scrive anche libri sull’influenza delle élite che reputa distruttiva.

 


David Gelernter


 

“La cultura umanistica americana sta declinando, ma politicamente corretto, volgarità e isolazionismo sono i sintomi, non le cause”, dice Gelernter al Foglio. “Politicamente corretto e volgarità sono problemi terribili causati dalla sinistra, l’isolazionismo era associato alla destra, ma adesso è abbracciato da entrambe. Il politicamente corretto è un modo elegante per dire ‘antintellettualismo di sinistra’. La correttezza politica nelle università americane rende impossibile ormai studiare l’arte, perché ogni singolo grande pittore occidentale è un maschio bianco europeo. Per secoli, a nessuno importava. Questi artisti sono stati grandi esattamente perché a nessuno importava del loro sesso o razza, nessuno pensava a questo; piacevano i loro dipinti. Appassionati d’arte provenienti da tutto il mondo – uomini e donne, bianchi e neri, europei e asiatici – vanno Firenze e Parigi e Londra e Roma per studiare i loro dipinti. Solo uno che odia l’arte direbbe: ‘D’ora in poi, studieremo i dipinti non perché i quadri sono grandi, ma perché gli artisti sono corretti’. Quando si mostra agli studenti un gruppo di dipinti di artisti ‘corretti’, gli studenti concludono che la pittura stessa è una perdita di tempo. Se i quadri fossero stati buoni, la gente li avrebbe studiati senza attendere la correttezza politica.

 

L’arte è sempre stata una meritocrazia. Gli uomini erano favoriti rispetto alle donne nel XIX e XX secolo in Francia e in Inghilterra, ma le scrittrici donne francesi e inglesi hanno prosperato. L’Europa nei secoli XIX e XX era profondamente antisemita, ma Heine e Kafka e Proust, Mendelssohn e Mahler, Pissarro e Soutine e Chagall e Modigliani hanno prosperato. L’arte è una meritocrazia. La correttezza politica nello studio dell’arte è una farsa; è un modo per sostituire l’arte con la politica. Gli intellettuali non capiscono l’arte, capiscono le idee. Così hanno sostituito lo studio dell’arte reale con lo studio dell’arte concettuale. Gli intellettuali americani hanno sostituito lo studio della pittura, dell’architettura, della letteratura e della musica con lo studio di idee. E sempre le stesse idee!”.

 

Secondo Gelernter, c’è un mantra mortale oggi in vigore nella cultura americana: “L’America è colpevole. L’occidente è colpevole. Il maschio bianco è colpevole. Soprattutto, l’ebraismo e il cristianesimo sono colpevoli. La cultura umanistica degli Stati Uniti è in declino ma non a causa dell’americano medio; è a causa dell’intellettuale americano medio. Questo sarebbe un momento perfetto per le grandi università europee per ristabilire se stesse. I migliori studiosi in America sono afflitti dal politicamente corretto: le università europee dovrebbero assumerli, così il centro di studi culturali occidentali tornerebbe in Europa. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, molti dei migliori studiosi, artisti e studenti europei sono venuti in America per insegnare o studiare. Adesso è un’occasione unica per invertire il flusso.

 

Ma le università europee sono interessate? Niente affatto! Tranne, in misura limitata, le università inglesi. Naturalmente ci sono grandi studiosi europei e studenti europei brillanti nelle università europee di oggi. Ma questo non basta a salvare lo studio della cultura occidentale. L’Europa potrebbe offrire un rifugio sicuro alla grande gamma di artisti brillanti e pensatori e studiosi in America. Ma questo non accadrà. L’odio di sé, l’anti-intellettualismo e la mentalità a senso unico e priva di senso dell’umorismo delle università americane avrà fine. Le università americane costano troppo e offrono troppo poco per continuare come stanno andando. La mia ipotesi è che, tempo un’altra generazione, il novanta per cento delle università americane di oggi sarà finita”.

 

Gelernter è ottimista per l’America: “Non perché Internet ci aiuterà a sostituire le università di oggi con altre migliori. Sono ottimista perché l’America rimane fondamentalmente una nazione religiosa, una nazione giudaico-cristiana, mentre l’Europa con tutta la sua grandezza e la sua maestosa, travolgente e straziante bellezza, è solo una post-civiltà atea. La cultura occidentale e le religioni bibliche sono la stessa cosa. Non si può avere l’arte senza religione. Ma per troppi giovani europei (e di sinistra americani), la religione semplicemente non esiste come parte della vita, ma come un nemico vigorosamente da combattere. In ultima analisi, quella di Rémi Brague è l’analisi più convincente della civiltà occidentale. Dal cristianesimo romano è emersa la nostra cultura occidentale. Nessuno mette in dubbio che la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, sia il documento fondamentale della civiltà occidentale. L’America è una repubblica biblica, fondata sulla Bibbia citata da puritani e anglicani; Abraham Lincoln, il nostro presidente più grande e profondamente religioso, conosceva a memoria la Bibbia.

 

Nell’Europa occidentale, e nella sinistra americana, la Bibbia è invece scomparsa, ma il resto dell’America conosce ancora la Bibbia. Per fare un quadro, è necessaria un cavalletto appoggiato a terra e un pannello di legno. Il giudeo-cristianesimo è il fondamento della civiltà occidentale. Il vostro lavoro potrà essere in accordo o in dissonanza con la religione biblica; ma l’ebraismo o il cristianesimo sono la base di tutta la nostra più grande opera. La cultura occidentale e le religioni bibliche sono la stessa cosa. Giudaismo e cristianesimo tengono insieme l’universo; ci danno un punto di vista da cui si può vedere l’unità nel cosmo. E’ interessante il fatto che la fede in Dio non è il problema fondamentale. La questione fondamentale è l’amore di qualche particolare modo di vita, del modo in cui la nascita e il matrimonio e la morte sono celebrati o commemorati. Giudaismo e cristianesimo significano l’amore dei tuoi genitori e antenati e il modo in cui vivevano; e l’amore del tuo villaggio o comunità o nazione. Avete bisogno di questa terra per fare un quadro, per avere una cultura. Negli Stati Uniti ci sarà (grazie a Dio) ancora la tela per dipingere. Adesso non stiamo dipingendo. Non stiamo creando cultura. Stiamo facendo invece molta sciocchezza politica. Ma questo si concluderà, e torneremo alla pittura, perché abbiamo ancora la terra”.

 

Secondo Tyler VanderWeele, docente di Epidemiologia alla  Harvard School of Public Health, “la ‘decadenza’ americana è caratterizzata da una mancanza di volontà di sacrificarsi per una causa più grande, che, nella vita americana, credo sia un cambiamento significativo da due generazioni, insieme a un intenso individualismo egocentrico focalizzato sul piacere e i diritti al di sopra del bene comune. Si tratta di un passaggio dalla nozione stessa di felicità come virtù, impegno amorevole, all’auto-realizzazione”. Spiega sempre VanderWeele al Foglio che il protestantesimo Wasp, con i suoi vari punti di forza e difetti, era in realtà una forza contro la decadenza. “Il ‘Wasp’ ha perso la sua ‘P’ e di conseguenza ha perso, se mi perdonate il gioco di parole, il suo pungiglione.

 


Tyler VanderWeele


 

Credo che ci siano ancora molti elementi buoni della vita culturale in America, in alcune aree all’interno delle arti, in parti dell’università, nella religione, e anche in aree di business. Credo che la radice centrale di quello che si potrebbe chiamare l’attuale decadenza è la prominenza del declino della religione, non tanto nella vita dell’individuo, ma in termini di influenza pubblica e di rilievo. Ad accompagnare questo, e relativo ad esso, è il declino delle strutture familiari tradizionali nella vita americana. Il pluralismo, la globalizzazione, e una perdita di un impegno verso standard assoluti o trascendenti, insieme con l’influenza di Internet e una cultura di gratificazione immediata, le vendite, il marketing, tutto questo ha contribuito”.

 

Robert George è “il braccio destro dei monsignori”, come lo ha definito il New York Times in un lungo profilo pubblicato sul magazine del giornale. Docente a Princeton, guru del pensiero cattolico americano, George spiega al Foglio che “gli Stati Uniti sono un paese grande e diversificato. La sua cultura è complessa, e ci sono molte sotto-culture buone e cattive. Nel suo insieme, resta molto di lodevole nella cultura americana. E tuttavia c’è anche molto di deplorevole e che ha bisogno di una riforma. Questa è la ‘decadenza’ di cui si parla. La cultura americana è fiorente dove le comunità religiose sono forti, siano cattolici, evangelici protestanti, ebrei ortodossi, musulmani, o di un’altra fede. In queste comunità, uomini e donne si sposano, stanno avendo figli, costruiscono casa insieme, e trasmettono ai loro figli le virtù necessarie come persone e come cittadini. Dove la fede è decaduta, tuttavia, anche se le sue forme rimangono e le persone si ‘identificano’ come cristiani, ebrei, la situazione è drammaticamente diversa. Qui vale la ricerca della ‘auto-realizzazione’ o  di una piacevole ‘sensazione’.

 

Da qui nascono la cultura della droga, il libertinaggio sessuale, il consumismo e il materialismo, la mancanza di rispetto per l’onestà e la verità, e l’egoismo generale. Essi hanno, in effetti, abbracciato ciò che Platone nella sua opera ‘Le leggi’ identifica come la terza forma del secolarismo o ateismo: non è l’ateismo (stretta negazione di Dio) o addirittura il deismo (fede in un Dio distaccato dagli affari degli uomini), ma la fede in un Dio morbido. Dove la terza forma di empietà prevale, vi è abbondanza di spazio per la decadenza per insinuarsi. E poiché questa terza forma di empietà effettivamente prevale in sottoculture importanti e influenti – i mezzi di informazione e di intrattenimento, la sistema educativo, il mondo delle grandi imprese e la pubblicità, le élite, per esempio – abbiamo certamente la nostra quota di decadenza. E questo ha colpito la cultura in genere, con conseguenze spirituali negative per tutti, ma con conseguenze materiali devastanti per gli americani più poveri e vulnerabili.

 

Abbiamo bisogno di quella che Papa Francesco chiama ‘ecologia morale’. E’ soprattutto in queste comunità povere, prevalentemente afro-americane, ispaniche o caucasiche, urbane o rurali, che troviamo il ciclo terribile di mancanza del padre, disperazione, delinquenza, abuso di droghe, violenza, crimine e carcere su cui molti dei nostri sociologi più penetranti hanno scritto. E tuttavia, troviamo anche in questi settori persone che vivono esistenze virtuose e appaganti, ma dove sono moralmente e religiosamente motivate a raggiungerle, a fare sacrifici e a rischiare, per aiutare le persone nel bisogno più disperato. Così, nonostante la decadenza innegabile nella cultura, sono pieno di speranza”.

 

Non è una questione di decadenza bianca, anglosassone, protestante. “La gente di tutte le provenienze razziali, etnici, religiosi è colpita da essa”, conclude Robert George al Foglio. “La questione delle ‘radici’ è estremamente complessa e multidimensionale. E’ sbagliato supporre semplicemente che tutto ha avuto inizio con l’aumento della controcultura nel 1960 in reazione alla guerra in Vietnam. Le radici intellettuali dell’ideologia della ‘generazione dell’io’, e quello che io chiamo il ‘culto del sé imperiale’ che cerca solo le proprie soddisfazioni psichiche, si possono far risalire a decenni prima. I momenti chiave sono stati la campagna di Margaret Sanger per il controllo delle nascite e l’‘amore libero’ nei primi anni del XX secolo, i falsi ma estremamente influenti studi ‘scientifici’ di Alfred Kinsey sul comportamento sessuale qualche decennio più tardi, gli sforzi di Hugh Hefner per rendere la pornografia socialmente accettabile negli anni Cinquanta, la glamourizzazione del consumo di droga e la cultura della celebrità negli anni Sessanta e Settanta”.

 

Due giornalisti di fama, come Bret Stephens del Wall Street Journal e Damon Linker di The Week, concordano che esiste un legame fra la crescita del politicamente corretto e l’ascesa del populismo di Trump. “La cultura Wasp è in crisi da molto tempo”, dice Bret Stephens al Foglio. “Ci sono milioni di wasp che in America stanno facendo molto bene, ma in realtà non si identificano come cultura. Non hanno club sociali particolari. La cultura bianca medio-bassa in America, il segmento di elettori che sono attratti dalla personalità di Trump e dal messaggio etno-nazionalista della sua candidatura, sono gli americani che non hanno beneficiato della meritocrazia educativa, che si sentono influenzati sfavorevolmente dall’affirmative action e le cui prospettive economiche sono rimaste stabili o sono diventate più fosche negli ultimi otto anni”.

 

Collaboratore del New York Times e autore di saggi sulle guerre culturali in America, anche Damon Linker ritiene che la cultura Wasp non sia più davvero significativa negli Stati Uniti. “Non c’è un protestante tra gli otto giudici della Corte suprema, per fare un esempio”, dice Linker al Foglio. “La cultura di establishment negli Stati Uniti è abbastanza equamente divisa tra protestanti secolarizzati, cattolici ed ebrei. D’altra parte, la sua domanda tocca qualcosa di importante: il modo strano in cui politicamente corretto e sostegno a Trump si alimentano l’un l’altro, in modo simbiotico. A partire dal 1960, la sinistra e la destra hanno preso di mira la costituency liberale che ha gestito il paese dal 1930. Lo sforzo ha accelerato molto negli ultimi quindici anni a causa di una serie di fattori. In primo luogo Internet e i social media hanno diminuito notevolmente la potenza di canali culturali d’establishment.

 

Ora chiunque potrebbe iniziare un blog o postare su Facebook e ottenere un seguito. Questo è stato un grande atto di democratizzazione, in senso buono e cattivo: ha consentito a più voci di essere ascoltate, ma ha anche permesso a un demagogo come Donald Trump di organizzare un seguito andando direttamente alle masse sopra le teste del partito repubblicano. Varie tendenze economiche, tra cui la globalizzazione, hanno contribuito a rendere la vita in vaste aree del ‘cuore’ dell’America abbastanza triste, il lavoro è scomparso e la tossicodipendenza è diventata diffusa. Allo stesso tempo, il liberalismo d’establishment ha messo le ‘guerre culturali’ all’ordine del giorno (aborto, matrimonio gay, diritti transgender). La maggior parte degli americani non si preoccupa più di questi problemi, ma gli elettori di Trump lo vedono come un segno che i liberal si preoccupano soprattutto di questi problemi sessuali, sicuramente molto più di quanto cerchino di aiutare le persone. Pensano che i liberal aiutino i neri, i messicani, e gli omosessuali, ma non gliene possa fregare di meno dei bianchi, costantemente accusati di essere razzisti”.

 

Lee Harris, autore di quel “Civilization and its enemies” salutato anche dai liberal come un’indispensabile visione post-11 settembre, e del successivo “The suicide of reason”, un pamphlet sul crollo del razionalismo, mette in luce un aspetto poco discusso. “Gli americani hanno sempre considerato la politica come qualcosa di indipendente dalla loro vita giorno per giorno”, dice Harris al Foglio. “E una volta che le elezioni si sono concluse, tutti sono tornati alle loro normali vite apolitiche. Oggi, grazie alle incursioni del politicamente corretto, ogni aspetto della vita è diventato politicizzato. Questa ossessione per la politica è, credo, molto pericolosa. A volte mi chiedo se l’occidente non abbia eliminato il fanatismo religioso soltanto per adottare un fanatismo politico che può rivelarsi molto più letale per il nostro ordine civico”.

 

Anche Harvey Mansfield, politologo di Harvard, discepolo di Leo Strauss, studioso di Machiavelli, ritiene che esista un’evidente connessione fra la crisi di legittimità politica e la crisi culturale americana. “Evoluzione della politica ed evoluzione della cultura vanno assieme”, dice al Foglio Mansfield, autore di “Manliness”, un saggio sulla virilità in cui il ritorno all’obsoleta virtù è visto come antidoto alla rassegnazione e all’edonismo nichilista. “Con il termine ‘cultura’ si intende la cultura dominante, comprese le sue opposizioni”, dice Mansfield. “Da qualche tempo la cultura americana è la cultura del liberalismo, una società di diritti piuttosto che della virtù e del dovere, ma divisa in liberal e conservatori. La polarizzazione delle parti può essere spiegata, a mio avviso, come risposta alla situazione politica generale in America, che è davvero la stessa di quella in Europa.

 


Harvey Mansfield


 

E’ il crepuscolo dello stato sociale. Nello stato sociale la gente vota secondo i propri benefici, così che le democrazie occidentali si trasformano in governi in cui il popolo finalmente ottiene ciò che vuole. Ma la gente non vuole pagare per i benefici che richiede. Quindi abbiamo continuo deficit e aumento del debito. Sotto l’Amministrazione Obama, il debito pubblico è quasi raddoppiato, un risultato che non può essere ripetuto. Oltre a non essere in grado di autofinanziarsi, lo stato sociale non è in grado di fornire benefici in modo efficiente, ma soffre di un eccesso di regolamentazione e di una burocrazia in espansione. E nella realizzazione di questi benefici corrompe culturalmente la gente, impartendo loro un atteggiamento di dipendenza piuttosto che di gratitudine e di fiducia in se stessi. C’è un senso di crisi incombente che colpisce entrambe le parti, ma in modo diverso. I liberal cercano di continuare la politica elettorale dello stato sociale, offrendo vantaggi freschi come la campagna di Hillary Clinton sta facendo.

 

Ma non generano alcun entusiasmo e in gran parte cercano di difendere i diritti che già esistono. Molti liberal, quelli del campo di Bernie Sanders, si rendono conto che la loro solita strategia non funzionerà e l’intero edificio dello stato sociale ha bisogno di essere ricostruito, è questa la ‘rivoluzione’ che Sanders ha chiesto. Ma si tratta di un’illusione. Poi ci sono i conservatori, il Partito repubblicano, che dal 1930, quando il New Deal di Roosevelt è stato avviato, hanno detto che la gente avrebbe avuto più benefici di quanti ne avrebbe pagati. Si sono dimostrati corretti, anche se molto più tardi di quanto previsto. Nella campagna 2016 una divisione si è aperta tra i populisti, che sono riusciti a ottenere che Donald Trump fosse candidato a presidente, e i costituzionalisti. Questi ultimi sono l’elemento più responsabile, ma l’austerità che invocano non è popolare in una maggioranza. L’appello di Trump è per l’elemento dello stato che è stato chiamato ‘non protetto’, per coloro che non beneficiano dell’affirmative action, soprattutto i maschi bianchi che non sono stati al college.

 

L’attuale elezione è dunque una notevole farsa. Le due parti non dicono nulla circa la condizione dello stato sociale, né hanno il coraggio di prendere una posizione impopolare a favore dell’austerità. Ognuno dei due candidati è il più debole che il suo partito avrebbe potuto scegliere, Trump è un demagogo privo di autocontrollo e Clinton è una corrotta, bugiarda sfacciata che annoia il pubblico. Questo punto di vista sulla cultura politica è incompleto senza una considerazione sulla politica estera che è in qualche misura indipendente dalla crisi dello stato sociale. C’è un legame tra la politica interna dei liberal e la loro convinzione che il mondo può essere fatto di stati progressisti che vivono insieme in pace. Ma i liberal sono degenerati da un internazionalismo vigoroso a un multiculturalismo vago che accetta tutti i paesi così come sono. Nella versione di Obama questa visione richiede che l’America chieda scusa per imporre i propri valori, una convinzione che si presenta come debolezza. Gli alleati dell’America sono in imbarazzo e i nemici dell’America devono essere placati. Nel frattempo i conservatori populisti rifiutano la politica di George W. Bush di ‘difesa avanzata’. In sintesi, le cose non vanno bene. La cultura americana riflette la politica americana”.

 

Anche Matthew Franck, direttore del Whiterspoon Institute a Princeton e docente di Scienze politiche alla Radford University, spiega al Foglio che “il dominio di una cultura Wasp, comunemente impiegato per circa sessant’anni da sociologi e critici culturali negli Stati Uniti, per descrivere le caratteristiche di una classe d’élite nel mondo della politica, delle imprese, dell’accademia e dei media sembra essere morto e finito come i dinosauri. Il loro bastione accademico, le università della Ivy League, è diventato altamente diversificato per l’effetto combinato della meritocrazia e l’affermative action, le preferenze per le minoranze razziali ed etniche. Allo stesso tempo, le élite professionali sono diventate più diversificate: donne, ebrei, cattolici, asiatici, ispanici, afro-americani, e i loro atteggiamenti culturali sono diventati più omogenei che mai.

 

Di riflesso, opinioni liberal o progressiste sono la norma: il sospetto per punti di vista religiosi; una inclinazione contro il patriottismo e in favore di un internazionalismo che non comporta il coinvolgimento militare; un politicamente corretto applicato al liberalismo come stile di vita in materia di matrimonio, sessualità e famiglia; l’autorità indiscussa della scienza, ma con poca autentica consapevolezza di quello che insegna, per non parlare dei suoi limiti; pregiudizi a favore di un intervento del governo per ‘risolvere’ ogni ‘problema’ piuttosto che basarsi su iniziative del settore privato e le forze di mercato. Sono gli atteggiamenti politici del presidente Obama.

 

Per molti versi, egli è l’incarnazione perfetta di una élite che ha spazzato via la vecchia mentalità Wasp, che incarnava certe virtù di laboriosità, parsimonia, patriottismo, e una certa convinzione circa la missione dell’America nel mondo, ma anche ha perpetuato l’antisemitismo, i pregiudizi etnici, l’anti-cattolicesimo, e una visione abbastanza ristretta della vita sociale. Peggio di tutto, credo, il loro protestantesimo era molto annacquato, e vulnerabile al richiamo del ‘vangelo sociale’, che in realtà era il nemico di un autentico impegno sociale cristiano. Soprattutto, questo elemento ‘mainline’ nella religione americana era vulnerabile alla rivoluzione sessuale che ha avuto inizio negli anni Sessanta. Il protestantesimo americano mainline ha accettato, e poi entusiasticamente abbracciato, la ‘libertà’ sessuale di ogni genere, fino ad includere l’avvento del matrimonio omosessuale al giorno d’oggi.

 

Il fatto che le chiese principali si stiano riducendo è un segno di come la perdita di vecchie credenze abbia scavato il vecchio mondo Wasp. Simili cambiamenti si sono verificati anche all’interno del cattolicesimo americano, che si è diviso in un’ala socialmente progressista che è potente ma si contrae nel numero, e un’ala conservatrice culturale che sta crescendo in numero e influenza, e che si è ispirata ai recenti pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che hanno rafforzato la testimonianza della chiesa cattolica agli insegnamenti tradizionali della fede. Il populismo isolazionista cui la politica americana ha assistito quest’anno è sorto in parte a causa della correttezza politica delle élite americane, e in parte perché gli americani che non sono membri di tale élite sono diventati impazienti per la ripresa economica lenta dalla ‘grande recessione’ di otto anni fa.

 

Le politiche progressiste per l’assistenza sanitaria e la regolamentazione del settore finanziario e dell’energia hanno contribuito al rallentamento della crescita economica. L’entusiasmo per gli isolazionisti populisti, sia di destra sia di sinistra, sia Bernie Sanders sia Donald Trump, è stato un segno del fallimento del conservatorismo nel presentare una valida alternativa al progressismo e al fallimento del progressismo nel governare in modo efficace. Sanders ha preso la strada al socialismo, mentre Trump promette di ‘fare grande l’America ancora una volta’ con la chiusura delle frontiere e dei mercati”.

 

Raffinata studiosa conservatrice, cofondatrice assieme a Donald Rumsfeld del Committee for the free world durante la Guerra fredda, Midge Decter farebbe come Mao tse Tung: chiuderebbe le università per salvare l’America. “Ciò di cui si sta parlando è una condizione culturale che ha cominciato a emergere mezzo secolo fa e che ha maturato fino al punto in cui è una crisi spirituale e intellettuale tale che solo una grave crisi ci potrebbe scioccare e far tornare a essere un serio giocatore del mondo”, dice Midge Decter al Foglio. “Siamo di fronte a un’elezione presidenziale che sarà una gara tra un uomo che non sa nulla del mondo, tranne come acquisire proprietà, e una donna la cui carriera è dipesa quasi interamente dall’inganno di un tipo o dell’altro. Questo non è un caso. Ciò che ci salva, e può continuare a salvarci, è che abbiamo un governo la cui struttura di base è stata creata durante un momento di genio culturale e politico del XVIII secolo e che, finora, è riuscito a portare il peso del marciume che deboli mentalità ingrate nutrono da tempo, soprattutto nel corso degli ultimi cinquant’anni. Continuerà a farlo? Devo crederlo. Sarebbe naturalmente di aiuto se potessimo incendiare le università, e pure le scuole secondarie”.

 

Ruth Wisse insegna Letteratura comparata a Harvard ed è la massima studiosa al mondo di yiddish, la lingua perduta del popolo ebraico. “La ‘chiusura della mente americana’ di Allan Bloom non è meno d’attualità oggi rispetto a quando è apparso nel 1987 per descrivere ‘come l’istruzione superiore ha impoverito le anime degli studenti’”, dice Wisse al Foglio. “Nessuno ha fatto un lavoro migliore di lui per spiegare come e perché è successo. La democrazia costituzionale e liberale non è biologicamente trasmessa: a meno che la famiglia, la scuola, il governo e le istituzioni pubbliche non facciano il duro lavoro di trasmettere insegnamenti e valori a ogni nuova generazione, con dedizione e intelligenza immaginativa, il grande esperimento si indebolisce e non riesce. Un paio di decenni fa ho iniziato a usare il termine ‘Gliberalism’ per descrivere un liberalismo eviscerato che aveva sostituito le buone intenzioni con le buone azioni.

 

L’istruzione superiore ha istituito azioni positive senza ammettere che la sostituzione della ‘diversità’ al posto dell’eccellenza come criterio di formazione promuove una cultura del vittimismo. Le donne, invece di accogliere le libertà e le opportunità che erano state concesse, hanno gridato allo ‘stupro’ quando si sono rese conto di aver perso il diritto alla protezione maschile. L’ideologia antimilitarista promossa dalla disinformazione ha alimentato il loro crollo della fiducia morale. Molti americani che erano ancora determinati a sostenere l’America si sono fatti più disperati quando hanno visto il loro paese minato dall’interno. Probabilmente ci sono persone migliori nel governo oggi più che mai – almeno sul lato conservatore della politica e della cultura – e alcuni di loro possono ancora governare il paese. Poiché conosco nel settore privato un gran numero di brave persone non accetto l’idea di decadenza americana. Continuo a credere che gli americani riconquisteranno la loro fiducia nazionale”.

 

Ne è meno certo l’intellettuale ebreo David Goldman, che firma le sue column con il nom de plume di “Spengler”. “Il Vangelo sociale – il Dio di Woodrow Wilson, John Foster Dulles e Jimmy Carter – è stato il pilastro del cosiddetto ‘consenso protestante’ che ha dominato la cultura americana fino al 1960”, ci dice Goldman. “Nel 2015 si dichiara senza religione un quarto degli americani, una percentuale senza precedenti. Il tasso di fertilità del paese è fortemente diminuito, dal 2,1 nel corso degli anni 2000 a meno di 1,8 nel 2015. Tutto questo ha causato la mancanza di una élite riconosciuta negli Stati Uniti. La vecchia élite Wasp è stata screditata dal Vietnam. I neo conservatori sono stati screditati da Iraq e Afghanistan. L’élite liberal di Barack Obama e Hillary Clinton non ha offerto nessuna nuova idea nel corso degli ultimi otto anni di governo del Partito democratico. L’unica grande politica che Obama è riuscito a emanare, l’Affordable Care Act, si sta disintegrando”.

 

Erudito e studioso di Francia, scelto dall’Amministrazione Bush per il Council of the National Endowment of the Humanities, Charles Kors nel 1993 insegnava Storia alla University of Pennsylvania, quando difese un ragazzo accusato di aver offeso delle studentesse di colore (accuse poi rivelatesi false). Sulla caccia alle streghe nell’accademia Kors avrebbe poi scritto un libro fondamentale, “The Shadow University: The Betrayal Of Liberty On America’s Campuses”. “I Wasp erano il gruppo dallo status più elevato negli Stati Uniti, ma oggi  americani di origine giapponese, indù americani, americani di seconda generazione cinese, ebrei americani sono ben al di sopra degli episcopaliani anglicani nella bilancia socio-economica che misura la vita americana”, dice Kors al Foglio.

 


Charles Kors


 

“Ciononostante, la correttezza politica identifica ancora il Wasp come una forza malefica. La cultura di sinistra concentra questi gruppi tutti assieme – atei francesi, cattolici italiani, serbi ortodossi, newyorkesi, armeni – in una categoria ridicola, ‘bianchi’, e la correttezza politica e il degrado del programma di studi sono stati condotti per trasformare i bianchi in una forza del male e fare di tutti gli altri le loro vittime. L’appello di Trump, penso, è alimentato dalla combinazione delle frontiere aperte con la cosiddetta multiculturalità. Se l’America può integrare gli immigrati, essa si reinventa e la sua cultura resta creativa.

 

Se non è in grado di integrare gli immigrati, e il cosiddetto multiculturalismo, che domina la formazione americana dalla scuola materna ai campus universitari, mira proprio a evitare questa integrazione, cessa di essere una cultura americana a tutti, ed è solo un’area geografica. Una volta che l’economia marxista ha dimostrato di essere assurda, assassina e povera, la sinistra accademica e culturale in America ha dovuto trovare un sostituto per il mito degli oppressi. Così ha rifiutato la cultura americana esistente ritenendola opprimente. La radice più profonda, naturalmente, è che l’intero occidente ha cessato di credere nella propria cultura e nei propri valori. Due guerre mondiali hanno lasciato l’occidente senza fede in se stesso. Il rifiuto di sinistra dell’eccezionalismo americano domina i media e l’educazione. E’ tutto profondamente triste, e il mondo soffre di questa mancanza di fede e di volontà dell’occidente”.

 

Di infantilizzazione della cultura americana parla David Solway, poeta canadese, critico letterario, già docente al John Abbott College.  “La ‘decadenza’ americana è iniziata molto tempo fa”, spiega Solway al Foglio. “Si pensi alla teoria delle origini sfuggenti di Derrida. Certamente c’è la sinistra ‘progressista’ di John Dewey e il programma di educazione ‘incentrato sul bambino’, che ha messo radici nel 1920. Poi arriva il Free Speech Movement a Berkeley (ero lì), il movimento delle Pantere Nere e il Weather Underground, il dumbing psichedelico verso la popolazione giovanile, la presa del potere nelle università di studenti radicali, e le incursioni insidiose della Scuola di Francoforte, in particolare di Herbert Marcuse, che, in sostanza, ha reso popolare le teorie di Gramsci e Lukacs”.

 


Una manifestazione del Free Speech Movement a Berkeley, il campus dell’Università di California, nel 1965


 

Marcuse, il filosofo tedesco approdato su lidi californiani con il suo verbo anticapitalista, antitecnologico, antimodernista e edonista. “Dopo di che, il dado era tratto, e l’America era sulla strada per diventare un fallimento europeo”, continua Solway. “Oggi c’è la chiusura del dibattito, una generazione di studenti ‘fiocchi di neve’ preoccupati di frivolezze come ‘trigger warnings’, ‘microaggressions’, bagni transgender e ‘spazi sicuri’, l’infantilizzazione piagnucolosa dell’intera accademia, che hanno preparato il terreno esaltando lo studente sopra l’insegnante, il bambino sopra l’uomo (o la donna), con la crescente importanza del movimento di ‘autostima’. Si ricordi anche l’influenza distruttiva delle teorie dell’educazione di Paulo Freire, secondo le quali gli insegnanti non hanno nulla da insegnare in realtà ai loro studenti; il loro compito è quello di liberarli dai motori di oppressione: una versione più incendiaria della contestazione di Dewey.

 


Herbert Marcuse a Berkeley. il filosofo tedesco approdò sui lidi californiani con il suo verbo anticapitalista, antiautoritario ed edonista


 

Freire ha visto gli insegnanti tradizionali come colonizzatori, gli studenti come colonizzati. Si tratta di un paradigma manicheo che fa presa sulla mente occidentale e sul suo senso di colpa. Ha causato il declino generale nell’acutezza mentale. I bambini selvaggi sono stati avvelenati dagli insegnamenti contro-intuitivi delle teorie sentimentali e riduttive ispirate da Dewey e dalle brigate revisioniste. Di conseguenza, il declino culturale e di civiltà è praticamente assicurato. L’adagio comune che i detenuti hanno preso il controllo del manicomio è sbagliato. Piuttosto, i bambini hanno preso il sopravvento nell’asilo nido”.

 

Chiudiamo questa inchiesta con Mary Ann Glendon, docente di Legge a Harvard, ex ambasciatrice degli Stati Uniti in Vaticano, già presidente dell’Accademia pontificia delle scienze sociali, che nel 2009 fece non poco scandalo quando rifiutò un riconoscimento della University of Notre Dame, nell’Indiana, a causa dell’invito che l’ateneo aveva rivolto a Obama nonostante la sua politica abortista. “Gli Stati Uniti una volta si vantavano di aver realizzato ciò che la teoria politica classica pensava fosse impossibile: il mantenimento di una repubblica democratica in un vasto territorio con una popolazione eterogenea”, dice Glendon al Foglio. “Per un certo numero di anni, abbiamo fatto grandi progressi verso l’essere il modello di una società in cui le persone di diversa ascendenza e religione potevano vivere fianco a fianco in relativa armonia.

 


Mary Ann Glendon


 

C’erano due chiavi straordinarie, anche se ben lungi dall’essere perfette. La prima, come insegna Tocqueville, era un insieme ampiamente condiviso di abitudini e atteggiamenti; la seconda era l’impegno ampiamente condiviso per l’unica cosa che tutti gli americani potrebbero dire di avere in comune, vale a dire i principi della nostra Costituzione e dello stato di diritto. Con il senno di poi, la rivoluzione culturale degli anni Sessanta ha avviato un periodo durante il quale è diventato più difficile dire che cosa possa tenere insieme il paese come nazione. Il periodo è iniziato con grandi progressi in materia di diritti civili per la popolazione afro-americana. Ma la contemporanea rivoluzione nei costumi sessuali ha generato il caos dello stato di diritto, della famiglia fondata sul matrimonio e delle istituzioni che la sostenevano. Ironia della sorte, lo stesso periodo che alcuni di noi hanno visto come rafforzamento della solidarietà americana si è rivelato un momento in cui l’auto-espressione dell’individuo stava diventando un valore.

 

Oggi possiamo vedere gli effetti di questa trasformazione in quasi ogni aspetto della vita, compresa la comparsa di una nuova moralità pubblica che mette a testa in giù l’eredità morale giudaico-cristiana e che non tollera dissenso dai suoi rigidi dogmi. I due pilastri di questo esperimento – costumi democratici e stato di diritto – sono sempre più instabili, e ci si domanda se gli antichi non avessero ragione, dopo tutto. Gli Stati Uniti hanno da tempo iniziato a sviluppare una cultura che trascende il ‘white anglosaxon protestant’, ma ha mantenuto le radici nella grande eredità della civiltà occidentale radicata nella filosofia classica, nella religione biblica, e nel diritto romano. Se l’Europa, il luogo di nascita e custode primario di tale eredità, non ha più la volontà di preservare e costruire su questa base, sarà una tragedia per gli Stati Uniti”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.