Pierre-François Lacenaire con il complice François Avril al bistrot, in un disegno dell’epoca. In libreria le “Memorie di un poeta assassino” curate da Alberto Beretta Anguissola per Castelvecchi

Un poeta assassino

Giuseppe Marcenaro
Chi era Pierre-François Lacenaire, l’uomo in guerra con la società che affiora nelle pagine di Stendhal e Hugo. Un libro di memorie. Arrestato nel 1835. Insieme a uno scagnozzo aveva ucciso tal Chardon, noto omosessuale e pregiudicato, e la madre.

Vantando curiosità morbosa, quale oggetto d’affezione Maxime du Camp aveva aggiunto una mano imbalsamata alla sua collezione di eccentricità. La mano spiccata, dopo l’esecuzione, dal corpo di un decapitato. Con chirurgica poeticità du Camp offriva in ostensione la main-object di Pierre-François Lacenaire. “E’ ancora sporca”, diceva. “Vi si avvertono tutti i vizi e gli atti malvagi”, indicava. “Non reca traccia di un santo callo da lavoro onorato. E’ la mano di chi fu un autentico assassino e un falso poeta”. Il cappotto che Lacenaire indossava il 9 gennaio 1836, quando salì sul palco della ghigliottina, se lo disputarono altri due collezionisti.

 

Pierre-François Lacenaire era stato arrestato il 2 febbraio 1835, accusato di omicidio. In attesa del processo, tale a una gran vedette, trasformata la sua cella alla Conciergerie in salotto, riceveva giornalisti. Gli scrittori lo andavano a trovare. Un frenologo aveva studiato la sua testa e tratto un calco del volto. Parlava di letteratura con i suoi custodi che, ignari, lo guardavano attoniti. Leggeva i classici. Scriveva versi. Compilava la propria autobiografia. Riceveva lettere. Tutti volevano capire la ragione che lo avesse portato, assieme allo scagnozzo Victor Avril, in apparenza senza ragione, ad assassinare in maniera efferata due inermi: tal Chardon, conosciuto come gran travestie, e la madre, Anne Marie Yvon veuve Chardon.

 

Il delitto era stato consumato in un appartamento del passage du Cheval-Rouge, all’angolo della rue Saint-Martin. Quando le vittime vennero rinvenute “il cadavere di Chardon era nell’ingresso, in mezzo a una pozza di sangue coagulato. Quello della madre giaceva nella stanza vicina, letteralmente sepolto da un mucchio di coperte…”. Durante l’interrogatorio l’assassino avrebbe raccontato: “Entrai da solo nella camera della madre: era sul letto; la colpii al volto, sugli occhi, sul naso…”. Per diciassette volte Lacenaire infierì con un punteruolo. Dall’appartamento i due ramazzarono una modesta refurtiva: pochi franchi, un servizio di posate d’argento, un mantello e una piccola scultura in avorio. Poi andarono a rilassarsi al bagno turco. Si rifocillarono al ristorante. Finirono la serata al Théâtre des Variétés.

 



 

I giornali relazionavano: “Il giovane era stato colpito da dietro con tre colpi di punteruolo. Doveva esser morto al primo colpo. La ricognizione effettuata, la nudità del cadavere e la sua posizione sul letto hanno rivelato che l’assassino aveva commesso il delitto dopo essersi abbandonato con la vittima alla più infame lussuria”. Allora doveva trattarsi di un delitto a sfondo sessuale. L’estensore della Gazette des tribunaux – tanto per dire en passant, una delle letture preferite di Balzac e di Stendhal – aveva alluso con quell’“infamante lussuria” alla storia diffusasi per le conciergeries e tra gli apaches. Come sempre. Qualcosa chiarisce Alberto Beretta Angiussola nella tentacolare prefazione alla recente traduzione in italiano dei Mémoires di Lacenaire, Memorie di un poeta assassino (Castelvecchi, 296 pp., 19,50 euro). “Il giovane trentacinquenne, su cui la violenza dei criminali si era scatenata a tal punto da staccargli quasi la testa dal corpo, era un noto omosessuale e un pregiudicato, che aveva già trascorso due anni in prigione, dove lo avevano soprannominato ‘tante Madeleine’…”: “Homme qui a des goûts de femmes, la femme des prisons d’hommes… Individu du troisième sexe… On dit aussi tapette”.

 

“Il delitto – ancora suppone Anguissola – poteva quindi esser visto anche come un rito feroce o una vendetta compiuta secondo le misteriose leggi di Sodoma”. La polizia arrestò una ventina di omosessuali sospetti. Furono tutti rilasciati. Si temeva che lo scandalo creasse inquietudine in un’opinione pubblica già scossa in quei giorni dall’attentato contro Luigi Filippo. Le “imprese” di Lacenaire però non c’entravano con l’azione “politica” di Giuseppe Fieschi che, con un suo giro di cospiratori, aveva tentato di far fuori il nuovo re. Alcuni inquirenti parigini, come sempre avviene, conosciute da tempo le aspirazioni libertarie e antisociali di Lacenaire, furono tentati di far collimare i due fatti, assolutamente inconciliabili, capaci tuttavia di creare malessere. La comune matrice antisociale, sembrava provenire dagli inquieti ambienti dei faubourg. Le personalità degli “attentatori”, di siderale distanza, parevano tuttavia mirare a un medesimo “ideale”: lo scombussolamento dell’ordine. Lacenaire era un autentico teorico del furto, un ladro che teorizzava le proprie imprese come riscatto sociale. Fieschi, a modo suo un “politico”.

 

Uno strano nostalgico del regime napoleonico. Le autorità della restaurazione non volevano che si diffondesse un clima di paura per la fragilita della nuova dinastia. E che l’ansia per il prevalere dei sintomi di degenerazione morale minasse l’ottimismo, obbligatorio in quella che doveva sembrare la migliore delle monarchie possibili. Durante l’interrogatorio Lacenaire negò, per sua parte, ogni implicazione sessuale nell’“impresa” del passage du Cheval-Rouge. Confessò orgogliosamente il delitto e tutta la sequela di crimini compiuti fin a quel punto, soprattutto furti. Frociaggine mai. Venne accertato che tra Chardon e Avril vi fosse stata, quand’erano entrambi nel carcere di Poissy, una relazione “particolare”. Da quella pratica Lacenaire fu “scagionato” dal capo della polizia, Louis Canler: “Qualcuno ha voluto descriverlo come un frocio, ma appena uscì dal carcere di Poissy si affrettò a prendersi come amante una bella donna. Spesso alla Conciergerie, nelle nostre lunghe conversazioni, io affrontai questo argomento, e sempre lui mi disse che il bisogno di avere rapporti omosessuali si era sviluppato in lui nella prigione per mancanza di meglio, ma il giorno stesso in cui era ridiventato libero, le sue inclinazioni naturali avevano ripreso il sopravvento”.

 

Ma chi era poi questo sventurato Lacenaire di cui si sarebbe trovata traccia, tale a una avventizia seminagione, in mezza letteratura del suo tempo e oltre? Modello superbo dalle tante reincarnazioni. Stendhal adora Lacenaire, un uomo in guerra con la società. E allora eccolo, pronto, con l’deal profilo del perverso Valbayre apparire in Lamiel. Beyle è affascinato dalla malavita e dalla violenza “primitiva”. Théophile Gautier intitola una sua poesia Lacenaire. Nei Miserabili di Victor Hugo lo scalmanato Lacenaire affiora più volte. A lui, presentato come “un altro incompreso”, è dedicata una quartina negli Amours jaunes di Tristan Corbière. E alla strana “gloria” di Lacenaire echeggiò gente come Balzac. In Dostoevskij la sinistra psicologia dell’assassino è la genesi di Delitto e castigo, dove il crimine di Raskolnikov è un calco dell’“impresa” di Lacenaire… E poi ancora spunta nei Chants de Maldoror di Lautréamont. Mentre la sua ombra arriva fin all’Anthologie de l’humor noir di André Breton. L’immortalità del “mostro” di Parigi.

 



 

Pierre-François Lacenaire era nato a Francheville, nei pressi di Lione, nel 1800. Raccontò la propria vita in un allucinato memoriale scritto mentre era in carcere e si stava svolgendo un travagliato processo dove lui interpretava la parte di un ostinato e beffardo mattatore. Reo confesso, giustificava i propri delitti, compiuti come una necessità esistenziale. Li raccontò, come fossero una strana e sinistra epopea familiare, appunto in Mémoires, révélations et poésies de Lacenaire, écrits par lui-même à la Conciergerie, che, pubblicate nel 1836, suscitarono una morbosa curiosità. Diffuso l’interesse di capire perchè avesse ammazzato sconosciuti senza alcune ragione. Quale la genesi dei suoi crimini? “Ho ucciso come bere un bicchiere di vino”, una delle sue sentenze riportata in un articolo del giornalista Jacques Arago che aveva dedicato giornate e indagini per scoprire i moventi di Lacenaire. Che non c’erano. Semmai uno solo. L’indisponibilità violenta contro la società.

 

Dal groviglione autobiografico emergono sventagliate di recriminazioni. L’incomprensione del padre nei suoi confronti. Il disamore della madre. Il fastidio dei fratelli. Studi contrassegnati da un andamento intermittente. Tuttavia brillante, soi-disant. Prima è al seminario minore di Alix. Poi è convittore nell’Università di Lione ove ha per compagni Jules Janin, Edgar Quinet, Armand Trousseau, destinati tutti a onorevoli notorietà. Escluso dagli studi per aver fomentato una non ben precisata sommossa antisociale, con un sonoro risentimento va a fare l’apprendista presso un produttore di seta. Riprende gli studi presso il collegio di Chambery. Agitato giustizialista, accusa un prete di pedofilia. Ignoto se fosse lui stesso a subire le attenzioni del religioso. Poi trova lavoro in uno studio legale. Si impiega presso un notaio. Fa anche il banchiere. Da dimostrare. Sostiene nei suoi Mémoires d’essere elogiato nell’impiego per la sua dedizione e anche angariato per una serie di equivoci. Poi decide per sé.

 

A ventiquattro anni parte per Parigi e va a vivere presso una zia in rue Bar- du-Bec. “Mi ero licenziato dal lavoro di banchiere. Inviavo articoli a diversi giornali, ma senza ricavarne alcun guadagno. E’ in quest’epoca che misi in scena un vaudeville, che non era interamente una mia opera ma per il quale avevo fatto i ritornelli… Lo portai da un autore allora in voga (è chiaro che non intendo riferirmi a Scribe, sebbene alcuni abbiano fatto intendere di crederlo)… Successivamente feci il venditore ambulante di liquori…”. Poi racconta di essersi messo a giocare. “Mia zia mi prestò cento scudi. Nel giro di un’ora avevo perso tutto al trente-et-quarante”. Ritorna a Lione, spilla denari a un fratello. “Mi recai a Ginevra e da lì in Italia. Era quello il paese dove avrei commesso il mio primo assassino”. Finalmente. A questo punto il lettore dei Mémoires tira un sospiro di sollievo. Travolto dalle zuppe raccontate da Lacenaire fino a quel punto: resoconti di letture e giudizi letterari su questo e su quello, rancori contro la famiglia e contro le persone che in modi difformi l’abbiano fatto sentire una merda, lui coltissimo, angherie subite in questo e in quell’altro istituto, e dopo che l’autore ha tentato di portarlo dalla sua parte trasformandosi in una vittima dell’umana perfidia, il lettore trova finalmente un assassinio. Lacenaire comincia a togliersi la voglia di far fuori gente.

 

La molla compressa per anni è scattata. Racconta una incredibile vicenda con uno svizzero. Non è un adescamento a fini erotici, come si spererebbe. Niente di lubrico. Tutto d’una specchiata urbanità. Senza ragione Lacenaire tira una pistolettata all’avventizia conoscenza. E poi se ne va. Ritorna in Francia. Si ingaglioffa. Misteriosamente si arruola nell’esercito e inevitabilmente finisce in carcere, dice per insubordinazione e per una grafia contraffatta. Rancoroso, racconta: “Il sergente maggiore venne a sbeffegiarmi nella cella di rigore… Io calmissimo avessi avuto la mia sciabola non avrei esitato a passarlo freddamente a fil di lama. Per molto tempo ho cercato di vendicarmi di lui; ma non ho mai potuto cogliere l’occasione di farlo impunemente… Vendicarsi rovinando se stessi è cosa da stupidi”. Inviava articoli ai giornali che venivano pubblicati quando “non avevo preteso alcuna forma di compenso… quando si trattò di pubblicarli a pagamento non fu la stessa cosa.

 

Puntualmente si realizzava tutto ciò che avevo previsto… Quando sarai un perfetto nullatenente, la società ti respingerà e ti escluderà da tutti i fronti… Da quel momento in poi divenni un ladro e un assassino intenzionale”. Una dichiarazione di guerra contro il mondo. Con il tono di un Dulcamara arringa: “Ora tutti quelli che hanno intenzione di conoscermi mi ascoltino con attenzione… A questo punto ha inizio il mio duello con la società… Scelsi deliberatamente di divenire il flagello della società… ma mi servivano soci”. E confessa d’aver avuto idee nel proposito dopo aver letto le Memorie di Vidocq, un’altra buona lana di truffatore, ladro e falsario. Insomma il malemmo da cui Lacenaire si sentiva ispirato, a parte la brutalità dei crimini commessi.
E comincia a darci dentro con furti e truffe. A suscitare baruffe per arrivare alle mani, al duello, a far sgusciare il coltello. Alfine arrestato, dal carcere si vanta dei suoi delitti. Dalla cella inveisce, con voli letterari, contro la redenzione che il carcere medesimo dovrebbe conferire.

 

Ma quale redenzione. Maledice l’apatica rassegnazione di quanti, assassini e ladroni, stanno come lui dietro le sbarre. “Cosa trovai tra quei miserabili? Volevo un uomo che si fidasse ciecamente di me e delle mie capacità e che si accontentasse di essere un docile strumento fra le mie mani, che fosse il mio braccio”. E lo trovò. Quel tal François Avril, un pitecantropo dalla fronte a grondaia, che seguiva Lacenaire come un’ombra. A conti fatti doveva essere ben consaspevole di come venivano definiti gli scenari dei delitti senza movente: “Hanno il segno del cervello di Lacenaire e il braccio di Avril”. Il 9 gennaio 1836 incontrarono insieme la lama della ghigliottina.

Di più su questi argomenti: