Non ti tradisco più
Quando la sua millecinquecentunesima donna gli chiede quante ce ne siano state, prima di lei, Don Juan De Marco (Johnny Depp, tonico, giovane e indie: era il 1995) vorrebbe mentire ma non ci riesce. “La verità è un’abitudine spaventosa”, pensa. “Millecinquecento”, risponde. E lei, con una paresi facciale in atto e un bikini verdognolo e cheap che la fa terribilmente anonima, va via. I dongiovanni autentici non hanno mai mentito alle donne. L’hanno fatto i mariti, i fidanzati, gli amici, gli affini elettivi, i presidenti. Sull’altra riva del gender gap, le mogli, le fidanzate, le amiche elettive, le first lady fingevano di non accorgersene. O viceversa, anche se piuttosto raramente e con epiloghi spiacevoli: ostracismo, morte violenta, soprusi, ricatti e umiliazioni vita natural durante. Contiamo, nella fiction e non, più Anna Karenina ed Hester Prynne (l’adultera de “La lettera scarlatta”) che Monna Filippa, gaudente protagonista della settima novella del Decameron la quale, trascinata al cospetto del podestà dal marito che l’aveva sorpresa tra le braccia di un amante, si difese con un’arringa così convincente che non solo scampò la pena di morte, ma convinse anche a prevederla esclusivamente per le mogli fedifraghe per denaro. Ancora più rare le ripristinatrici del proprio onore, come Mariannina Terranova (“Divorzio all’italiana”, Sicilia,1961) che, da moglie devota, quando il marito le disse “se un giorno ti tradissi, sparami con questa”, lo prese in parola facendolo fuori mentre lui giocava al farfallone amoroso su uno scoglio con un’altra signorina.
O come Maria Barbella, emigrata ferrandinese (Lucania profonda) negli Stati Uniti a metà Ottocento, che quando il suo amato Domenico, dopo averle promesso per mesi di abbandonare moglie e figli per lei, la schernì in pubblico dicendo che solo un maiale avrebbe potuto sposarla, tirò fuori un rasoio dallo scialle e lo sgozzò. Rapidissima. Condannata immediatamente alla sedia elettrica, prima donna nella storia statunitense, perché “in Italia una ragazza che uccide chi l’ha ingannata non viene punita, ma qui siamo in America” (così scrisse il Brooklyn Daily Eagle), fu poi scagionata grazie a una ricca e potente american woman coniugata a un friulano, che nella faccenda mise il becco suo e dell’opinione pubblica progressista affamata di occasioni per mondare l’America dal razzismo. Fatiche e perigli ai quali, in quella placida minoranza che nel Novecento chiamavamo “borghesia”, le signore preferivano la misericordia: il tradimento, confessato o intuìto che fosse, era solo una delle numerose bassezze maschili cui toccava rassegnarsi per preservare il focolare, l’ordine, la mascolinità, la femminilità, il perdono e le proprie viscere (ribellarsi non avrebbe prodotto particolari effetti, se non fugacissimi pentimenti, pronti a dissolversi al primo sventolio di lenzuola extra-moenia). Il gender gap era un burrone assai profondo: ci si poteva lanciare dentro, nuotare nell’aria strappando qualche secondo in più, ma lo schianto sarebbe stato certo. E allora, moltissime restavano a subire, a guardare, sedute in riva al fosso, fino a capire – o a convincersi – che “quando si ama qualcuno è più affascinante possederlo coi gesti della vita che con quelli del sesso”: così rispose, qualche anno fa, Franca Valeri a Leonetta Bentivoglio, curiosa di sapere come avesse potuto sopportare i tanti tradimenti di suo marito Vittorio, spesso reo-confesso.
Fiera, la liberissima Franca che si fece signora per scelta e non per dettame patriarcale, di essere stata la sola a lavargli la schiena e i capelli prima che lui andasse in scena (era direttore d’orchestra), manutenzione dell’affetto, questa, su cui aveva l’esclusiva e che a Vittorio, ai nonni, ai padri, ai maschi della borghesia che accordava loro vite parallele, mai e poi mai sarebbe saltato in mente di affidare all’amante. L’altra, deputata all’amor profano che con quello sacro è un’unica mescita nel dipinto di Tiziano, ma non nelle unioni borghesi, era “una donna desiderabile, impegnativa, che gli uomini prendevano a nolo per un periodo della loro vita così come farebbero con un’auto di lusso. O un’altra cosa, una cosa preziosa, di cui godere e poi disfarsi”. Così Enzo trova trasformata Ida, anni dopo la fine del loro amore adolescenziale, finito per la troppa purezza, nel racconto “Uno più una. Breve storia di un matrimonio cristiano” che Antonio De Benedetti, nel suo “In due” ambienta nel secondo dopoguerra. Enzo proverà a salvare Ida da quella parte usa e getta, da non protagonista, illudendosi ma non troppo che sposarla significherà compattare il sacro e il profano, mentre invece si rivelerà solo compassione e “pietà per la vita, non solo della propria”. Il fallimento inevitabile di un tentativo di rendere singolo qualcosa che, invece, è stato dicotomia fintanto che le donne non hanno cominciato a confessare ai propri mariti che di quell’inganno necessario a entrambe le parti in cui sta il fascino del matrimonio (come sussurra Sandor Szavost a Nicole Kidman in “Eyes Wide Shut”), è arrivato il momento, per loro, di essere parte attiva. Ciascuna può finalmente aspettarsi, perfino pretendere, di appagare ragione e sentimento. L’appetito sessuale femminile smette di essere un segreto e diventa una libertà da rivendicare: anche le ragazze possono volere solo divertirsi, godere, sostituire – moltiplicandoli – gli amanti, mandare tutto all’aria, scappare coi marinai, gli sconosciuti, i dongiovanni.
Franca Valeri (foto LaPresse)
Le donne sedute in riva al fosso si alzano e la valvola della misericordia salta, le si dà finalmente il nome di ipocrisia. “Mi parlava delle altre donne, spesso in modo grottesco. Penso mi avesse collocata in una zona speciale: quella della non esistenza e me lo aveva ripetuto più volte. E nella mia esistenza mi sono pigramente adagiata”, ha raccontato pochi mesi fa, in occasione dell’uscita del suo carteggio amoroso con Giorgio Manganelli, Viola Papetti (“Lettere senza risposta”, Nottetempo). Manganelli era figlio degli stessi anni di Franca Valeri quando, lo racconta lei stessa, “tra mogli e amanti si sviluppavano delle solidarietà tra mogli e amanti”, tra visibili e invisibili, alleate nel resistere e sopportare la resa a un’evidenza: “L’uomo è traditore per natura”. Gli ultimi anni di tolleranza verso quella mascolinità geneticamente cialtrona, predona, indisturbata dai sensi di colpa, dalle interrogazioni morali, dall’esigenza di parlarne con l’analista. Quando Viola incontra Giorgio sono i favolosi anni Sessanta, lei sopporta grazie all’eredità delle mogli e amanti borghesi, ma pure perché può preferire i libri all’amore, si principia ad annusare il riscatto, la liberazione femminile, il personale sta diventando politico, i segreti delle donne diventano oggetto di dibattiti d’autocoscienza ed è in quel momento che si sovrappongono l’ingresso del tradimento nella cassetta degli attrezzi per le pari opportunità e il riconoscimento della sua inammissibile immoralità. In un colpo, tradire diventa universalmente legittimo ma assolutamente deprecabile: perdonarlo, significa reiterare una sottomissione (di Hillary Clinton, oggi, le femministe non digeriscono il suo aver condonato a Bill la scappatella con Monica).
Che nel corredo genetico maschile esista il gene del tradimento non intenerisce più le donne, ma gli uomini, fino a un’autocommiserazione amara e – solo di sguincio – divertita. “Se Beatrice saprà chi sono, potrà accettarmi oppure giudicarmi con disprezzo come maschio. Ma le basterà questo, penso, per respingere ogni forma di comprensione: è un maschio. In quel modo, le sembrerò più un maschio che un padre. O un padre, ma anche un maschio”, pensa il protagonista de “La separazione del maschio” (Einaudi, 2008) di Francesco Piccolo, mentre riflette sull’opportunità di confessare alla figlia le sue infedeltà che lui chiama “delitti” e di cui così rintraccia l’eziologia: “Sono un maschio, nient’altro che un maschio” ed è questo il punto su cui prevede di poter convergere con Beatrice, lui arreso e lei, invece, scatenata nel negargli qualsiasi assoluzione, probabilmente disponibile a concedergli un’attenuante perché è sua figlia.
Si dissolve l’assioma ribadito, anche se a voce bassa e impersonale, sottobanco, da secoli, secondo il quale l’infedeltà allieta la coppia e s’ammette che, al massimo, l’infedeltà ha allietato il maschio e adesso neanche più lui, soggiogato com’è, per la prima volta, dalla crisi di coscienza. Due anni dopo il libro di Piccolo, Gemma Gaetani pubblica “Elogio del tradimento. Conquista, tradisci, nega!”, ma è fuori tempo massimo, soprattutto nella sua proposizione di mantenere, tra chi si ama, una landa di segretezza in cui disobbedire ai vincoli. Ma i vincoli, mentre i riti che li celebrano s’indeboliscono, diventano catene.
L’abitudine spaventosa cessa di essere la verità e diviene la trasparenza. Tra amata e amante, moglie e marito, si infila il dito, anzi la sonda della trasparenza, così come tra governo e cittadini. Tutto diventa una prova pubblica. Si torna a esibire il lenzuolo macchiato al balcone dopo la prima notte di nozze, affinché la fedeltà sia banco di una prova che, se superata, fa ottenere alla coppia l’approvazione pubblica il cui riverbero è la fiducia privata. E, incredibilmente, questo appare un esercizio di libertà. Le corna si drammatizzano, eccome (il film “Domicile Conjugal” di Francoise Truffaut, fu portato nelle sale italiane con il titolo “Non drammatizziamo, è solo una questione di corna”: racconta di Antoine Doinel che, sposato, diviene fedifrago ma, oltre a ravvedersi e riaccendersi per sua moglie, viene da lei perdonato).
“Uomini come te ne ho conosciuti tanti, non starò qui ad aspettarti perché non sono un giocattolo, non sono fatta di gomma e non credo alle tue parole, perché non sei coerente e io il triangolo no, non l’avevo considerato”, dice la single Karyna a Davide, fidanzato di Georgette, alla fine del reality “Temptation Island” che quest’estate ha sbancato su Mediaset. Sei coppie vengono divise: fidanzati e fidanzate si trasferiscono in due villaggi separati, dove convivono con dei single pronti a indurli in tentazione. Il linguaggio della trasmissione chiama “percorso” tanto la storia delle coppie ufficiali, quanto quella che ciascun suo componente intesse, poi, nel periodo di separazione, con gli altri ragazzi che incontra. Il tradimento viene così spogliato del suo tratto distintivo, il segreto, e viene sottoposto agli occhi di tutti (concorrenti e telespettatori) affinché finisca sulla bocca di tutti e chi lo subisce ne faccia uno strumento per risultare migliore, integro rispetto all’altro. “Ho usato Claudio per fare ingelosire Davide”, confessa Georgette, che sin dalla prima puntata, lontana dal suo compagno, aveva esclamato che Claudio le era “entrato dentro in tre secondi”. Sottratti il segreto, la scelta e, in fondo, l’amore drammaticamente delicato che fulminava i borghesi in fuga dalla ragione verso il sentimento, l’infedeltà è del tutto disinnescata ma confermata nella sua natura di peccato contro cui è necessaria ferma intransigenza. Georgette, bellissima, imponente, vitalissima e libertina fintanto che non si trova davanti al suo uomo (sempre in favore di telecamera), proclama di volersi mettere in gioco, di voler esplorare le porte della tentazione, di voler “fare la mia esperienza”. Davanti a lui, invece, quel suo stare sulle porte della tentazione lo spiega come la sola soglia da cui intravvedere il suo futuro con lui, sentirsi pronta, temprata dal superamento della dodicesima fatica. Insomma, davanti a lui si ritrae. Mette la testa sotto la sabbia. Mente. S’assolve perché “non l’ho mai baciato”, convinta che tradire significhi desiderare un altro corpo e non un altro orizzonte.
Cosima, la signora borghese che trascina con l’inganno il protagonista di “L’amante fedele” (il racconto che dà il titolo alla raccolta con cui, nel 1953, Massimo Bontempelli vinse il Premio Strega), in un bordello, riuscendo a fargli dimenticare la sua amata Teresa alla quale lui giurava e spergiurava amore eterno e monogamico, diversi decenni prima della parità dei sessi, dei reality show, della trasparenza, non si esorcizza mai e la tentatrice sa farla così bene che si fa chiamare con un altro nome ed è con un’altra identità che tradisce suo marito. Dopo la sfrenata notte nel bordello, invita la sua povera vittima a pranzo, a casa sua, con tanto di marito presente, quando resta sola con il confuso malcapitato che le giura amore eterno, ricordandole le dolcezze della ore passate, gli dice semplicemente “lei è pazzo”, restando, così, fedelissima alla realtà. Secondo alcune voci, a scrivere “L’amante fedele” per Massimo Bontempelli fu Paola Masino, sua signora. Ma chissà.
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