Hillary Clinton con Tim Kaine, il suo candidato alla vicepresidenza, alla convention democratica di Philadelphia (foto LaPresse)

Minimum Trump

Quel che resta delle due convention: sul piano dello spettacolo ha vinto Hillary. Oscuratissimi i vice dell’uno e dell’altra – di Mattia Ferraresi

Alle convention appena concluse si è parlato più del rapporto qualità prezzo degli hot dog agli stand che dei candidati vicepresidenti, e la cosa è notevole visto che la qualità degli hot dog era pessima e il prezzo altissimo. I vicepresidenti sono i grandi dimenticati di questa stagione di overdose elettorale dove ogni dettaglio viene sezionato, esplorato e interpretato con acribia da migliaia di osservatori che si muovono come sciami di api in padiglioni pieni d’aria condizionata. Mike Pence e Tim Kaine hanno parlato alle rispettive convention, nella penultima serata, come prescrive il protocollo, ma non hanno fatto breccia nei cuori e nelle menti degli americani, non hanno brillato di luce propria, accontentandosi di riflettere quella dei loro compagni di ticket. E’ il destino inevitabile di due nomi con un coefficiente di riconoscibilità vicino allo zero, affiancati da due candidati che soltanto chi ha passato gli ultimi trent’anni su Plutone non ha mai sentito nominare.

 

Il loro relativo anonimato, la loro normalità, la noia politica che trasmettono a un elettorato sovraccarico di emozioni è un’eccezione alla regola che vuole che i vicepresidenti siano i cani da caccia che fiutano, si espongono, aggrediscono e si prendono rischi che i candidati alla presidenza è prudente che evitino. Anche da questo punto di vista, è una campagna anomala, dove le seconde file hanno l’insolito ruolo di calmare le acque, non di agitarle. Il discorso di Pence a Cleveland è stato sotterrato dall’intervento del senatore Ted Cruz, che non ha concesso l’endorsement a Donald Trump, e la sua animosità verso l’avversario è stata superata a destra dalla ferocia della folla. La definizione di “segretario dello status quo” non rimane impressa nella memoria collettiva se nel palazzetto si sollevano cori del calibro di “ammanettatela!”, “mettetela in galera!”, e certi affiliati della campagna elettorale parlano di plotone d’esecuzione per alto tradimento. Così di Pence è rimasta più la commossa presentazione della madre 82enne che qualche battuta del discorso, se si fa eccezione per la definizione classica che dà della sua identità politica: “Sono un cristiano, un conservatore e un repubblicano, in quest’ordine”.

 

L’annuncio della sua scelta era stato funestato dalla strage di Nizza, Trump aveva rimandato la cerimonia di un giorno, abbassando il profilo; la prima intervista televisiva l’hanno fatta insieme, e sperare di ottenere spazio quando dietro la telecamera c’è Trump è un’illusione che un politico scafato come Pence non può coltivare. Tanto ci sarebbe stata la convention per farsi conoscere, si diceva. Invece l’adunata è stata presa in ostaggio dai litigi interni, dai discorsi plagiati, dagli slogan forcaioli, dall’onnipresente famiglia Trump, proposta in prima serata in qualunque grado di parentela e con qualunque tipo di affiliazione. Difficile dimenticare il momento in cui è stata chiamata a parlare la direttrice della cantina di Trump. Il brand-cognome ha eclissato il governatore dell’Indiana, che in un certo senso è stato assoldato con il preciso scopo di essere eclissato, per fare la parte del satellite che gira silenziosamente attorno al pianeta di riferimento.

 

Pence ha la testa e anche i capelli di Jack Kemp, il quarterback-politico amato dai conservatori dialoganti, è un esemplare della destra che funziona, quella che ha sparso governatori nella rust belt a sistemare bilanci, abbassare tasse e dar frustate a economie che vanno al rallentatore. Gioca nello stesso campionato di gente come Scott Walker, Rick Snyder e John Kasich, il  governatore dell’Ohio che alla convention di casa non si è nemmeno presentato. Dicono che fosse lui il prescelto da Trump per la vicepresidenza, che il primogenito del candidato si sia fatto latore di un’offerta che non si poteva rifiutare: diventare il titolare dell’economia e della politica estera in un’eventuale amministrazione Trump, mentre il papà si dedicava all’attività più importante, “make America great again”. L’offerta è stata rifiutata, e invero il clan nega che sia mai stata fatta. A Cleveland c’è nostalgia del tocco gentile del governatore, e Pence è un surrogato appena decente, che non sposta le masse e non scalda i cuori. Trump lo ha messo nel ticket per logica di contrasto: è calmo, ragionevole, istintivamente contrario alle campagne negative, l’opposto di Trump. Ed è cristiano. Ma che tipo di cristiano? Lui dice che è un “cattolico evangelico born-again”, nato cattolico in una famiglia irlandese e poi approdato a una forma di cristianesimo generico, come invocavano già alcuni puritani all’alba dell’esperienza americana, desiderosi di tornare alla purezza originaria del credo, prima ancora che il panorama cristiano si atomizzasse in un numero indefinito di denominazioni.

 

Cristiano senza aggettivi, primitivo, senza fedeltà a Roma ma con piena fedeltà alle cause della battaglia culturale. Su quel fronte Trump è talmente scoperto che questa convention rimarrà nella storia come il primo evento repubblicano a livello nazionale in cui un candidato ha abbracciato la sigla “lgbtq”, fra gli applausi del popolo. Fuori dalla Quicken Loans Arena il provocatore ultratrumpiano e omosessuale Milo Yiannopolous organizzava feste a tinte arcobaleno accompagnato da Roger Stone, ex consigliere di Nixon che s’aggirava per la città con il volto di Clinton disegnato su una maglietta e una scritta inequivocabile: “Rape”. Pence rassicura la coscienza degli evangelici che hanno votato in massa Trump e incoraggia gli scettici conservatori che inorridiscono di fronte all’allineamento sull’asse Trump Tower-Cremlino: “Se la Russia sta interferendo nelle nostre elezioni, posso assicurarvi che tutti e due i partiti e il governo americano garantiranno serie conseguenze”.

 

L’altro grande dimenticato è Tim Kaine, che nella cavalcata di Hillary è stato sepolto sotto uno dei più potenti discorsi pronunciati da Obama negli ultimi dodici anni, ma i suoi limiti narrativi sono anche più profondi. Il video con cui il senatore è stato introdotto alla convention di Philadelphia era significativamente più breve degli altri, e non per qualche forma di discriminazione: semplicemente non c’era molto da dire. Nato in Minnesota, cresciuto in Kansas, figlio della classe operaia finito a fare il missionario in Honduras, Kaine è un purissimo prodotto politico del clintonismo, un alleato fedele che Hillary spera faccia la differenza nello swing state della Virginia. Dev’essere stata una forma di “Francis Effect” che ha scatenato l’applauso del pubblico quando ha detto che è stato a scuola dai gesuiti.

 


Tim Kaine e Hillary Clinton (foto LaPresse)


 

Per il resto ha fatto l’imitazione di Trump, genere rischioso ma che gli è riuscito decorosamente, e ha detto le solite frasi in spagnolo, che danno il messaggio giusto alla minoranza che Hillary corteggia. Hillary lo ha scelto anche per il suo status di cattolico liberal, replicando uno schema che ha permesso al ticket Obama-Biden di raggiungere un elettorato vasto e composito. Kaine è privatamente contrario all’aborto, ma sostiene la Roe v. Wade e il diritto delle donne ad accedere a tutti i servizi sanitari collegati all’interruzione di gravidanza. Ha ricevuto l’endorsement formale di tutte le associazioni pro choice, ma non deve aver gradito particolarmente gli interventi che alla convention hanno definitivamente sepolto la vecchia logica dell’aborto “raro, legale e sicuro”. Diverse attiviste sul palco di Philadelphia hanno raccontato l’esperienza dell’aborto non come una legittima necessità a cui ricorrere, ma come una virtù da esibire.

 

Ogni convention ha i troll che si merita. In quella repubblicana sono gli uomini con la pistola, dai democratici i delegati intransigenti di Bernie. Cleveland è blindata, ci sono check point, strade a chiuse a uso esclusivo del secret service, il palazzetto è circondato da una zona rossa, secondo la logica dei teatri di guerra, per impedire gli scontri che poi non si materializzano, anche perché in pratica ogni manifestante è scortato da un poliziotto. Ma anche nella zona rossa si possono portare liberamente armi da fuoco, e nonostante le richieste di tante autorità lo stato non ha il potere di sospendere una legge votata dai rappresentanti del popolo e legittimata dalla Costituzione. Al primo biker con la pistola nella fondina che si presenta vicino all’ingresso decine di telecamere si precipitano per documentare il fatto, foriero di pericolo. Quando arrivano quelli con i fucili a tracolla le telecamere diventano centinaia, i giornalisti americani sono abituati, la prendono con filosofia, ma per gli stranieri l’associazione fra Trump e gli uomini con le pistole è troppo ghiotta per minimizzare. Bisogna fare un “all in”.

 

Nei racconti sovreccitati i pistoleri diventano centinaia, migliaia, sono milizie di suprematisti bianchi organizzate da Trump, minacciano l’intera società. In questo contesto, è d’obbligo la citazione del dato: i maggiori responsabili delle azioni di terrorismo in America sono attori interni, non islamisti radicali. In realtà, gli uomini armati sono pochi e per nulla organizzati, dopo un po’ diventano agenti di disturbo che ingombrano i marciapiedi e rallentano la camminata. Al terzo giorno soltanto i più irriducibili cronisti dell’apocalisse imminente insistono nell’intervistarli. Per lo più sono personaggi un po’ strambi, senza un’agenda politica chiara. Qualcuno usa il fucile come specchietto per le allodole, per vendere magliette e spille, sia pro che contro Trump. Uno dei pistoleri più di successo, in termini di pubblico e critica, si chiama Micah, ha un fucile enorme, una cravatta rossa e un copricapo da preghiera islamico che però si rifiuta di qualificare come tale, poiché “è usato in molte tradizioni”. Alla richiesta “sei musulmano?”, dice che non ha intenzione di rispondere a questa domanda strumentale, e il suo è un gesto simbolico.

 

Ha un lavoro non meglio specificato nel nebuloso settore degli “alternative media” e quando snocciola i suoi ragionamenti sul minaccioso ruolo dello stato sembra uscito da una scena di “Ipotesi di complotto”, il vecchio film in cui Mel Gibson un paranoico ossessionato dalle cospirazioni. Dopo un po’ anche i più tenaci abbandonano la scena, domandandosi cosa, esattamente, Micah voglia simboleggiare con il suo gestoI troll di Philadelphia sono invece i delegati di Bernie. Non tutti i 1.894, s’intende, ma le poche decine che dopo essere stati sconfitti in un processo democratico trasparente e regolamentato (al netto delle famose email del partito, che tifava Hillary, ma quella è acqua passata) decidono di continuare la protesta in modi creativi e fastidiosi. Alcune decine si assiepano a ripetizione nel  padiglione dei giornalisti. La prima volta che parte l’urlo dei sandersisti, la massa scatta all’unisono sentendo acutamente la necessità di raccontare le lacrime della minoranza schiacciata dai carri armati del partito. Telecamere, smartphone, registratori, livetweet, snapchat e altri social più meno ovvi vengono impiegati per documentare l’abborracciato ma autentico gesto di protesta. Alla quarta volta in un giorno tutti girano gli occhi all’insù, come a dire: “Che palle ‘sti delegati di Bernie”. Il delegato molesto di Bernie si muove generalmente in corteo con in mano un cartello contro il Tpp, ma a volte viaggia anche in solitaria, ti sorprende alla fila del camion che distribuisce philly cheesteak per raccontarti la verità scomoda che Hillary non vuole che venga scritta.

 

A Cleveland da subito le cose non vanno bene per la comunità dei giornalisti che si muove compatta e, a quel punto, ancora fresca; ma più che altro c’è voglia di dire che le cose non vanno bene, perché il sottotesto è chiaro: se questi sgherri di Trump non sanno organizzare una convention, come vorrete che facciano a guidare il paese? E quindi il wi-fi è intermittente, i briefing non si capisce dove sono, il caffè, bene di prima necessità in queste adunate di massa, finisce troppo in fretta. La cosa che funziona meglio è lo spazio della stampa estera, che ha però lo svantaggio di essere un po’ come il tavolo degli studenti stranieri alla mensa nel liceo di un film generazionale americano: nessuno vuole mangiare con loro, e alla fine dell’anno non sapranno con chi andare al prom. Quando poi la brigata dei media, già piuttosto provata, si trasferisce a Philadelphia le cose si rivelano per quello che sono: la convention repubblicana era organizzata divinamente, tutto funzionava alla perfezione, mentre il tanto disciplinato Partito democratico della tanto organizzata macchina dei Clinton ha messo tutti sotto tensostrutture che si allagano, e bisogna mettere i secchi per contenere le perdite.

 

A parte questo, nessuno dei volontari sa nulla, la macchine di Uber non funzionano, i trasporti sono drammaticamente inadeguati e le regole di accesso alla Wells Fargo Arena cambiano più velocemente di quelle del partito per danneggiare i candidati di Bernie. Si diffonde la formula “worst.convention.ever”, e si prende a parlare della settimana di Cleveland come di un’età dell’oro, benedetta da un clima fresco e asciutto, mentre a Philadelphia c’è un’umidità cambogiana incoronata da un paio di temporali con relativa evacuazione delle strutture mobili. Il sottotesto è chiaro: se Hillary raccoglie i voti come cura la logistica dell’evento, Trump vince a mani basse. Da notare che sul palco i valori sono invece rovesciati. I repubblicani offrono una giustapposizione di personaggi minori, qualità multimediale scadente, una band messa in piedi dal chitarrista G.E. Smith con un frontman che ha gli stessi capelli del cantante dei Nickelback. Lo spettacolo è stentato e di quart’ordine, le musiche sono un misto di rock e country identitario che va bene giusto alla festa della birra. Sembra spesso di essere nella striscia delle pubblicità televisive locali, sottogenere popolare lo-fi dalla quale l’America non riesce, e forse non vuole, liberarsi.

 

L’incoronazione di Hillary invece è un trionfo di professionalità e intrattenimento, è un intervallo del Super Bowl prolungato per quattro giorni, e semmai il problema è che ci sono talmente tante celebrità che quasi si elidono, rubandosi la scena a vicenda, oppure trasformando la kermesse in una specie di Mtv Awards che toglie gravità politica alla cerimonia. Ma la verità è che lo spettacolo dei democratici è impeccabile, e fra i ranghi dei politici ci sono tutti, ma proprio tutti. C’è pure Anthony Weiner, marito di Huma Abdein, quello che qualche anno fa mandava immagini delle sue parti intime ad ammiratrici incontrate su Twitter.