Un quartetto a Mazara del Vallo negli anni Cinquanta

L'orchestrina volante

Giuseppe Sottile
La cavalcata misera e fantastica di un quartetto di paese in una Sicilia angelica e feudale. Un concerto di solfeggi e serenate, ma il cugino americano ballava solo con “Blue Moon”. Senza musica il maestro, di mestiere barbiere, sarebbe morto, impidocchiato nella miseria dei  conti che non gli tornavano mai.

Per un minutino, se potete, dimenticate la Sicilia che avete letto nei romanzi o che avete visto nei film: quella dei fichidindia e dei delitti d’onore, dei nobili e dei briganti, dei gattopardi e dei perdenti, dei morti ammazzati e dei delinquenti. E fate largo, se potete, alla Sicilia delle storie fragili, sminuzzate dal tempo e dalla lontananza. Poi, armati d’amore e di tenerezza, arrampicatevi in quel pizzo di montagna dove quattro picciottelli con gli strumenti in mano avvampavano di sogni e ambizioni. Erano i ragazzi di un’orchestrina senza nome e senza miti che arrangiavano la giornata con le serenate, nove canzoni alle spose e sette alle fidanzate. Tutto ben pagato. A mezzanotte ci apparecchiavano pure una tavolata – pasta col sugo, pecorino e teglie di castrato – a patto che tirassimo a lungo, fino alle mattinate, quando le dita si incroccavano al manico della chitarra e il trombettista, con le labbra spappolate, non trovava più né le note né il fiato. “Forza col do di petto”, urlavano con allegria i paisani stipati nella sala. Ma che ne sapevamo noi, poveri musicanti di paese, della grandezza di un do di petto o di un do maggiore? Se avessimo studiato Haydn e la sua “Creazione” forse l’avremmo catturato lì, dove le modulazioni dell’universo senza forme e senza luce si fermano di colpo e sull’infinito si staglia una sola nota, il do maggiore appunto. Che è il fiat lux dal quale nasce il mondo.

 

Ma il capobanda, che fu maestro del nostro solfeggio, di accordi non ne sapeva gran che. Ci aveva istruito sul re minore, così potevamo accompagnare i morti al camposanto. E pure sul la minore, buono per tutte le canzonette e le marce trionfali. Ma sul do maggiore, quello che dà lucentezza e brio ai tenori, su quello l’insegnamento zoppicava, eccome, perché in quei mesi il maestro Carmelo Lapunzina non aveva tanta voglia di andare dietro a noi quattro piscialetto che pure volevamo diventare come lui: musicanti. Lui, di mestiere faceva il barbiere. Ma i contadini del paesello avevano scoperto, in quel tempo, la lama Gillette; e i ragazzotti come noi non amavano più né i capelli corti né la sfumatura bassa. Così il maestro passava più tempo ad affilare i rasoi – cinghia di cuoio e mola bagnata – che non a tagliare le barbe. Era, come si direbbe oggi, la stagnazione. La crisi. E meno male che aveva la musica. Perché è vero che con il suono e il canto non si campa. Ma è anche vero che senza musica il maestro sarebbe morto, impidocchiato nella miseria quotidiana dei conti che non gli tornavano mai.

 

La musica invece gli regalava ancora sospiri, “ah Verdi, ah Rossini, ah Toscanini”, e l’illusione che se non fosse nato lì, in quel pizzo di montagna senza storia e senza gloria, chissà quali vette, chissà quali cime. “Amo le rose che non colsi”, gozzaneggiava la sera quando, abbassata la saracinesca, la piccola barberia, ancora spugnosa di sapone e pietrallume, si trasformava in una sala da concerto misera e voluttuosa, verdeggiata da suoni timidi e stonati, da canti umidi e ferrosi.
“Meglio del Crazy Horse”, fantasticava il maestro Lapunzina, fingendo di avere girato il mondo ed evocando inenarrabili godurie. E fantasticando mimava con le braccia ad arco lo spasimo di un violino o il tormento di un violoncello. Era, quel salone, il luogo della nostra libertà. A sera, quando non c’erano più barbe da radere e capelli da tagliare, arrivavano pure i maschi del vicinato per parlare di tutto e di niente, per catturare le ultime meraviglie, le ultime cattiverie, le ultime maldicenze, gli ultimi ammiccamenti, in un crescendo straripante di risate, sberleffi e perfidie. Si parlava di amori e tradimenti; si ricamavano passioni, corna e cavallerie rusticane; si confessavano sospiri, seduzioni e soavi deliri. Soprattutto sotto Natale quando il mastro barbiere regalava i calendarietti osé – quelli tascabili, quelli dal profumo povero ma ruffiano, quelli con le donne nude – nel tentativo, ah quanto disperato, di accalappiare una mancia, una confidenza, una ardita complicità.

 

Era, il salone, un arpeggio notturno di allegria e di trasfigurazioni, una parrocchietta laica, un covo ludico e licenzioso dove ogni vaghezza, anche la più azzardata, si faceva corpo e sangue. Era il teatro delle finzioni, delle cose non viste e delle cose sperate. Un’officina dei miracoli che liberava ogni cuore murato, che dava sensualità a ogni nostro discorso e ornamento barocco a ogni nostro ragionamento. Dalle pietre quadrate dei fatti – o, se volete, della realtà – nella barberia del maestro Lapunzina si riusciva sempre a spremere un guizzo dolceamaro d’ironia, un supplemento gioioso di provocazione, un gioco improvvisato di detti e contraddetti, di dissonanze e irriverenze. Eravamo proprio fortunati, noi musicanti. Perché l’intramarsi delle note che andavano a comporre accordi e melodie ci aiutava a costruire mondi senza parole, ma di preziosa favola: una per ogni anima e per ogni sentimento. E ci teneva soprattutto al riparo dai predicati molesti che l’orizzonte di quelle terre, fatto di sudore e pane duro, quotidianamente ci ammanniva.

 

Perché la musica ne fa di miracoli ai musicisti. E anche ai musicanti, se i santi aiutano. Nella storia piccola piccola di noi picciottelli che portavamo le serenate, il pezzo più pregiato era la cornetta d’ottone che Nicolò Porretto, detto Piricò, aveva comprato di seconda mano alle “Messaggerie musicali Sacco” di via Maqueda, a Palermo, con un viaggio in corriera di cinque ore all’andata e cinque al ritorno. Era un piacere solo guardarla. E per Piricò suonarla era anche una rivincita. Sì, perché il maestro Lapunzina nelle sue doti di trombettista non aveva mai creduto. “Il dire lo avrebbe, il fiato non ha”, ripeteva. Dove quel “dire” stava per la conoscenza del solfeggio e di tutte le complicate combinazioni che il solfeggio si portava dietro: toni e semitoni, crome e biscrome, minime e semiminime: roba da far girare la testa a un seminarista, immaginarsi a Piricò che dopo la quarta elementare era andato a bottega dal sarto e da lì non si era tirato fuori mai più. Eppure l’esame davanti al maestro Lapunzina lo aveva superato. Solo il tempo di valzer gli dava problemi.

 

La grammatica musicale aveva la crudeltà della precisione: uno a levare e due a battere; ma Porretto Nicolò, apprendista sarto e aspirante trombettista, puntualmente partiva con l’uno a battere e finiva col due a levare. Minuzie, certo. “Miserabilità”, diceva lui, ribaldo e ghibellino, riferendosi alle amorevoli cattiverie del maestro Lapunzina. Che invece, per ingigantire il suo ruolo e la sua maestria, puntualmente legava il battere e il levare al “solfeggio largo e melodioso, tanto praticato dal nostro amatissimo Giacomo Puccini”. Diceva nostro e non mio. E in quel plurale maiestatis c’era tutto il suo mondo, con l’estasi e la pena di ciò che Carmelo Lapunzina avrebbe voluto essere e non era stato. Ma il vero miracolo di Piricò non fu quello di avere imparato da solo a maneggiare la tromba. “Il morto insegna a piangere”, sentenziava, invaghito della propria tenacia. Fu il miracolo di un azzardo. L’orchestrina, chiamiamola così, nei primi anni di vita, era andata avanti a forza di copiature. E si copiava, dov’era possibile, a orecchio. Il repertorio, del resto, non era così vasto. Tra i ballabili si tenevano di scorta due o tre mazurke – ché tanto non erano più di moda – e tre o quattro valzer che, per il pronto accomodo, invece erano sempre utili. Ma lo avrebbe capito anche un sordomuto che il futuro apparteneva ormai alla beguine, al tango, e soprattutto, allo slow. Ai lenti, per dirla con una parola semplice. Lenti e sensuali, com’era facile capire dalle prime note quando i maschi, invitati alle serenate, non vedevano l’ora di passare dalle canzoni al ballo.

 

Due slow, appena rubacchiati dalla radio, nel libretto delle partiture comunque c’erano. E trionfavano. La più facile, era “Sei rimasta sola”, parole e musica di Riki Gianco, voce di Adriano Celentano. L’altra era “Non arrossire” di Giorgio Gaber. Ma la sera che, “a grande richiesta”, l’orchestrina fu costretta ad eseguirle, quelle che dovevano essere le canzoni all’ultimo grido si appalesarono come due nenie spelacchiate, due litanie mortizze. Due sventure, insomma. Piricò, con la cornetta, aveva soffiato tanto che, se l’ultimo ritornello non fosse finito giusto in quel minuto, avrebbe rischiato di rimanere asmatico per tutta la vita. Natale Foderà, il chitarrista, si era persino prodotto in un vibrato e aveva le dita della mano sinistra che non sembravano più fatte di carne ma di zolfanello: bastava un ultimo strofinio sulle corde e avrebbero preso fuoco. E ce l’aveva messa tutta anche il batterista, Vincenzo D’Ossuna, che pur di arricchire l’arrangiamento, si era inventata una bacchetta a spazzola, per i toni soffusi, e una sorta di nacchero gigante che desse alla percussione, la chiamava così, un nonsocché di esotico, di hawaiano. Tutto inutile. Perché i fratelli Ottaviano – che erano i rispettabilissimi committenti della serenata – purtroppo non gradirono.

 

E se Piricò non avesse subito dopo giocato d’azzardo, l’orchestrina sarebbe stata sdirupata, con tutti gli strumenti, lungo la scala. Gaspare e Vito Ottaviano erano rispettivamente campiere e sovrastante di Casalgiordano, un feudo baronale coltivato a frumento da dodici mezzadri e otto gabelloti. Entravano in paese con le giumente bianche, il fucile a tracolla, gli stivali neri e la spalla destra leggermente scivolata. Forse per dare risalto alla sinistra, che così appariva quasi ingessata. Avevano chiamato l’orchestrina per una serata di banchetti, schiticchi e danze in onore di un cugino americano, Frank, che tornava da Riveredge, New Jersey, perché aveva già fatto fortuna e voleva comprarsi in blocco tutto Casalgiordano. Una gran festa. Con gli invitati divisi su quattro stanze, e loro tre – Gaspare, Vito e Frank – che salutavano con gli occhi i padri e le madri delle ragazze impupettate, venute lì non solo per ballare, ma per ammirare e poi raccontare di ogni innamoramento e di ogni tavolata.

 

Il vero uomo di legno, nella sera del ballo, era Frank, l’americano. Che fino alla mezzanotte non aveva ancora schiodato il culo dalla sedia, né per un tango, né per un giro di valzer. E fu allora che a Piricò si avvicinò, garbato ma asprigno, Vito Ottaviano, il campiere. “Benedetti ragazzi, la suonate o no una canzone moderna? Non vedete che le ragazze non ballano e che gli uomini si sono già annoiati?”. La faccia di Piricò diventò bianca e appiccicosa, ma il ragazzo fu svelto e indiavolato. Fissò negli occhi gli altri musicanti, fece un due e tre con le dita e attizzò i due slow. Che con il vibrato del chitarrista e lo spazzolato del batterista potevano essere addirittura seducenti. Ma non ci fu verso. Perché Frank, il cugino americano, fu ancora più sordo e se ne restò per tutto il tempo avvoltolato in una poltrona verdeoliva, tra due comò.

 

Un disastro. Che si appalesò giusto sul finale di “Non arrossire” quando si alzò l’altro Ottaviano, il sovrastante. Il capofamiglia, diciamo. Il quale fece quattro passi e si fermò al centro della sala. Poi si girò di tre quarti, diede un’occhiata a raggiera, agitò interrogativamente la mano, chiusa a forma di pigna, e di colpo sbottò. “Ma perché non suonate qualcosa di estero? O debbo accendere il grammofono?”, domandò sillabando ogni parola con lo stesso sorriso, sghembo e affilato, con il quale a Casalgiordano intimoriva non solo i bovari ma anche gli zammatari che in quel regno pietroso si consideravano venerati maestri di latte e caglio, di ricotta e tumazzo. Fu a quel punto che Piricò azzardò. Sibilò al chitarrista un “vienimi dietro”, sbiascicò qualcosa al batterista, riappiccicò le labbra alla cornetta e intonò la più americana delle canzoni: “Blue Moon”. Sì, quella di Frank Sinatra. La partitura glie l’aveva regalata la signorina delle Messaggerie musicali come sconto sull’acquisto della cornetta, e lui ci aveva perso l’anima, il fiato e le dita. Il suo “Blue Moon” riempì la stanza.

 

Frank cominciò prima a battere il tempo con le mani e poi, finalmente a ballare. Ballò con la sorella, ché forse doveva essere anche timido. Ma il grammofono di Don Vito Ottaviano, sovrastante di mezza mafia nel feudo della baronessa, rimase chiuso nella similradica del mobileradio e l’orchestrina andò avanti fino alla tre, ora in cui il turgido Frank si accucciò finalmente per la notte nella poltrona verdoliva e si addormentò. “Blue Moon”. Ricordate? “You saw me standing alone… senza un sogno nel mio cuore e senza un amore che mi appartenga”. Parole che avrebbero potuto far piangere le pietre. Ma che minchia ci importava a noi del romanticismo e delle parole belle, della luna e delle stelle?

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.