Il giornale senza giornalisti

Michele Masneri
In redazione fisici, statistici, matematici. Fuori, telecamere e tutti testimoni. H24: nella tana del lupo. Per la carta stampata il tempo è finito. “Poi sulle spiegazioni del fenomeno rimane naturalmente spazio: per un Internazionale, per un Financial Times, per un Limes, per un Foglio ci sarà sempre mercato. Le notizie sono lì, si tratta solo di trasformarle in prodotti di alta gamma.

Ho visto il futuro del giornalismo: non prevede giornalisti. A Roma, piazza Risorgimento, tra turisti sperduti e assolati in coda per la Sistina e i Musei Vaticani, al settimo piano di un palazzo umbertino, mentre sotto i bar spargono rugiada artificiale e spingono dentro i medesimi turisti, ecco la redazione di H24, “non un’agenzia ma una boutique di informazione”, come la definisce il socio fondatore e boss, Mauro Parissone. Torinese, un passato alla Stampa, poi a Panorama, poi tanta tv, infine dal 2001 inventore con altri due soci di questa start-up che oggi fornisce notizie-video a Sky, a Corriere.it e alla Gazzetta dello Sport, e che sterminerà definitivamente la categoria di noi cronisti. Quaranta dipendenti, due milioni e mezzo di euro di fatturato, produce news ad alto valore aggiunto ed è rigorosamente “reporter-free”, e anche adesso che magari si espanderà cerca fisici, statistici, matematici, non certo disgraziati come noi col tesserino dell’Odg. Al posto del tesserino rosso, infatti, c’è un algoritmo: non tanto per battere notizie ma per frullarle, pescarle nell’enorme mare della Rete.

 

“Ormai le notizie sono una materia prima deprezzata” spiega Mauro Parissone. “Il valore aggiunto c’è nel commento, nell’analisi, nella spiegazione, nella comprensione del mondo, ma su quello noi non lavoriamo, noi lavoriamo sulla realtà, sul ‘super subito’. Su questo il video ormai ha la meglio. Pensiamo al caso Brexit. Tra avere un lancio di agenzia che dice: ‘Il primo ministro rassegnerà le dimissioni a ottobre’, eccetera, e vedere la sua faccia, che esce da Downing Street, è chiaro che non c’è confronto”. Insomma per la carta stampata il tempo è finito? “Sì”. Benissimo. Consolazione: “Poi sulle spiegazioni del fenomeno rimane naturalmente spazio: per un Internazionale, per un Financial Times, per un Limes, per un Foglio ci sarà sempre mercato (forse lo dice per addolcirci la lenta morte del nostro lavoro di scriventi). Dunque le notizie sono lì, tipo commodities, si tratta solo di trasformarle in prodotti di alta gamma, tipo le insalate in busta che costano quattro volte quelle sfuse".

 

Dalle finestre si vedono i Sacri palazzi: qui invece si entra in una prima sala, una “people room” con un grande tavolo a forma di ferro di cavallo, due ragazzi sorvegliano una serie di monitor. Andrea in particolare mette notizie su un aggregatore, una specie di bacheca Facebook, un palinsesto di notizie che non segue il normale flusso delle agenzie di stampa, ma il flusso che ormai passa da altri media: Facebook, Twitter, Instagram. Questa bachecona inventata da H24 si chiama Opendesk, “è un data management system che riceve i dati selezionati dal nostro algoritmo e istantaneamente visualizza cosa accade, quando e dove. In sostanza un sistema di gathering autonomo, in grado di aggregare, organizzare e presentare dati relativi ad avvenimenti di interesse generale tali da costituire il concetto di notizia”, spiega Parissone.

 

“L’errore comune di molti editori è quello di non aver chiaro cosa cercare”, dice Parissone, affezionato alla metafora marinara; “il problema infatti non è mettersi a osservare la Rete: come quando si è in mare aperto bisogna scegliere dove guardare per vedere, altrimenti ci si perde.” L’algoritmo è la bussola, e in questo attico che genera informazione invece di trenini come nella tradizione romana, e qui si se ne studiano di nuovissimi a chilometri zero. Come Supernow, “algoritmo di ultima generazione, un ‘big data analytics system design’, in grado di misurare piattaforme social come Facebook, Twitter, YouTube, Instagram. E’ un sistema automatico che pesa le informazioni, intuisce quelle che possono crescere nelle intenzioni degli utenti, ne approfondisce i linguaggi collegando le immagini ai contenuti relativi e infine compone direttamente l’output”, dice Parissone.
“Un tempo il lavoro del cronista era soprattutto cercare testimoni, oggi siamo tutti testimoni volontari”, continua l’imprenditor-un-tempo-giornalista. E ancora: “La materia prima, l’informazione, è ormai un servizio base, come la distribuzione dell’acqua e dell’elettricità. La notizia è diventata pura relazione sociale, atto di scambio istantaneo fra individui”.

 

Dal produttore al consumatore, del resto qualche giorno fa un sondaggio Reuters (quella vecchia agenzia che fornisce le notizie fatte a mano, sapete, roba novecentesca) mostrava che su un campione di 500 mila persone il 50 per cento si nutre ormai solo sui social network. Il lavoro di H24 è dunque di filtrare l’enorme massa di informazione in circolazione e trasformarla in qualcosa che vale: processando quest’enorme mole di notizie come le pepite di zio Paperone in Klondike. Il filtraggio non è più manuale ma automatico, “così nelle redazioni servono ingegneri, fisici, matematici più che grandi firme che ci continuano a raccontare come, dal loro punto di vista, dovrebbe girare il mondo”. Del resto “come diceva Roland Barthes, la fotografia è stata inventata dai chimici, non dai pittori o dagli artisti”. Il filtraggio automatico consente di passare dalle 500 mila “voci” del rumore di fondo che ogni giorno scorrono sui media tradizionali e sui social network e restringerla a 1.500 pezzi. Filtrandola ancora, individuando poche storie per arrivare a una media di 5/6 dirette al giorno, 130/140 al mese, 1.500 diretteall’anno. Più di 5.000 videoclip all’anno che sono i derivati della notizia, e che poi gli editori comprano come merce preziosa.

 

Come grani di caviale pregiato prelevati dalla pesca di grossi storioni; e per pescarli, serve cucire reti dalle maglie sempre più strette. A questo ci pensa Alessio. Ci siamo spostati in una stanzetta più piccola, passando da misteriosi uffici da James Bond con cavi e banchi da officina; siamo arrivati in una saletta, ecco un tavolo con manuali “Programmare in Python”, che non è il gruppo di comici inglesi, “Information is beautiful”, pare insomma di stare in una Silicon Valley umbertina. Alessio ha 32 anni e nel lessico misterioso di H24 è “allevatore di aggregatori”, è insomma una specie di bàlia degli algoritmi; programma macchine sempre più in grado poi di capire da sole, di migliorarsi. Ne sceglie alcuni, mi spiega qualcosa che non capisco tra “reti bayesiane” e “vector machine”. Si fa finta di capire. Lui spiega: “Agenzie, testate locali e web vengono filtrati da una macchina addestrata che impara dalla sua stessa esperienza codificata, dalla attività quotidiana di selezione”; l’algoritmo dà un valore tra 0 e 1 di rilevanza, poi assegna un punteggio: più è alto, più la notizia è una notizia.

 

“L’algoritmo poi si adatta nel tempo”, continua sempre il suo allevatore, e l’algoritmo è anche choosy, si stufa pure: “L’anno scorso era molto tarato sull’Expo, quest’anno ha registrato da solo che è finito, e le notizie che riguardano Expo non vengono neanche prese in considerazione”. Alessio analizza solo le news classiche, non Facebook e non Twitter (ogni settore di quella robaccia chiamata la notizia ha bisogno di un setaccio adatto, “non puoi mischiare le mele con le pere”, dice Parissotto). Alessio non è giornalista, naturalmente. “Sono un fisico; e anche la programmazione la vedo come uno strumento; sono un data scientist”, dice, “anche se ho sempre lavorato nell’editoria”, dice con aria colpevole, poi “il giornalismo da freelance, per il  Corriere, per il gruppo Espresso, per Wired; ho cominciato come giornalista scientifico con un master”. Alessio ha un’aria sufficientemente nerd, ascolta musica metallara (passa “Metal rapsody” su Spotify), sarebbe un perfetto geek da Silicon Valley se non fosse per la calata romana e l’età, 32 anni (“ultimamente l’età media si è un po’ alzata, un tempo era di 27”, dice Parissone).

 

Di fronte a lui Emanuele Pascucci, ingegnere, e terzo socio della start-up che ci ucciderà tutti, sta lavorando a un alert che avverta quando determinate categorie di eventi accade, possibilmente eventi che somiglino a una notizia. Pascucci è una sorta di Q, l’inventore dei gadget di 007, lui progetta le macchine modificate che poi produrranno le notizie (siamo passati dall’altra parte della filiera di questa informazione futuribile, dopo la pesca la lavorazione del semilavorato). Entriamo in un laboratorio o antro (il lato tecnologico di H24 è davvero impressionante), in una stanzetta ecco un bancone con molti cavi, un saldatore, un trapano: qui vengono assemblati oggetti misteriosi tra cui uno “zainetto telefonico in bundle” e soprattutto la beauty cam, che è una telecamerona-robot che deriva il suo nome dall’essere contenuta in un grosso cassone con maniglia, tipo beauty case per signore molto esigenti; la beauty cam è la Roomba del telegiornalismo, è molto usata in caso di eventi, “per esempio la usiamo per il funerale delle vittime di via Brioschi, a Milano: viene messa in chiesa, comandata in remoto, è in grado di fare carrellate e zoom come un operatore, mentre il videomaker fuori farà le riprese dell’esterno”. Dunque ci sarà anche un umano, e questo ci consola, anche se non sarà un giornalista.

 

L’avvenimento tremendo di qualche settimana fa (incendio con esplosione forse dovuto a tentativo di suicidio di un marito infelice) spiega bene il business model di H24. “L’esplosione è delle 8 e 46 di mattina; la prima Ansa esce alle 9 e 37, quasi un’ora dopo”. “Un’ora, per una notizia, di questi tempi, è un’eternità, è come dieci anni”. “Mentre il primo tweet è di soli tre minuti dopo, alle 8 e 49. Il tweet viene immediatamente intercettato dai “sensori” di H24. Pochi minuti dopo, i primi scatti e i primi video, di ignari vicini di casa o passanti, erano su Facebook. Anche qui, la segnalazione arriva al “grande orecchio” di H24. Da qui scatta la caccia (low cost) alla notizia: si  manderà un videomaker di fiducia, immediatamente, sul campo, oppure si contatteranno semplici utenti di Facebook e Twitter. Così è stato per i recenti incendi in Sicilia: “Che facciamo? Andiamo lì, prendiamo un aereo e poi un fuoristrada, ci mettiamo almeno tre ore e mezzo. Non avrebbe senso”, sempre Parissone. “Invece, su Facebook abbiamo trovato un signore di Cefalù che fa l’ingegnere della Vodafone, gli scriviamo su Facebook, ci mettiamo d’accordo, gli mandiamo la nostra app, lui la scarica e trasforma il suo smartphone in un centro di produzione, ci manda il video”. “Essendo della zona, poi, conosce il parroco, il sindaco, sarà in grado di fare un racconto migliore di tanti altri, soprattutto meno costoso e più veloce”. Amen.

 

Un futuro di reporter diffusi, da blade runner della notizia, ci aspetta: “Tra poco arriveranno i telefonini 5G, chiunque potrà produrre video in Hd”. Le tecnologie ci sono, costano sempre meno. “I pezzi li compriamo online, poi li montiamo e li modifichiamo noi a piacimento”. Al momento, una beautycam è parcheggiata a Roma, di fronte al ministero dell’Economia a via Venti Settembre, mentre una cartina mostra nella “people room” dei pallini luminescenti, sono i vari operatori al lavoro, tutti tracciati tramite il Gps nel loro telefono; e il pallino brilla sulla mappa della Capitale, operatore e il suo beauty son lì a riprendere una manifestazione; un altro pallino a Lampedusa, camera fissa sul porto, in posizione che altri non hanno (“sul terrazzo di un privato”), appena qualche nave della Marina si muove, su H24 saranno i primi a saperlo. Umani e umanoidi, tutti al lavoro: oltre ai robot e ai “volontari”, che ricevono un rimborso, ci sono infatti i collaboratori veri (questo nuovo lavoro del tele-citizen-giornalista pare liquidissimo anzi gassoso, e l’obiezione principale è: faranno naturalmente la fame. Invece pare di no; “anzi li paghiamo più della media, un videomaker dei nostri prende normalmente 2.500 euro”, beati loro). Devono avere determinate caratteristiche: “Persone che abbiano una estetica soprattutto cinematografica, devono parlare per immagini, non per testi o voiceover. Usando un linguaggio filmico”.  

 

A coordinare la produzione dei semilavorati, dal “maiale” della notizia diffusa alle salamelle di notizie pregiate, è Laura Guglielmetti, ad e produttore esecutivo, che è anche una dei tre soci in H24 nonché unica giornalista della società, si scopre solo alla fine (forse è in quota Wwf, a rappresentare la categoria in via di estinzione). Di fronte a una parete di 19 monitor, sintonizzati su Sky, sulla 7 e su altri old media, Laura tiene d’occhio il flusso delle news, il tabellone del loro Facebook modificato dove scorre la filiera di storie che non lo erano. Lei deciderà quelle che sopravvivranno e diventeranno dei video. Della squadra oggi mancano Sara e Désirée, ricercatrici: la prima viene dal Cern, è una fisica delle particelle e sta lavorando a un “ubik” che servirà come aggregatore di notizie apposito per Twitter (lavorare la materia prima che gira su Twitter è particolarmente utile, sul palinsesto che cinguetta ogni giorno girano 2,1 milioni di notizie, tutta roba assai pescosa). Désirée invece è statistica. In un’altra saletta segreta ci sono altre ragazze che lavorano a un nuovo progetto di docufilm e webserie. E’ un nuovo filone su cui H24 punta molto anche per ingrandirsi, e per fare questo cerca nuovi soci, soprattutto un partner industriale-editoriale che riesca a supportare anche i grandi investimenti necessari per comprare le masse di big data e notizie grezze, da raffinare poi nei preziosi derivati. Comprare i metri cubi di notizie grezze costa infatti tanto: “52 mila euro al mese, oltre 600 mila l’anno, solo per Twitter”. Se poi qualcuno vuole mandare un cv è ben accetto, naturalmente con un’avvertenza: astenersi giornalisti.

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