“I conservatori guardano con nostalgia all’èra di Reagan, che secondo loro ha fatto riconquistare la magica fiducia in se stessi e nell’America” (© 1985, Ronald Reagan Library)

L'America di mezzo

Trump pesca nel vuoto che si è creato tra lo stato e le persone E’ la tesi di Yuval Levin, conservatore illuminato ma perdente.

Su un comodino c’è una pila di libri che magnificano la crescita dell’America, a dispetto di tutti i luoghi comuni sulla depressione. L’America, affermano questi saggi, è largamente la prima potenza economica e militare, l’innovazione tecnologica va a tutto vapore, estrazione e produzione di energia sono a livelli mai visti, i grandi centri universitari attirano sempre più cervelli, il settore bancario è tornato forte, il sistema è resiliente e ha dimostrato di avere gli anticorpi per debellare le patologie che occasionalmente lo aggrediscono con singolare virulenza. Con la sua cultura pop e i prodotti di massa, dal CrossFit a Snapchat, continua a conquistare a mani basse l’immaginario collettivo globale. Come quello passato, anche questo è un secolo a trazione americana, e non c’è motivo di pensare che il prossimo sarà diverso. Le cassandre possono mordersi la lingua.

 

Sull’altro comodino c’è una pila di libri che deplorano la decrescita dell’America, proprio come impongono quelli che non sono luoghi comuni ma ferree leggi della storia. L’America, obiettano questi altri saggi, è economicamente sempre più diseguale, il divario nei livelli di istruzione è insopportabile, contrariamente a quanto dicono i numeri ufficiali, la disoccupazione reale è a livelli europei, il valore degli stipendi è bloccato dagli anni Settanta, la delocalizzazione cresce, tensioni razziali che sembravano in via di smaltimento sono riaffiorate a Ferguson per poi espandersi a macchia d’olio in tutto il paese, la Silicon Valley è una bolla, Detroit un buco nero, il debito studentesco ha superato il miliardo di dollari, l’avventurismo militare della guerra al terrore a mostrato i suoi limiti e il grande impero deluso s’è rassegnato al disimpegno. Il ritratto della decadenza americana è scritto in un mondo in via di frammentazione.

 

Serve un terzo comodino, o forse un’altra camera da letto, per l’ultimo libro di Yuval Levin, “The Fractured Republic”, che non offre un democristiano esercizio di equilibrismo fra la speranza e il declino, ma ne indaga il segreto legame: “La vita in America va sempre meglio e peggio allo stesso tempo”. Il grande progresso americano degli ultimi decenni non è un prodotto a costo zero, la “traiettoria di un crescente individualismo, diversità, dinamismo e liberalizzazione” si paga con una diminuzione di “solidarietà, coesione, stabilità, autorità e ordine sociale”; una crescente resistenza al conformismo s’accompagna con la precarietà dei legami sociali, la meritocrazia partorisce uno svilimento del senso della solidarietà, l’esaltazione del pluralismo deprime la tradizione. In questo gioco a somma zero non c’è, né potrebbe esserci, un’opposizione radicale fra l’America trionfante e quella depressa, c’è soltanto un paese votato all’unità – stabilire una “more perfect union” è lo scopo supremo della Costituzione – che tende inesorabilmente verso la frammentazione.

 

Yuval Levin è un conservatore perdente. Giovane, moderato, secchione, direttore di un serissimo quadrimestrale di policy, National Affairs, l’erede ideale del Public Interest fondato da Irving Kristol, Levin è un raffinato animale da think tank, un intellettuale che spiega la polarizzazione politica con il grande dibattito fra Edmund Burke e Thomas Paine e mette in guardia dalla tirannia della ragione scientifica applicata a qualsiasi oggetto. Ha lavorato nell’amministrazione di George W. Bush, ed è stato nello staff del consiglio presidenziale di bioetica. E’ una mente sintetica versata per la decrittazione di fenomeni complessi, non per suscitare un seguito militante. La sua corrente, quella dei conservatori riformisti o “reformocon”, è piena di giovani brillanti con il papillon e una superba preparazione culturale che si sono messi in testa di ripensare l’assetto di un conservatorismo che non si è mai evoluto dalla sua versione reaganiana. Volevano farne la versione aggiornata e raffinata, magari cool, per traghettare la destra americana fuori dai complessi nostalgici degli anni Ottanta, sono stati travolti dalla sua versione semplificata e tamarra, che sospira rimembrando gli anni Cinquanta: Donald Trump. Levin e compagni, che abitano nei centri studi più che nelle segreterie politiche, rappresentano la razza conservatrice più lontana da quella di Trump, anche per ragioni anagrafiche – sono i primi pensatori della destra a non essere baby boomers – e sebbene non abbia scritto un libro per spiegare il ritorno di una forma ideologica nazionalista-nativista, finisce con lo spiegare le ragioni profonde che lo hanno permesso e alimentato.

 

La repubblica fratturata di cui parla Levin non è il paese sclerotizzato e manicheo dove progressisti e conservatori sono sempre più lontani, non si dialoga più, ogni legge di bilancio si trasforma in un ricattatorio gioco allo “shutdown”, la chiusura dei servizi federali, al Congresso non si parla più e l’avversario è un diabolico nemico. L’autore parla di un allontanamento fra l’individuo e lo stato, con la conseguente scomparsa di tutto ciò che c’è in mezzo. “Dobbiamo capire la società non soltanto in termini di individui e stato, ma anche di quello che sta nel mezzo. L’enorme spazio fra la persona e lo stato è il luogo in cui vive la società. E’ lì che sono le famiglie, le comunità, l’economia di mercato”, scrive Levin. Lo spazio vuoto fra la persona e un’autorità impersonale e rarefatta è lo spazio della frammentazione, è quel fatale luogo di atomizzazione dove gli americani hanno preso a giocare a bowling da soli, secondo la famosa immagine che Robert Putnam ha usato per catturare la profonda solitudine della contemporaneità. E’ una crisi delle strutture sociali intermedie, della famiglia, delle chiese, dei quartieri, dei sindacati, delle scuole, dei contesti che hanno come scopo l’aggregazione e la condivisione di significato, non soltanto la produzione o il consumo di merci. Luoghi di innovazione come la Silicon Valley mostrano che la vivacità dell’iniziativa individuale non è stata messa sotto scacco né frenata dalla più grande crisi dopo la Grande depressione, e non è un caso che sia diventato l’incubatore di un pensiero paralibertario e profondamente individualista, dove la relazione è stata sostituita dalla connessione.

 

Non stupisce nemmeno che le grandi aziende tecnologiche incarnino un’ambiguità; da un parte sono centri di valorizzazione dell’ingegno umano nella sua forma più creativa e pura, dall’altra vengono percepiti come paranoici grandi fratelli che controllano le vite dei sudditi-utenti. L’ambivalenza si ripropone anche a livello economico: Palo Alto è la terza città americana per reddito pro capite, ma a due passi dalle ville dei manager ci sono aree di disagio e povertà. Sono i paradossi della società fratturata. A livello dello stato il disegno delle istituzioni e la continuità garantita dalla burocrazia permette una tenuta sostanziale della struttura, ma il potere è sempre più distante, invisibile, senza volto. Le “istituzioni mediatrici” sono in dissoluzione, e non si tratta soltanto della famiglia ma di quel “mix fra dipendenza verso gli altri e obbligo nei loro confronti” che rende l’alterità un elemento indispensabile per la realizzaizone dell’identità. Detto altrimenti: l’America ha abbandonato un’antropologia della relazione, rimpiazzandola con surrogati individualistici oppure burocratici che rivelano facilmente la loro insufficienza. La crisi non è soltanto economica o politica, è uno stress test per la nozione di “animale compagnevole”, secondo la perfetta volgarizzazione dantesca dell’aristotelico “zoon politikon”.

 

Si sente, nel ragionamento di Levin, tutta la forza del pensiero comunitarista dei Russel Kirk e dei Robert Nisbet, per non dire di Alasdair MacIntyre e di quell’ultima, profetica pagina di “After Virtue” in cui il filosofo invoca la necessità di un apparato monastico adeguato al mondo contemporaneo per fermare la barbarie. Affiorano spesso le nozioni, ormai sbiadite, di solidarietà e sussidiarietà, il legame come fattore essenziale della persona è riproposto secondo direttrici che si sovrappongono ai più recenti ragionamenti di Putnam ma anche alle osservazioni di andamento sociologico di David Brooks. Per sopportare la frammentazione sociale e antropologica, spiega Levin, gli americani di destra e di sinistra giudicano il ripiegamento nostalgico un analgesico efficace: “I liberal guardano all’età dell’oro del Dopoguerra, che credevano incarnasse la formula per la liberazione culturale contornata dalla sicurezza economica. I conservatori guardano con nostalgia al boom dell’èra di Reagan, che secondo loro ha salvato il paese dalle patologie economiche e ha fatto riconquistare la magica fiducia in se stessi e nell’America che aveva animato i leader della metà del secolo”, scrive Levin. La storia la scrivono i vincitori, e anche la storia della società americana del dopoguerra in poi l’hanno scritta loro: i baby boomers, dominatori incontrastati della scena che sono politicamente eterogenei ma uniti da un percorso comune, dall’infanzia negli stabili e tradizionalisti anni Cinquanta alla giovinezza incorniciata dalle promesse di rivoluzione dei Sessanta, fino alla grande disillusione degli anni Settanta e alla ripresa degli Ottanta, quando mettevano su famiglia ed erano preoccupati più dalle tasse che dalle prospettive della rivoluzione. Liberal e conservatori hanno nostalgia di decenni diversi, ma lo sguardo è comunque rivolto all’indietro.

 

L’idea è che la società americana è stata, un tempo, in grado di superare il paradigma della frantumazione che definisce l’oggi, e la soluzione più semplice appare quella di ripristinare le condizioni di un contratto sociale che è stato rescisso. Si tratta di riesumare, non di rinnovare. Sullo spartito della nostalgia canta a pieni polmoni Trump, boomer di prima infornata che non vuole fare grande l’America ma vuole farla grande “again”, una volta ancora. Trump parla di un passato arcadico che ha corrispondenze assai vaghe nella realtà, ma sa che il pensiero nostalgico è dotato di potenza prorompente, specialmente su un elettorato che soffre di un processo di atomizzazione sociale coltivato per più di cinquant’anni. Fragili e soli come sono, gli americani che giocano a bowling da soli sono più sensibili ai richiami di un’antica mitologia. Secondo Levin, “in assenza di un sollievo alla propria frustrazione, un crescente numero di elettori opta per votare semplicemente chi incarna o dà voce a quella frustrazione”, dove l’insoddisfazione “è giustificata”, mentre la “fiducia a Trump non lo è”, perché Trump “non ha il carattere, il temperamento, l’esperienza e la visione del mondo per diventare il presidente degli Stati Uniti”. Trump agita false promesse, dice Levin, ma le frustrazioni sociali su cui poggiano sono tutt’altro che peregrine.

 


Donald Trump (foto LaPresse)


 

Una delle attività più praticate dagli osservatori di Trump è la ricerca della singola causa o dell’ordine di cause che lo hanno portato a conquistare la candidatura nel partito di Abraham Lincoln; l’attività in questione è un misto fra la l’interpretazione dei sogni e i tarocchi, e dagli oracoli sono venute fuori le tesi più disparate. Trump è un prodotto della frustrazione economica, una scheggia fascista nel cuore d’America, è la reincarnazione di Nixon, è il figlio del conflitto razziale mai sopito, è la conferma del dominio assoluto dello spettacolo e del reality, è l’uomo della rabbia e della pancia, del fegato e del naso da turarsi in caso di necessità, è la reazione sboccata alle leggi del politicamente corretto,è l’erede di una grande tradizione populista che scorre nelle vene dell’America. Ogni concausa ha una sua dignità e un suo ruolo nella spiegazione di un fenomeno multistrato, ma Levin è il primo in questa stagione di letture e riletture della contemporaneità americana a tentare un affondo antropologico. Il problema non sono (soltanto) le condizioni in cui gli americani vivono, ma il modo in cui gli americani si concepiscono, se atomizzati e solitari sovrani dei propri destini o parti di comunità che veicolano significati e sorreggono un patto sociale altrimenti insostenibile. I due poli magnetici di questo schema sono lontani ma strettamente dipendenti e in cerca di un equilibrio ideale. Quando il paese si sbilancia verso uno, la società si sgretola dalla parte opposta, e viceversa, mentre la gente là fuori coltiva il sogno illusorio di riportare le lancette della storia al tempo mitologico in cui la società americana era in equilibro perfetto.

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