“Confidenze erotiche” e “letture piccanti” anche sui portali che due cliccate più in là offrono consigli per la pulizia dei vassoi d’argento (sopra, il disegno per una copertina dei primi anni 50)

La pornonoia

Fabiana Giacomotti

Lisa Hilton, dopo le “Sfumature”: le donne hanno rilanciato un genere letterario. Fatto di immaginario da film hard e lessico d’anteguerra. Noi donne abbiamo sempre letto racconti erotici, forse ne siamo state anche le principali consumatrici (vedi la Bovary).

Il cattivo sesso è un accidente possibile nella vita di tutti noi, no gender e indecisi compresi. Capita, raramente si sceglie, almeno fra chi non lo pratica per mestiere. Spendere dei soldi per leggere del cattivo sesso è però uno di quegli errori diabolici che non dovremmo commettere neanche una volta, noi donne specialmente che, almeno a giudicare dal numero e dalla tipologia di libri erotici in circolazione dopo il fenomeno delle “Cinquanta sfumature” e dei suoi centoventicinque milioni di copie vendute, a un passo da classici come “Don Chisciotte”, “Il piccolo principe” e “Harry Potter”, sembriamo essere rimaste le uniche ad appassionarci al genere. L’abbiamo, addirittura, rilanciato, finendo per confermare perfino le più banali teorie psicologiche sui sensi che attiveremmo di preferenza per eccitarci, e il numero di siti di racconti erotici gratuiti palesemente indirizzati al pubblico femminile dovrebbe darcene la misura anche senza consultare le classifiche librarie o gli algoritmi di Google.

 

Si tratta, perlopiù, di robaccia, che mescola il classico immaginario da film hard, quello che ufficialmente sdegneremmo per cercare situazioni più consone alla nostra sensibilità femminile, con un lessico d’anteguerra che offre inaspettati risvolti comici e forse qualche suggerimento sulle fonti che l’hanno ispirato. “Confidenze erotiche” e “letture piccanti” si trovano perfino sul portale alfemminile.com che due cliccate più in là offre consigli per la pulizia dei vassoi d’argento e il resoconto fotografico completo delle ballerine con i lacci alla caviglia tanto di moda questa stagione. Per leggere di fremiti e penetrazioni multiple, bisogna però bypassare la pubblicità di un rasoio elettrico, e ognuno ne tragga le conclusioni che preferisce. Sono scritti davvero male, ma non crediate che i pochi euro con cui vengono ricompensati, in genere tre o cinque più una percentuale sul numero di copie scaricate, siano all’origine della loro sciatteria compositiva. I cataloghi delle stesse case editrici che alla Fiera del Libro di Torino accolgono Guido Tonelli ed esplorano il bosone di Higgs, altrove elencano titoli come “Le maialine romantiche” e “Zone umide”, ma dopotutto neanche i dom Bougre portieri dei Certosini, le Veneri nel chiostro e le Thérèse “filosofe”, bestseller dell’Ancien Régime che nella definizione di filosofia includeva anche le dissertazioni fra le lenzuola e che nel gergo librario indicava il pericolo di censura, erano questi gran capolavori di composizione. Cercando fra gli archivi della Societé Typographique de Neuchatel, il maggior centro di rivendita all’ingrosso dell’epoca che era molto convenientemente piazzato fra la Svizzera e la Francia, si scoprirebbe non erano rari gli ordini di “filosofia” da parte di lettrici. Insomma, noi donne abbiamo sempre letto racconti erotici, forse ne siamo sempre state le principali consumatrici, vedi Flaubert che ne piazza continuamente qualche copia in mano a Emma Bovary, e a dispetto del piagnisteo con cui abbiamo ammorbato convegni, riviste e dibattiti televisivi, invocando un eros letterario che facesse finalmente al caso nostro e per l’amor del Cielo rispettasse-la-nostra-sensibilità, al momento di farlo ci siamo adagiate su tutti gli stereotipi priapici che ci sono capitati fra le mani, servendoli come docili concubine.

 

L’ultimo, che tante ragazze non riconoscono avendo approcciato l’eros letterario con la Anastasia delle “Cinquanta sfumature”, che è una sorta di Justine sadiana con mire matrimoniali austeniane, è quello della dominatrix, la Venere in pelliccia, la Carmilla assetata di sangue e di denari, cioè un classico del fine Ottocento impastato di sangue e di femmes fatales, che però ne scriveva con maggiore ricchezza e intuito e soprattutto con quell’impasto di morbosità, spirito iconoclasta e vapori di oppio che rendevano la scopata, singola o multipla che fosse, qualcosa di diverso dalla infinita riproduzione di una meccanica motoria. La nuova dominatrix delle classifiche, Judith, ambiziosa stagista presso una casa d’aste londinese, è invece pura meccanica e macelleria di quartiere. Malauguratamente, ho voluto leggerne le avventure, per cui una copia del best seller “Maestra” di Lisa Hilton, rilegata con la riproduzione di un Fontana in quel punto di rosso che i rotocalchi alla buona definiscono “peccaminoso” , continua a balzarmi all’occhio, accusatrice, perfino dall’anfratto dello scaffale più basso della biblioteca dove l’ho infilata, indecisa sul da farsi benché certissima di non poterle trovare posto su quelli che ospitano il meglio della letteratura erotica occidentale e islamica classica, che sono invece altissimi e inaccessibili senza uso di scaletta perché, da mamma all’antica, preferivo restassero fuori dal campo visivo di mia figlia. Sono rimasti lì anche adesso che ha trent’anni e che vive da un pezzo in una casa sua senza aver mai neanche tentato di scalare i quattro gradini necessari per raggiungere Ibn Hazm con i suoi dubbi sull’amore omosessuale, l’Aretino con il suo spregio delle donne, il cialtronissimo Restif de la Bretonne e dama Izumi Shikibu che nel Giappone heian spasimava solitaria ma attivissima per l’amante lontano (“il mio guanciale è gelato e guarda! Nella mattina un mondo bianco di brina”). Ma è pur vero che la sua adolescenza digitale è stata diversa dalla mia analogica, per cui è possibile che si sia formata su YouTube e su quell’ipotetico immaginario maschile al quale noi donne abbiamo comunque contrapposto solo la pallida regista svedese Erika Lust, che gira film più noiosi di quanto il suo azzeccatissimo cognome lascerebbe supporre.

 


Lisa Hilton (foto dal suo sito)


 

Cinque anni fa, sfruttando quel po’ di apprendistato digitale che ho svolto negli anni per necessità, avevo sbirciato sul web e poi evitato tutta la saga delle “Cinquanta sfumature”. Questa volta ho fatto l’analogica e sono stata infinocchiata dal nome della casa editrice stampato in copertina. Longanesi mi pareva una garanzia, di spirito innanzitutto, e poi Pietrangelo Buttafuoco aveva appena curato una strepitosa antologia di detti e scritti del fondatore. Questa Hilton per caso doveva dunque possedere qualche numero; anzi, avrebbe riscattato la sua omonima sciroccata e ormai largamente ignorata degli Hilton che contano. Mi sbagliavo. Non so perché il critico del Times abbia così insistentemente tessuto le lodi di “Maestra”; probabilmente, prima di dargli una scorsa aveva fatto una di quelle lunghe pause pomeridiane al pub da cui i colleghi d’Oltremanica tornano rubizzi, con la cravatta macchiata, a mezz’ora dalla chiusura redazionale delle pagine e dunque inevitabilmente un po’ stressati.
Di certo, non c’è modo di divertirsi o di sentirsi minimamente intrigati da questo computo ragionieristico di sangue-e-sesso-e-riscatto-sociale innestato su una conoscenza dell’arte men che modesta. Ogni capitolo ha l’esatta pianificazione e prevede lo stesso numero di colpi di scena necessari a un serial televisivo di fascia bassa per garantirsi i picchi di audience fra una pausa pubblicitaria e l’altra, e adesso che la Hilton ha comunicato di aver venduto i diritti cinematografici del romanzo se ne comprende la ragione.

 

La trama è implausibile, a tratti grottesca. Una sequenza ripetuta, talvolta reale, in semplice copia-incolla, di “colpi” che Judith mena con precisione, un capitolo dopo l’altro: un colpo al quadro da trafugare e vendere, uno di pistola alla testa dell’amante occasionale e uno al clitoride e senza neanche togliersi i guanti di gomma da massaia. Lei, infatti, è il tipo di ragazza che fa le cose per bene e pulisce anche il water (non sto citando la vecchia battuta pubblicitaria; quella Judith fa schizzare sperma e cervella ovunque, ma si premura di tirare sempre lo sciacquone). Provare un brivido per quelle smargiassate non è dunque possibile, emozionarsi men che meno, anzi “let alone” come direbbe l’autrice che, dalle note biografiche sul risguardo, risulta essersi laureata a Oxford e poi aver vissuto a New York, Parigi e Milano, dove con qualche probabilità ha visitato diverse gallerie d’arte, ma con assoluta certezza tutte le boutique del Quadrilatero e di avenue Montaigne, perché non c’è una sola singola volta in cui Judith e le sue amiche non ci facciano sapere di quale marca siano le mutande che indossano prima di togliersele.

 

Due sequenze dal libro aperto a caso: “Carlotta si stizzì quando una chiappa impazzita rischiò di far cadere gli Oliver Peoples dal naso di Hermann”. “Indossai uno slip Bensimon stile anni Settanta aperto sull’inguine” (la virgola dovrebbe esserci ma no, non c’è). Negli ultimi anni, mi sono imbattuta altre volte in una specialista di redazionali in forma letteraria, domandandomi sempre se, disseminando le pagine di griffe, l’autrice voglia segnalarci la sudditanza del personaggio alle insegne più banali del benessere, oppure se miri a qualche bonus da parte delle marche citate, magari una sponsorship per una presentazione, oppure l’invito a una sfilata, un paio di scarpe, una borsa o chessò io. In questo caso, oscillo in perfetta buona fede fra i due estremi, sebbene mi sembri di ricordare che nessuno fra i grandi scrittori che arrotondavano con la pubblicità, nemmeno D’Annunzio che pure era uno specialista del genere, abbia mai infilato il nome dei clienti nei propri scritti. Se non ho ancora regalato “Maestra” alla moglie del portiere è perché è filippina e, nel caso riuscisse a decrittarne qualche parola, non vorrei si facesse una cattiva opinione di me. Se non l’ho regalato a un’amica, è perché non vorrei che si facesse una cattiva opinione dei miei gusti letterari. Buttarlo nella differenziata della carta straccia mentre è in vetta alle classifiche mi spiace, rispetto chi è riuscito a conquistarsela adesso come non credo venisse rispettata la madame Riccoboni che nel Settecento riempiva Parigi di libri sentimentali apprezzatissimi da Denis Diderot, sempre generoso con chi non avrebbe potuto metterlo in ombra.

 

La costa di “Maestra” continua dunque a fissarmi con il suo rosso peccaminoso dall’anfratto della libreria come l’occhio di Polifemo. Io, invece, mi domando perché noi donne si sia riuscite a perdere anche questo treno dopo averlo inseguito e invocato come la Théodora Kats di Marguerite Duras che per due anni attende ogni giorno in una stazioncina dell’Europa dell’est l’arrivo del treno per Auschwitz, inappuntabile nel suo vestito bianco, naturalmente sperando che non si fermi mai. Di erotismo, la Duras aveva scritto bene fino all’ultimo, e quel suo romanzo breve che intreccia la storia mai compiuta della bella profuga ebrea e la sua, compiutissima, di amante già anziana di un ragazzo bello e troppo malinconico è lì a dimostrarlo. Leggetelo, “Yann Andréa Steiner”, se riuscite a trovarlo in uno dei remainder che offrono uno spiraglio di autonomia rispetto alle troppe catene librarie mass market: venne pubblicato nel 1992, nel pieno del decennio che aveva dato una scossa alla scrittura erotica femminile, a meno di non voler considerare tale la “scopata senza cerniera” di Erica Jong nei Settanta o l’“Histoire d’O” che però a lungo non era stato rivendicato ed era comunque rimasto un caso isolato. Se volete passarmi il termine dato l’argomento, fu un periodo davvero fecondo. In rapidissima successione, una nouvelle vague franco-spagnola portò infatti all’attenzione mondiale un erotismo donnesco greve ma per nulla becero, impastato anzi di incenso e delle occhiaie dei santi di El Greco: Almudena Grandes con “Le età di Lulù”, Alina Reyes con “Il macellaio” e fatto salvo il ridicolo film con Alba Parietti che ne era stato tratto e di cui la poveretta non aveva colpa, ma anche Lucìa Extebarrìa, per certi versi Isabel Allende con la sua allegra “Afrodita”.

 

Anais Nin, che per decenni si era lamentata (pure lei) di aver dovuto scrivere i racconti poi raccolti nel “Delta di Venere” in uno stile speditivo, crudo, per soddisfare il misterioso committente le permetteva di pagare i debiti di Henry Miller e se ne era vendicata nell’introduzione all’edizione del 1969 (“Caro collezionista. Vi detestiamo. Il sesso perde tutto il suo potere e tutta la magia quando diventa esplicito, abusivo, quando diventa meccanicamente ossessivo. Il sesso deve essere mescolato di lacrime, di risate, di parole, di promesse, di scenate…”), avrebbe potuto dirsi soddisfatta. Nel 2001, l’incipit della “Vie sexuelle” di Catherine M. (“enfant, j’ai beaucoup été preoccupée par des questions de nombre”), chiaro omaggio alla prosa proustiana (“longtemps je me suis couché de bonne heure”), ci aveva del tutto tranquillizzate: potevamo rilassarci e godercela. Catherine Millet era poi un nome reale, significativo e incontestabile nel mondo dell’arte contemporanea; dunque, se si faceva rovesciare sul cofano dell’auto al Bois de Boulogne per una gang bang lo faceva da par suo, tutti a comando. Judith ogni tanto si prende perfino un pugno in faccia. Però ordina gin tonic e Martini come nessuna e compra un sacco di vestiti con i soldi di quelli che ammazza. D’altronde, lo diceva anche l’immortale Cesira della Franca Valeri: “E’ la prontezza nell’ordinazione che fa la signora”.