Xi Jinping, presidente della Cina e segretario generale del Partito comunista. Fin dal suo primo discorso pubblico, ha invocato la realizzazione di un “sogno cinese”

Quel che sogna Xi Jinping

Eugenio Cau
Il presidente cinese usa gli strumenti del Grande Timoniere per dare forma a una nuova visione nazionale. Ma così rischia di ripetere antichi orrori. Intervista a Kerry Brown, autore di "Ceo, China"

Per Thomas Edward Lawrence, l’umanità intera si può dividere tra sognatori di notte e sognatori di giorno. “Tutti gli uomini sognano. Non però allo stesso modo” – scrisse Lawrence nel suo “I sette pilastri della saggezza” – “Quelli che sognano di notte nei polverosi recessi della mente si svegliano al mattino per scoprire che il sogno è vano. Ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, giacché a essi è dato vivere i sogni a occhi aperti e far sì che essi si avverino”. Xi Jinping, il presidente della Cina e segretario generale del Partito comunista cinese, non dà a prima vista l’idea di essere un sognatore a occhi aperti. L’intera classe dirigente cinese ha aspirato per anni alla massima omologazione, che passa dal linguaggio usato nei discorsi pubblici alle cravatte, fino alla tintura per capelli. Non è conveniente, si credeva fino a poco tempo fa, che qualcuno dentro alla leadership inizi a sognare troppo, o che la Cina stessa ricominci a sognare. Mao Zedong era stato un sognatore a occhi aperti. Di più, era stato un grande visionario, e decine di milioni di morti sono lì a dimostrare la verità degli ammonimenti di Lawrence.

 

Ma Xi Jinping, fin dal suo primo discorso pubblico, ha invocato la realizzazione di un “sogno cinese”, e iniziato a usare armi retoriche e propagandistiche che erano rimaste inutilizzate per quarant’anni. Kerry Brown, professore di Chinese studies e direttore del Lau China Institute al King’s College, associate fellow alla Chatham House di Londra e autore di “CEO, China: The Rise of Xi Jinping”, uscito il mese scorso per i tipi di I. B. Tauris, sostiene nel suo libro che Xi Jinping potrebbe essere uno dei sognatori di giorno immaginati da Lawrence (è Brown a riprendere la citazione del grande inglese). Ma il sogno a occhi aperti di Xi è inedito, e diverso da quello di Mao. Da quando Xi Jinping è salito al potere nel 2012-’13, i media internazionali si sono occupati del presidente cinese con un’attenzione che rasenta l’ossessione. Prima di lui la Cina, con la sua crescita economica stellare e un’influenza internazionale che rivaleggia con quella degli Stati Uniti, non aveva un protagonista che potesse rappresentarla degnamente sul palcoscenico internazionale. Il predecessore di Xi, il presidente Hu Jintao, nel migliore dei casi era considerato “legnoso” (l’ha scritto l’Economist), nel peggiore un freddo robot, ed è servito Xi per ravvivare la curiosità dei giornalisti internazionali, che prima lo hanno incasellato, secondo una dicotomia tradizionale, come leader riformista, poi hanno assistito eccitati a un processo sempre più intenso di accentramento del potere e di repressione del dissenso.

 

Prima i media hanno iniziato a definire Xi “il leader più potente dai tempi di Deng Xiaoping”, il successore di Mao che trasformò la Cina in una economia di mercato. Poi il termine di paragone per Xi è passato di livello e di ferocia, e il presidente cinese ha iniziato a essere “il più potente dai tempi di Mao” (o meglio, “il più autoritario dai tempi di Mao”: il suggello a questa definizione l’ha data l’anno scorso Evan Osnos in un articolo magistrale sul New Yorker). Il paragone con Mao è diventato sempre più stringente man mano che si avvicinava il cinquantesimo anniversario dell’inizio della Rivoluzione culturale, che è caduto il 16 maggio, tanto che due dei più importanti magazine del mondo, l’Economist e il Time, sono usciti di recente con copertine quasi identiche (colore rosso e iconografia comunista ampiamente dominanti) che suggerivano esplicitamente l’identificazione di Xi come il nuovo Mao. La definizione più precisa l’ha azzeccata il settimanale britannico, che citando il professore australiano Geremie Barmé ha chiamato Xi “chairman of everything”, presidente di tutto, attribuzione che gli rimarrà attaccata addosso per molto tempo.

 

Il ritratto che ne esce è quello di un leader isolato e autocratico, che ha creato una serie di commissioni dalle quali emanano le decisioni più importanti per il futuro del paese e poi se ne è attribuito la presidenza (delle otto principali commissioni del Partito, Xi ne presiede quattro, tra cui quelle fondamentali per le Riforme e sulla Sicurezza nazionale), che ha iniziato la guerra alla corruzione solo per distruggere i suoi nemici interni, che ha riesumato il culto della personalità di Mao per assicurarsi la permanenza al potere. Ma Xi, appunto, è un sognatore di giorno. E se tutte queste cose sono vere, l’interpretazione che da esse può derivare può essere fondamentalmente diversa. In “Ceo, China” (a sinistra la copertina del libro), Kerry Brown scrive che Xi Jinping “is no Mao”, e che per comprendere la vera portata del suo potere, che pure è più ampio di quello di gran parte dei suoi predecessori, la domanda fondamentale è: dove risiede davvero il potere in Cina? A dispetto dell’immagine monolitica che la Cina cerca di dare di sé, anche lì, scrive Brown, il potere si incanala in mille rivoli diversi, che vanno dall’influenza delle famiglie dell’aristocrazia comunista alle industrie di stato ai dignitari locali. Ma un’entità campeggia su tutte, il Partito comunista. Anche il fortissimo Xi Jinping non sarebbe niente senza il Partito. “Ritengo improbabile che Xi Jinping stia creando un culto della personalità e una rete di potere intorno a sé basandosi solo su se stesso e sui suoi obiettivi personali”, dice Brown al Foglio. “I media, almeno quelli fuori dalla Cina, probabilmente non considerano abbastanza la relazione tra Xi e il Partito da lui guidato. In un certo senso è il Partito il vero autocrate nella Cina contemporanea, e Xi esiste al suo interno e attraverso di esso. E’ un’entità molto più complessa e molto più addentellata nella società del partito che esisteva ai tempi di Mao. La vera sfida è descrivere come Xi si relaziona con questa entità, nella quale ha un ruolo di leadership fortissimo, e all’interno della quale le sue politiche trovano un significato. Se non guardiamo al Partito quando cerchiamo di capire Xi, è come parlare di un piatto in una lezione di cucina senza parlare degli ingredienti”.

 

Il Partito comunista cinese (Pcc) basa la sua legittimità e la sua permanenza al potere, come è noto, su un contratto sociale non scritto che scambia il benessere economico con le libertà politiche, e in questo senso il Pcc del post Tiananmen esiste soprattutto come creatore di ricchezza. Di più: secondo Brown, il Partito comunista cinese è “il più grande creatore di ricchezza e benessere dei tempi moderni”, ed è per questo che nel suo libro individua in Xi l’amministratore delegato, il ceo, di questa gigantesca azienda. Il problema è che questo contratto sociale sta franando, sotto i colpi dell’avanzamento dell’economia di mercato e del rallentamento della crescita del pil. Brown ci dice che è questo il pericolo maggiore per il potere di Xi Jinping e di tutto il governo comunista: “La classe media emergente nelle città è la chiave della crescita economica futura della Cina. Ma man mano che la crescita del pil rallenta, la fedeltà della classe media diminuisce. La classe media è leale al Partito finché questo garantisce beni e vantaggi materiali, tangibili. Ma se il pil continuerà a rallentare, gli stipendi resteranno stagnanti, i prezzi saliranno, e l’economia inizierà a galleggiare, allora Xi è in seria difficoltà, e lo sono tutti i leader intorno a lui”.
La fine del patto sociale in Cina è preconizzata da molti come l’elemento che porterà al crollo del governo comunista, e nel processo doloroso di riforma e di trasformazione dell’economia in un sistema basato non più sulle esportazioni e sulla manodopera a basso costo ma sui consumi interni e sull’industria ad alta tecnologia, il Partito ha bisogno di trovare una nuova ragione di legittimità, meno tangibile di quella usata finora. Il presidente cinese, insomma, è il ceo di un’azienda in crisi di identità, in cerca di una ragione sociale, di un nuovo brand. E’ qui che entra in gioco la missione di Xi, il suo sogno. Ed è qui che rientra in gioco Mao.

 

La missione di Xi Jinping, e il suo sogno a occhi aperti, è dare al Partito comunista e alla Cina una “visione nazionale” capace di sostituire il contratto sociale che sta franando. Xi ha avuto in mente questa missione fin da principio, fin dal suo appello a realizzare il “sogno cinese”. Il problema è che un leader della Cina comunista odierna che voglia esaltare l’idealismo e l’unità ideologica dei suoi cittadini ha solo una cassetta degli attrezzi a sua disposizione: quella del maoismo. “Xi Jinping ha un compito difficile”, dice Brown. “Deve fare appello agli ideali del popolo e dare una visione della via che il paese deve intraprendere. Questo è ormai l’unico elemento unificante rimasto, il fatto che la gente crede ancora in una qualche idea di Cina, anche se nessuno riesce a definire le caratteristiche specifiche di questo ideale. Grazie al maoismo, Xi ha accesso a un corpo di idee di stampo nazionalista, simboli, storie che possono essere utili e che in gran parte del pubblico hanno ancora un’ampia risonanza. Ma deve stare attento a non far risorgere la parte più negativa dell’ideologia. Il maoismo è uno spirito malvagio se liberato. Potrebbe creare una volta di più divisioni e lotte nella società cinese. E Xi non ha a sua disposizione niente di simile al controllo brutale e violento di Mao, se questo dovesse accadere”. L’anniversario della Rivoluzione culturale, che pure il Quotidiano del popolo, giornale ufficiale del Pcc, ha definito un “errore da non ripetere”, rende più inquietante il ricorso sempre più frequente all’armamentario del maoismo. Se il Partito comunista, dopo la morte di Mao, ha istituito una serie di contrappesi e regole per evitare che altri sognatori di giorno salissero al potere, è perché tutti ricordano gli orrori del maoismo. I leader della generazione attualmente al potere più di tutti gli altri, in quanto hanno vissuto gli anni decisivi della crescita nel periodo più duro della Rivoluzione culturale.

 

Lo stesso Xi fu costretto a interrompere gli studi e fu inviato, come molti giovani di quell’epoca, a lavorare come contadino nella regione rurale dello Shaanxi. Suo padre Xi Zhongxun, ministro e alto dignitario dell’aristocrazia comunista, fu esiliato e torturato, la sua sorellastra si tolse la vita. Buona parte del Comitato permanente del Partito, l’organismo di sette membri al centro del potere in Cina, ha vissuto esperienze simili. Brown, che dedica una parte importante di “Ceo China” alla descrizione della vita e delle connessioni di Xi, ci dice che “la Rivoluzione culturale ha lasciato nella generazione di Xi attualmente al potere un marchio profondo, ha insegnato i pericoli dello zelo di una politica idealistica e i limiti della leadership carismatica. Ma almeno in superficie, i leader cinesi rimangono fedeli quanto meno alla memoria di Mao, se non al suo significato”. C’è un’ambiguità nella leadership cinese nei confronti dell’eredità maoista che si è fatta sempre più accentuata man mano che Xi ha approfondito la sua ricerca di una nuova visione per la Cina. Fino a ora, la costruzione di un nuovo ideale nazionale si è basata su un’accentuazione del culto della personalità, una propaganda sempre più insistente e dai toni sempre più vintage e sull’accentramento del potere nelle mani del presidente (da molti è citato anche un ritorno in auge del confucianesimo).

 

L’assunzione da parte di Xi di titoli onorifici come quello di “hexin”, tradotto dagli analisti anglosassoni come “core leader” e di “comandante in capo” sembrano indicare che la nuova visione nazionale della Cina dovrà passare direttamente per il corpo e l’autorevolezza di Xi, e questo rinnova in molti le preoccupazioni che il sistema oligarchico, caotico ma stabile, creato dopo la morte di Mao possa franare di nuovo. Kerry Brown respinge questa possibilità per una semplice ragione: il Partito. “Sono sicuro che all’interno del Partito emergerebbe una forte opposizione se Xi cercasse di istituire un governo autocratico in Cina. Le cose sono molto ambigue al momento, Xi è nel mezzo di azioni ed eventi che potrebbero portare alla creazione di un governo di un solo uomo, ma è anche possibile che stia semplicemente rafforzando e rendendo più centralizzate e coerenti le operazioni del Partito. Avremo un’idea più precisa tra 18 mesi, quando al 19esimo Congresso del Partito potrebbero apparire dei potenziali successori. Se non ci sarà nessuna figura papabile per allora, potrebbe darsi che Xi stia cercando una leadership perpetua come Vladimir Putin in Russia. Ma al momento questa possibilità è limitata”.

 

E’ ancora il Partito comunista, con la sua complessa frammentarietà, che consente di evitare l’accentramento eccessivo del potere. Questa complessità, secondo Brown, è anche uno degli aspetti meno considerati del cosiddetto “modello cinese”. Il trionfo di meritocrazia e autoritaria efficienza da molti elogiato in occidente, scrive Brown nel suo libro, in realtà è un “processo sconnesso e caotico”. “Il modello cinese in un certo senso è un mito”, ci dice Brown. “Certo, c’è una cultura della leadership nel Partito comunista, ma il governo è, come da ogni altra parte, un mix di pragmatismo, fortuna e metodi imparati dalla storia passata. Non è un modello vero e proprio, ed elogiarlo come un meccanismo perfetto ed efficiente è un grave fraintendimento”. Xi Jinping si trova a presiedere questo processo caotico. Il suo sogno, forse, è solo di imporgli un ordine.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.