Barbara D’Urso, il volto circonfuso dalla “luce di quattrocento lampadine”, come rappeggia Fedez nell’irresistibile “Non c’è due senza trash”

C'era una volta il trash

Fabiana Giacomotti

Barbara D’Urso l’ha superato domenica scorsa quando ha messo in scena una rissa con gli schiaffi in diretta. Alberico Lemme, farmacista sedicente bio-scultore, ha definito “cicciona” una gigantessa di 190 chili, che se n’è avuta a male.

Per sua fortuna, lo scorso weekend la star del fumetto Zerocalcare ha deciso di andare al Salone del libro di Torino e non da Barbara D’Urso a raccontare di aver rappresentato sua madre nelle strisce come una gallina “perché è grossa”. In quel caso, avrebbe infatti rischiato a sua volta un paio di sberle dalle due energumene che, più o meno nelle stesse ore, hanno tracimato dagli scranni riservati al pubblico di “Domenica Live” per schiaffeggiare Alberico Lemme, farmacista sedicente “bio-scultore”, che temo sia un’altra branca della para medicina da rotocalco popolare sulla quale il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin non interviene mai e la tv dell’ultratrash figurarsi, anzi. A quanto ho letto e visto nei video ancora scaricabili dal web, perché Mediaset ha esercitato il proprio insindacabile diritto al copyright rimuovendo il video da molti dei siti che l’avevano rilanciato per moralizzarci sopra, Corriere della Sera compreso, Lemme ha definito “cicciona” l’energumena più giovane, una gigantessa di centonovanta chili di cui molti certamente attribuibili al diabete, ma insomma davvero imponente. Essendo l’uso dell’epiteto severamente proibito dalla polizia del lessico unico uniformato e corretto, al contrario per esempio di “emaciato” o “macilento” perché la magrezza sofferta non è considerata malattia socialmente invalidante mentre l’obesità sì, forse perché non valorizza i vestiti e non è chic, chissà, la gigantessa se n’è avuta a male. Da successiva ricerca, ho scoperto però che il farmacista Lemme riserva l’epiteto di “ciccione” a tutti i suoi pazienti: anzi, sembra sia il suo leitmotiv, la sua cifra professionale, nonché uno dei lemmi selezionati nell’universo semantico dell’offesa per assicurarsene la sudditanza psicologica secondo la triste prassi dei manipolatori di carriera, operativi peraltro in tutti i campi: è noto come una direttora della moda dal piglio autocratico facesse piangere la famosa stilista durante le prove di sfilata per garantirsi un nuovo ricco contratto di consulenza per la stagione successiva. Certamente non ignara di queste manovre e forse pronta a trarne partito, la colossa di “Domenica Live” si è dunque alzata dalla poltroncina minacciando di mostrare a Lemme come picchiasse una colossa come lei. Qualcosa, però, deve averla bloccata. Forse la sua timidezza di colossa; per cui, mentre cincischiava indecisa di fronte alla vittima che appariva in evidente attesa della punizione, probabilmente incerta su cosa il copione si aspettasse a quel punto da lei, in suo soccorso si è alzata rapidissima la madre, che ha debitamente schiaffeggiato il bio-scultore, dandogli del buffone e, mi è parso di capire, attribuendogli le proprietà di un’altra materia connessa alle attività dell’intestino umano, mentre la conduttrice inscenava un intervento risolutore. In sintesi e per l’appunto, una scena di merda. O forse no.

 


Madre e figlia contro Alberico Lemme: il momento degli schiaffi a “Domenica Live”


 

Se il trash ha confini continuamente abbattibili e superabili, e i programmi di Barbara D’Urso sono lì a dimostrarlo, il trash che sconfina su temi di salute presenta invece aree di rischio decisamente maggiori, per cui liquiderei la vajassata a telecamere accese per quello che è, cioè uno dei tanti brutti spettacoli che l’orchestratrice massima del trash dirige con quel tanto di consumata malizia perché le sfuggano spesso di mano (questa era l’ultima puntata della stagione, bisognava chiudere su un registro rumorosamente basso per forza) per focalizzarmi invece sull’aspetto più ridicolo, cioè più inquietante, del servizio: le scritte in sovrimpressione. Mentre le energumene appioppavano schiaffi di circostanza, Lemme si lanciava in invettive contro il “cervello delle donne” e la D’Urso si affannava a trattenerle perché picchiassero più forte come nei film di Bud Spencer (sono quasi certa che abbia rimpianto di non aver organizzato un miglior sonoro dietro le quinte, con le suole sbattute sul tavolo e le bistecche crude prese a pugni dai bravi fonici degli spaghetti western), le scritte annunciavano l’arrivo in studio di una “donna che ha perso venti chili” in pochi mesi e che forse “si sarebbe tolta la camicia per dimostrare” se “davvero la pelle si asciughi con un effetto lifting?”. Questo, non lo squallido siparietto delle due gigantesse, in realtà soddisfattissime della propria performance, era il dato preoccupante. Il richiamo al possibile miracolo, il destro offerto al bio-scultore per piazzare i propri servizi, le contro-accuse dello studio: in apparenza forti (“offende le donne e la sua dieta è pericolosissima”), in realtà deboli perché agitate in mancanza di un contraddittorio serio con un dietologo che porta il suo nome riconosciuto o con un medico nutrizionista.

 

Il punto non è dunque e non è solo Lemme, che pure frequenta la D’Urso ma anche “Porta a Porta” e altri programmi e sempre in mancanza di contraddittorio professionale, come non lo sono il suo ridicolo cravattino, i suoi occhiali di celluloide blu e quel suo ventre prominente che preme sotto la giacca, in palese contraddizione con le promesse della dieta. A rigore di logica, non lo è nemmeno la dieta Lemme in sé, che chiunque dotato anche solo di un’infarinatura in tema di nutrizione potrebbe smontare in poche battute: molti l’hanno fatto sul web, e non necessariamente per invidia, ma per coscienza. Il punto non sono i Dulcamara che sbarcano il lunario vendendo unguenti miracolosi, la letteratura e la musica ne sono pieni e in genere, Lemme escluso che somiglia vagamente a Cattelan senza possedere un briciolo del suo genio iconoclasta, sono personaggi simpatici come i loro obiettivi impongono. Il punto è la cassa di risonanza che programmi destinati al grandissimo pubblico offrono ai Dulcamara di questo decennio, ossessionato dall’ingestione del cibo e dalla sua espulsione, possibilmente senza conseguenze in entrambe le direzioni di marcia. L’orrore è lo spettacolo della salute, l’entertainment del benessere fisico offerto a una platea che solo in una percentuale minima, i cosiddetti “profili altamente scolarizzati” come confessa un autore storico della televisione chiambrettiana, Romano Frassa, gongola via twitter per il “trash su trash” continuando a sentirsi esteticamente superiore alla massa e sghignazzando divertito come i re di un tempo per le crudeltà inflitte ai nani e gli sberleffi dei guitti. La grande maggioranza, invece, continua a nutrirsi in perfetta fede dei brandelli di ricette e delle prescrizioni sommarie dispensate dai cerusici dei politici e i dietologi dei vip, l’acronimo che tutto suggella e tutto magnifica nel ridicolo. Non smette di ostinarsi a cercare risposte concrete nelle immagini offerte dal megaschermo piatto acquistato a rate zero interessi, sognando di sentirsi dare del “ciccione” a duecento euro al mese come Flavio Briatore e di entrare a sua volta nella fila dei “cadetti di Lemme”, che non è una metafora e neanche il titolo di un brutto romanzo a puntate ottocentesco, ma la definizione degli adepti alla dieta del farmacista di Desio come uno se lo immagina negli anni bui precedenti a questo inaspettato colpo del destino, intento a sfogliare trattati militari e libelli sull’arte di (mal) trattare le donne presi a prestito nelle biblioteche pubbliche della Brianza, ma così, tutto sommato sofisticato, forse me lo immagino solo io che in ogni panciuto e compiaciuto apoticario di provincia intravvedo un monsieur Homais.

 

La presunzione che il pubblico televisivo nella sua totalità sia in grado di decrittare la manipolazione e di riderne, e che dunque faccia parte della categoria che i ricercatori di mercato inquadrano nella formula del “cliente sempre più evoluto ed esigente”, per giustificare a imprenditori furibondi i mancati risultati dei loro direttori vendite, è del tutto infondata. Due mesi fa Bankitalia denunciava che sette italiani su dieci sono analfabeti funzionali, cioè non capiscono affatto quanto sono perfettamente in grado di leggere. Non so quale fosse la situazione nel 1961, quando Ettore Bernabei imponeva agli autori della Rai democristiana il rispetto assoluto per chi ne seguiva i programmi e l’analfabetismo reale sfiorava il dieci per cento. Il pubblico analfabeta di oggi, stimato in cinque milioni di persone che non sono pochissime soprattutto se si pensa che vi andrebbero aggiunti i cosiddetti analfabeti digitali, e sono centinaia di migliaia in più, pare più variegato e, per molti versi, ben più pericoloso. Perché, al contrario del pubblico di un tempo, nutre la certezza della comprensione. Crede di aver capito, si sente “scafato”, è certo di saper dominare i media. Ogni tanto cita perfino MacLuhan. Dunque, senza voler essere moralisti o sognare una televisione educatrice di coscienze e promotrice di cultura, che sarebbe una battaglia persa e oggetto di dileggio, ma anche per non sbagliare, opterei per il rispetto assoluto e una trattazione professionale almeno nei programmi dove in gioco non ci sono quattro finti naufraghi di cui sbirciare il pisello moscio o le tette rifatte, ma la differenza fra il dimagrimento e l’uricemia o una crisi glicemica potenzialmente mortale.

 

Pochi mesi fa, il reato di abuso della credulità popolare, articolo 661 del codice penale, è stato depenalizzato in illecito amministrativo e aggravato nella sanzione pecuniaria: evidentemente, come i frequentatori dell’Alcatraz intervistati dalla geniale pagina facebook “Il milanese imbruttito”, anche in termini giuridici siamo convinti che con “i soldi” e “un bel paio di tette” si risolva tutto. Sergio Rizzo che giovedì, sul Corriere della Sera, stigmatizzava la confusione fra etica pubblica e reati penali, interrogandosi sul “limite della purezza” nel rapporto fra politica e giustizia, potrebbe applicare gli stessi criteri di valutazione alla tv del pomeriggio. Ci sono pratiche non penalmente rilevanti ma non per questo meno moralmente disdicevoli. Appunto. Barbara D’Urso, nata Maria Carmela, è una cliente piuttosto frequente di queste pagine, e non perché eserciti la professione giornalistica senza aver superato alcun esame di abilitazione: la persecuzione di cui è oggetto dallo stesso Ordine dei giornalisti che a noi professionisti pluridecennali impone di frequentare a caro prezzo corsi di aggiornamento tenuti da nostri ex stagisti mediocri e blogger di cucina regionale convinti che la deontologia sia una nuova erba aromatica, sarebbe motivo sufficiente per sostenere la sua tv del dolore, le sue contrizioni involontariamente comiche e il suo volto circonfuso dalla “luce di quattrocento lampadine”, come rappeggia Fedez nell’irresistibile “Non c’è due senza trash” (“Poi c'è un transessuale di Puerto Rico / ma tira di più un pelo della Fico / Barbara lo so che forse non ti amano in molti / ma io non li ascolto, guardo solo gli ascolti”). E’ la progressione di questo suo modello televisivo, profondamente crudele, a lasciare interdetti.

 

Negli ultimi mesi con maggiore frequenza perché le aspiranti al suo scranno si sono fatte agguerrite, costringendola ad affilare le armi, il modello D’Urso ha abbassato sempre di più l’asticella del limbo televisivo, abbassando inevitabilmente con lui quello di milioni di persone: l’esibizione plateale e compiaciuta del dolore, la manipolazione degli ospiti e il compenso elargito in cambio delle loro rivelazioni anche nel caso di delitti efferati, vedi la famiglia del piccolo Loris Stival, barbaramente ucciso, pagata per viaggi e comparsate. “Manca un paese per i ricercatori, asset strategico”, diceva poche settimane fa agli Stati generali della Sanità la ministra Lorenzin. Manca innanzitutto un paese che sappia separare formazione e informazione o, come appunta l’imprescindibile Franca Valeri nel suo nuovo saggio-memoriale, “La vacanza dei superstiti” (Einaudi), che non confonda informazione e cultura, spacciando la prima come esposizione potabile della seconda e la prima come dilagante necessità. Le ultime stagioni televisive hanno annullato queste distinzioni, rendendo sempre più facile superare i confini del vero e del falso, e dunque favorendo la manipolazione del messaggio. La misura di questi anni è il factual, di fatto l’equivalente televisivo del mediatore culturale fra gli emigrati di Lampedusa: un tipo che sminuzza e pre-mastica un’informazione potenzialmente indigesta trasformandola in un bolo digeribile, ma soprattutto attraente, per la massa. Talvolta il mediatore ha il calibro di Piero e Alberto Angela, e il boccone è perfettamente sferico, naturale, e verrà attaccato e proficuamente metabolizzato dai succhi gastrici. Talvolta però viene addizionato di spezie e glutammato, edulcorato, colorato. E quel che arriva nello stomaco è puro veleno.

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