Domenico Induno, “Posa della prima pietra della Galleria di Milano il 7 marzo 1865”, 1865 (Museo di Milano)

Galleria canaglia

Sandro Fusina
Il signore in cilindro, che porge la cazzuola a Sua Maestà Vittorio Emanuele II, è il giovane architetto Giuseppe Mengoni. Bolognese di nascita e di studi, è il vincitore del concorso per la sistemazione di piazza del Duomo a Milano. Oggi, 7 marzo 1865, giornata di neve e di pioggia, si posa la prima pietra.

Il signore in cilindro, che porge la cazzuola a Sua Maestà Vittorio Emanuele II, è il giovane architetto Giuseppe Mengoni. Bolognese di nascita e di studi, è il vincitore del concorso per la sistemazione di piazza del Duomo a Milano. Oggi, 7 marzo 1865, giornata di neve e di pioggia, si posa la prima pietra. Il signore che compare tra Mengoni e il re è Antonio Beretta, sindaco di Milano (il primo,1861) e senatore (1862) del Regno d’Italia. Attorno si affollano gli invitati. L’Illustrazione italiana del 30 giugno 1878 aiuta a riconoscere i personaggi. Ci sono i due figli legittimi del re: Umberto, principe di Carignano, l’erede al trono; e il “giovanetto principe” (in realtà ha vent’anni) Amedeo, cui toccherà di appollaiarsi per due anni e qualche giorno (1871-’73) sul traballante trono di Spagna. C’è il governo: il presidente del Consiglio, Alfonso La Marmora, l’eroe di Crimea, e un paio di ministri. Ci sono gli ambasciatori, “venuti espressamente dalla capitale del regno” (Firenze). C’è, fra gli assessori, Giovanni Visconti Venosta, celebre per un poemetto giocoso intitolato “Il prode Anselmo”.

 

Sue sono le alate parole incise sulla targa che il re si accinge a cementare nella prima pietra. Il signore in cilindro che l’Illustrazione non cita è un ufficiale di San Maurizio e Lazzaro che il manifesto d’invito indica come il promotore dell’impresa, tale Eugène Francfort: lo si dice inglese. Rappresenta nella cerimonia la Development of city of Miland society, la società per azioni che il settimo visconte di Torrington, già governatore dell’isola di Ceylon, ha costituito con il finanziamento del Credit Foncier et Mobilier di Londra e la malleveria di un paio di earls, di conti britannici. Missione dell’impresa è la sistemazione della piazza del Duomo. Il pezzo forte, innovativo, del progetto è l’apertura di un ampio passaggio che da piazza del Duomo porti a piazza della Scala. All’asse principale sarà poi aggiunto in corso d’opera uno trasversale. Il crocevia del Mengoni ha comportato la demolizione di un caotico borgo antico che chiudeva a settentrione piazza del Duomo.

 

Il giorno della posa della prima pietra la fase di demolizione è molto avanti. La cerimonia è organizzata nello spazio del futuro Ottagono, ovvero il centro Galleria dove i due assi si incroceranno. La tela che stiamo osservando, firmata da Domenico, il meno sentimentale dei due fratelli Induno, è conservata al Museo di Milano. Ma la prima destinazione fu Parigi. Comparve in quella Esposizione universale del 1867 concepita per celebrare i successi dell’impero di Napoleone III. A petto degli sventramenti dei vecchi quartieri di Parigi e del disegno della rete dei boulevard, orchestrati dall’onnipotente barone Georges-Eugène Haussmann, la sistemazione della piazza del Duomo non farà in Francia tutta l’impressione auspicata. Né la tela dell’Induno susciterà molto interesse: in quel 1867 si tennero tra l’altro a Parigi le prime personali di due giganti come Gustave Courbet e di Edouard Manet. Se non l’ammirazione, almeno il compiacimento dei francesi l’impresa della Galleria Vittorio Emanuele lo suscitò: l’enorme quantità di lastre di vetro necessarie per la copertura uscivano dalla Saint-Gobain, la grande industria francese fondata due secoli prima da Jean-Baptiste Colbert per sottrarre a Venezia il monopolio europeo della produzione del vetro. Erano state le lastre della Saint-Gobain a rendere possibili le moderne costruzioni in vetro e ferro, a partire dalle grandi serre per la raccolta e l’acclimatazione delle specie vegetali esotiche che nell’Ottocento portò a vedere il mondo come il giardino di casa di Regno Unito e di Francia.

 

Esule dopo la sconfitta di Novara e il ritorno degli austriaci a Milano, il futuro sindaco Antonio Beretta era a Londra proprio intorno al 1851, l’anno della prima grande esposizione universale della storia. Come molti, avrà ammirato il Crystal Palace, in ferro e cristallo, elevato in quattro e quattr’otto in Hyde Park da Joseph Paxton, “giardiniere” del sesto duca del Devonshire. Sarà stato il ricordo del palazzo di vetro londinese a convincere il sindaco a sostenere il progetto del giovane architetto bolognese. Sarà stata la costruzione in ferro e vetro a costringere ad affidare l’appalto a una società inglese.
Come sempre, marmi e pietre arrivavano a Milano per acqua, lungo il Ticino e il Naviglio Grande, dalla sponda novarese del Verbano. Su quella sponda abitava la famiglia Francfort. Eugène Francfort era verosimilmente un ingegnere minerario. In Connecticut aveva fondato una società, la Chatham Cobalt Mining Company, per sfruttare una vecchia miniera di cobalto e nichel. L’impresa non era sopravvissuta due anni. Francfort era allora comparso con tutta la famiglia nel Novarese per diventare direttore o gestore di una serie di miniere tra il Cusio e l’Ossola.

 

Era il 1857, tra la fine della guerra di Crimea e l’inizio della Seconda guerra di indipendenza, il momento di massima intesa tra il Regno di Sardegna di Camillo Benso di Cavour a la Francia di Napoleone III. In un primo tempo la famiglia Francfort aveva abitato in un piccolo centro della zona mineraria, non lontano dalle cave di Candoglia, che da sempre fornivano Milano. Del marmo di quelle cave si era alimentata per secoli l’insaziabile fabbrica del Duomo. Ma presto i Francfort con i loro cinque o sei figli si erano trasferiti in una villa elegante in riva al lago, a Pallanza, sul colle della Castagnola, in via Vittorio Emanuele. Se citiamo l’indirizzo è perché con Vittorio Emanuele i Francfort dovevano avere ottime entrature: Eugène era stato rapidamente gratificato della prestigiosa onorificenza sabauda dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Sui motivi di tale favore sovrano ci si può sbizzarrire. Una spiegazione suggestiva è forse nel nome. Eugène si chiamava il Beauharnais, figlio di Giuseppina, figliastro di Napoleone, rimpianto viceré del Regno d’Italia. Da Napoleone il Beauharnais era stato investito del titolo sovrano di granduca di Francoforte.

 

La grafia francese del nome lascerebbe sospettare che Eugène Francfort fosse un napoleonide illegittimo. Luigi Napoleone (Napoleone III), figlio di Luigi Bonaparte, re d’Olanda, e della regina Ortensia, sorella di Eugenio Beauharnais, era notoriamente soccorrevole con gli illegittimi di famiglia. A un fratellastro, figlio dell’adulterio di Ortensia con un aristocratico francese, aveva riservato onori pubblici e il titolo di duca di Morny. A un illegittimo più oscuro non avrebbe negato un nome suggestivo e una raccomandazione presso un sovrano cui si apprestava a procurare un più grande regno. Un Eugène Francfort parente segreto di Luigi Napoleone spiegherebbe la curiosa comparsa nel regno di Sardegna nel momento di massima intesa con la Francia, la rapida affermazione nella gestione delle miniere del Cusio e dell’Ossola e la croce di ufficiale di San Maurizio e Lazzaro. Il favore reale spiegherebbe addirittura l’incarico di Francfort a mandatario, prima di lord Torrington, poi dell’aristocratica Development of city of Miland society.

 

Basterebbe a spiegare non solo la quasi totale mancanza di documenti, ma anche le circostanze curiose della sua fine. Nell’agosto del 1868 Eugène Francfort e la moglie Anna Harriette Paul partono per Dublino. Vanno a sposarsi. Che non fossero sposati legalmente, nonostante i numerosi figli non è notevole. Nell’Ottocento le coppie di fatto, almeno in Italia, erano molto più numerose di quanto si penserebbe. A Dublino Eugène dichiara di essere figlio di Julius, ma non dichiara il nome della madre. Di un Julius Francfort sembra non esserci altra traccia oltre l’atto di matrimonio. Di ritorno a Pallanza, fa testamento presso un notaio e la settimana seguente si uccide con un colpo di pistola nel giardino della villa. Anna non se ne andrà da Pallanza. Diventerà intima dei Trubetskoy, un’altra coppia irregolare con villa nelle vicinanze. Un suo ritratto di mano del Ranzoni è conservato al Museo d’arte moderna di Milano.

 


Museo d'arte moderna di Milano


 

Se vuole scomparire senza creare imbarazzi, Francfort ci riesce. Lo aiuta una sorta di programmatica damnatio memoriae. Nella seduta del 29 novembre 1868 del consiglio municipale di Milano si discute dei rapporti economici tra il municipio e la Development of city of Miland society. Il re è tornato a Milano il 15 settembre dell’anno prima per inaugurare la Galleria. Manca ancora il grande arco d’ingresso. I lavori si protrarranno ancora per dieci anni, intanto si interrompono. La società inglese è in dissesto. Nell’ottobre del 1869 sarà costretta a liquidare, cedendo al comune gli edifici già costruiti e le aree già acquistate. Nella seduta del 29 novembre, dove si discute di prospettive economiche e contrattuali, il consigliere Massarani si propone di fare un po’ di storia. Tullo Massarani è un uomo di larghi mezzi. E’ stato esule in Francia e Svizzera. Deputato della destra in Parlamento, si è occupato di “società mutue, di pubblico impiego, di opere pie”. Personalmente si occupa di storia e di pittura: è stato allievo di Domenico Induno.

 

Dice in aula: “Nell’anno 1864 un suddito inglese da lungo domiciliato in Pallanza, esperto delle cose nostre, sapendo come (…) si era approvato il progetto dell’architetto Mengoni (…) si presentava alla giunta municipale di allora e quale mandatario di un nome altisonante, e con la scorta di un milione di rendita al valor nominale, si offerse pronto a deliberare tutti i lavori”. Tutti i presenti sanno, come noi, che il suddito inglese di cui il Massarani preferisce non fare il nome è il Francfort. “Egli è ben vero che in questo recinto una voce isolata (parla di sé, il Massarani?) presaga della postume verificazioni, chiese replicatamente chi fosse mai questo Lord Torrington, che si compiaceva di questo genere d’affari. Ma siccome allora molto si credeva in verba magistri, così il consiglio suppose, e i buoni milanesi credettero, che quel nome fosse caro alle industrie, alle arti e alle grandi imprese, ma sfortunatamente quel nome era caro a tutt’altro…”. L’autorità, il magister, alle cui parole il consiglio e i buoni milanesi avevano creduto, altri non era che il sindaco Antonio Beretta. Beretta interviene nella discussione, non più nelle vesti di sindaco, ma di semplice consigliere. Cosa è successo?

 

Nel Quarantotto della rivoluzione Beretta aveva quarant’anni: secondo i canoni del tempo, era quasi un vecchio. Proprietario terriero, si era dedicato alla politica fin dal 1843, come assessore nella Congregazione (municipio) retta dal podestà Gabrio Casati. Fu lui, allora membro del governo provvisorio di Lombardia, che accolse a Milano l’“italo Amleto” (Giosue Carducci, in “Piemonte”), ovvero il re di Sardegna Carlo Alberto, sceso finalmente in campo. Fu lui che il governo provvisorio rivoluzionario aveva inviato presso il sovrano in guerra, fu lui che dopo la “fatal Novara” (sempre Carducci, sempre “Piemonte”), era partito esule per Parigi e Londra e si era visto confiscare le terre e le case dal nuovo governatore, il soldato Josef Radetzky von Radetz, impegnato a fare del ritorno all’ordine un’occasione per riempire le casse. Beretta era un eroe del Risorgimento, di fede monarchica e di esperienza amministrativa. Era nell’ordine delle cose che, tornato nella disponibilità delle sue sostanze, il 10 febbraio 1860 diventasse il primo sindaco di Milano. Ma, senza essere nobile (nel 1862 sarà fatto conte, ma neppure ereditario), Beretta era un grande proprietario terriero.

 

Non corrispondeva al profilo dell’uomo che si era fatto da sé, proposto da un libro che, pubblicato proprio nel 1865 a Milano, aveva venduto 150.000 copie (si noti che nelle elezioni nazionali del 1861 esercitarono il diritto di voto poco più di 170.000 sudditi). Con il titolo “Aiutati che dio t’aiuta” era la traduzione di “Self-help”, in cui il medico scozzese Samuel Smiles proponeva se stesso e altre personalità partite dal nulla come esempio per i giovanetti. Avendo il primo ministro Luigi Menabrea auspicato una versione italiana, l’editore Barbera si era rivolto al darwiniano Michele Lessona. Il suo “Volere è potere” avrebbe avuto un successo anche più grande. Beretta non si era fatto da sé, era una grande proprietario di case e terreni. Si impegnò perciò in un’opera di rinnovamento del tessuto urbano articolato sulle due stazioni ferroviarie, quella di porta Genova e la vecchia stazione centrale (ancora di transito). Ma soprattutto si impegnò nella sistemazione di piazza del Duomo. La Gazzetta di Milano rivelò tuttavia che uno degli edifici da abbattere, per cui il municipio aveva pagato una cifra esorbitante, era di proprietà dell’assessore G. B. Marzorati, cognato del sindaco. La giunta querelò il giornale per diffamazione: il processo terminò con un non luogo a procedere.

 

Altri giornali come il Secolo di Sonzogno si unirono alla campagna per accusare il sindaco stesso e altri assessori di malversazioni. A Beretta furono imputate concessioni arbitrarie alla società inglese, come il permesso di modificare il progetto approvato, innalzando di un piano la Galleria, e aumentando così enormemente la cubatura del complesso.
La prima giunta milanese, composta per lo più da aristocratici proprietari terrieri, eroi del Risorgimento, fu costretta a dimettersi. Beretta, per i suoi rapporti disinvolti con la società inglese non ne usciva bene. Nelle elezioni del 15 dicembre 1867 fu sconfitto. Il successore, Giulio Bellinzaghi, figlio di negozianti, era stato commesso in una banca genovese. Nel 1849 aveva fondato una sua banca che era diventata la più importante di Milano; nel 1862 si era unito a Pietro Bastogi nell’impresa di sconfingere i Rothschild per l’appalto delle Ferrovie meridioni. Era l’uomo lessoniano perfetto. A Milano risanò il bilancio del comune, completò nel 1873 la Galleria, presenziò ai funerali del Mengoni, caduto da un’impalcatura il giorno prima della chiusura dei lavori, resse il comune per sedici anni consecutivi e poi ancora per tre, fino alla morte.