Questo è il Colosseo, protagonista di spettacolari illusioni, incubi e presentimenti, libri e incisioni, dipinti, versi, canzoni e stornelli, film di dubbio conio, tragicommedie o drammi satireschi

Le ali del Colosseo

Alessandro Giuli
Che succederebbe se volasse via dall’Italia? Nel romanzo di Sorgi c’è un compratore, ma occhio alle profezie: ricchissimo sceicco arabo afflitto da spleen compra il Colosseo e abbatte il debito pubblico italiano accordandosi con il potentissimo primo ministro italiano, chiamato il Successore.

Il Colosseo è necessario e un po’ strafottente, spiace dirlo ma è così. Nato con presupposti d’intrattenimento ludico-gladiatorio, è diventato il monumento in assoluto più democratico, e quindi più remunerativo, fra quelli di maggior fama, prigioniero com’è di cartoline e selfie sgraziati, tatuato sulle spalle dei calciatori, stilizzato in mille varianti pur di vendere all’estero un “pacchetto-Roma” a beneficio di turisti compulsivi e smemorati. Per non dire di quella tristezza, quel non so che di derelitto assegnato all’Anfiteatro Flavio dacché è divenuto il centro di gravità d’una via crucis permanente, in omaggio a un malinteso senso espiatorio inflitto dalla martirologia creativa del Vaticano.

 

Eppure quanto si porta, ’sto Colosseo… Guai a chi glielo tocca, ai romani (erre minuscola). Un paio d’anni fa, fu divertente e doveroso esercitare l’ironia sull’improvvisa archeo-idea di far rivivere il Colosseo com’era ai tempi di Tito Flavio Vespasiano (al netto delle fiere però). La trovata sedusse il ministro della Cultura, Dario Franceschini, favorevole a ripristinare la vecchia destinazione d’uso del millenario “molare cariato” – come lo definisce Elena Albertini nei suoi diari – e al tempo stesso farne “luogo di memoria e intrattenimento”. “L’idea ha un suo fascino ed è al tempo stesso una grande paraculata – scrisse il Foglio – perché al passo coi tempi nuovi e renziani: obbedisce al clima di fruizione sbarazzina dell’esistente che si irradia dai così detti luoghi della decisione, fino a rivestire d’inconsueta attualità la formula sfibrata del panem et circenses”. E ancora: “Sarà il ready made mondiale di una strana Italia sospesa tra il crepuscolo e un carnevale di provincia, incorniciata dal tuìt di un titolare del Mibac come Franceschini (‘basta un po’ di coraggio’), la cui equazione personale vale come sintesi estrema del nostro paesaggio di scintille d’oro e rovine: un sepolcro arrossato della fu Dc, Franceschini, riconvertito nottetempo al renzismo e oggi padroncino della Cultura orgogliosamente estraneo alla lotta interna al Pd”. Ironia nemmeno troppa, invero.

 

 

Il benecomunista Salvatore Settis, combattente emerito per la salvaguardia storico-paesaggistico-ambientale, la prese male, anzi malissimo perché alcuni suoi colleghi intellò e di gran vaglia (Andrea Carandini e Adriano La Regina) sussurrarono invece la propria disponibilità a esaminare la fantaproposta. Nel nostro piccolo, ce la cavammo con l’indifferenza svalutativa dell’imperatore Adriano, “che al tempo del suo principato si mostrò insofferente agli spettacoli di sangue e oggi, potendo, si godrebbe volentieri una lettura ovidiana di Vittorio Sermonti lì dove un tempo furoreggiavano fiere e gladiatori e navi rostrate”. Ergo: si poteva anche fare, a patto di recuperare i soldi (pubblici) dalla montagna di sprechi capitolini accumulatasi sopra il progetto della Metro C: preventivo da 6 miliardi di euri, 3 milioni in stipendi spesi da Roma Metropolitane. La cosa morì lì, o per lo meno fu messa in letargo. E il Colosseo è tornato nel suo ruolo di monumento-feticcio sdentato e accidioso, impermeabile al chiacchiericcio circostante, alle cenciose imitazioni di centurioni e gladiatori in posa, al formicolio transennato dei visitatori. Del resto il molare non è forse il dente principale dei ruminanti? Ecco, il Colosseo se ne sta perenne lì a ruminare bovinamente sull’incomprensibile fretta dei contemporanei. Che gliene frega, a lui. Perciò sorride (sempre sdentato) quando le maestranze deputate alla sua custodia improvvisano assemblee e scioperi, facendo inferocire soprintendenti, ministri, giornalisti e appassionati dell’antico (turisti meno: ci sono abituati ormai). E la sua è una smorfia millenaria, sardonica, che proviene da un altro modo di percepire il tempo e lo spazio. I romani si credono rappresentati dal Colosseo, ma il Colosseo considera i romani d’oggi come gli uscieri svogliati d’una sua Spa personale in cui lo sciame turistico svolge il ruolo del branco di pescetti che pinzettano la pelle morta e altre impurità. Le scritte incise da giovani incauti testimoni del presente, gli pseudo restauri praticati da operai non qualificati sul suo marmo e sulle sue murature, non sono che grattini sulla cotenna di un mammut sonnacchioso.

 

Questo è il Colosseo, protagonista di spettacolari illusioni, incubi e presentimenti, libri e incisioni, dipinti, versi, canzoni e stornelli, film di dubbio conio, tragicommedie o drammi satireschi. Ma pure di studi serissimi, più o meno polverosi, il più importante dei quali ha stabilito che quello del Colosseo, capolavoro d’ingegneria costruito in sette anni sulle macerie della damnatio memoriae comminata a Nerone, è un destino sbilenco. Esiste infatti uno studio scientifico fondato su analisi e ricostruzione geologica tridimensionale del sottosuolo, secondo il quale “mentre il settore settentrionale del Colosseo è fondato sui solidi terreni tufacei e sedimentari dei colli di Roma, la parte meridionale dell’anfiteatro è stata costruita sui sedimenti lasciati da un piccolo affluente del Tevere, che scorreva tra i colli Esquilino, Celio e Palatino, per immettersi poi nella valle Murcia (il Velabro maggiore), all’altezza del Circo Massimo, e da qui nel Tevere”. Risultato: “… i forti terremoti a ipocentro appenninico hanno danneggiato la parte del Colosseo che poggia sui sedimenti alluvionali che riempivano il fondo della valle del piccolo corso d’acqua, mentre le parti del Colosseo che poggiano sui sedimenti del substrato hanno sofferto pochi danni” (tratto da Aa.Vv., “I sette colli. Una guida geologica a una Roma mai vista”, Raffaello Cortina, 2005). E siccome dalle origini a oggi nulla è cambiato nel sottosuolo, hai voglia a sognare restauri. Tanto varrebbe smontarlo e rimontarlo altrove.

 

E scusate l’enormità, ma se scriviamo in questo modo è tutta colpa di Marcello Sorgi, che è analista della politica sulla Stampa (di cui è stato direttore) e volto noto in tivù (editorialista di “Agorà” su Rai3, ex direttore del Tg1), ma ora s’è messo in testa di fare il narratore. E proprio sul nostro dolente molare ha appena pubblicato un racconto divertentissimo: “Colosseo vendesi. Una storia incredibile ma non troppo” (Bompiani). La trama, in una frase: ricchissimo sceicco arabo afflitto da spleen compra il Colosseo e abbatte il debito pubblico italiano accordandosi con il potentissimo primo ministro italiano, chiamato il Successore: una specie di Salvini plausibile ma in modalità renziana. Pazzesco eh, ma a Roma nulla è così pazzesco da potersi mantenere a distanza di sicurezza dal possibile. E su questo paradosso gioca l’autore, che è una singolare figura di siciliano britannizzato, piccolo e compatto e sornione, senza mai sbavature nello stile o nell’eloquio, ma con un tocco di malizia boschereccia negli occhi. Nel suo racconto a chiave, con allusioni appena velate a personalità e mondi dopotutto ben riconoscibili, Sorgi si autorappresenta come un io narrante allogeno precipitato in una Capitale giornalistica e politica nella quale si parla “un esperanto” romanesco, una cosa a metà tra le poesie del Belli e i vocalizzi del fruttarolo trasteverino. (Un po’ si spiega: suo consulente linguistico è Filippo Ceccarelli, nipote del romanologo Ceccarius, e l’effetto a volte è così d’antan da rasentare l’effervescenza. Esempio: per ascoltare uno che dice “doppo”, nel senso di “dopo”, più che a Roma oggi bisogna andare in provincia di Viterbo, meglio se tra Acquapendente e Proceno… ma in ogni caso il senso dell’argot alla vaccinara è reso a dovere).

 

Il primum movens è un editoriale scritto da un allievo sfigato di Federico Caffè (nel libro Ludovico Noè), tendenza liberismo coattivo-passivo, pubblicato dal secondo quotidiano romano ormai in disarmo e in cerca di rilancio (il Vento), proprietà di un palazzinaro con entrature al ministero della Cultura (presieduto da Ino, già ministro del renziano Governo dei Ragazzi, e traslocato in quello avversario del Partito del No impersonato dal Successore, un post leghista). Titolo dell’articolo, appunto: “Colosseo Vendesi”. Da qui, da una provocazione tardo accademica manipolata in una smorfiaccia dal giornalismo stracittadino più malvissuto, nasce un caso politico internazionale. Perché di fronte all’idea bislacca che già era stata, seriamente, del leghista Giancarlo Pagliarini, qualcuno ci pensa su incredulo (lo sceicco impaccato di soldi Ibn Al Taib, un misto tra il presidente dell’Inter FC e il “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, ma più capriccioso), altri ci credono (il Wall Street Journal e altri quotidiani stranieri “autorevoli”, come usa dire fra colonizzati: “Rumors Italian Government to Sell the Colosseum to Balance Budgets and Debt”), altri ancora s’indignano (e riecco il povero e succitato Salvatore Settis, qui prof. Nonis, che ne soffrirà fino a schiattare con la testa china sul suo ultimo corsivo benecomunista: “Disfatta”), qualcuno tenterà una disperata resistenza, ed è il ministro Ino (direi, come Aldo Cazzullo sul Corriere di giovedì, trattarsi di Dario FranceschIno, quello che voleva ripopolare l’arena dell’Anfiteatro Flavio).

 

In una Roma dipinta con i colori del neorealismo, il desolato neorealismo magico di una città neghittosa in cui “alle 10 del mattino il centro cominciava a svegliarsi, le saracinesche dei negozi cigolavano venendo su; le voci dei romani che si salutavano, da un lato all’altro delle strade, con suoni e grida familiari ma incomprensibili…”; insomma in questa specie di Calcutta de’ noantri giganteggia senza rivali l’immusonito premier nato leghista e maturato paraculo (quindi un po’ renziano, a modo suo), un pauperista aggressivo-compulsivo che trasferisce la sede della presidenza del Consiglio al Gasometro ostiense, usa i pony express al posto dei funzionari, si muove a piedi in sandali e maglietta. E’ il Successore, ha appena conquistato Roma grazie a un tocco di nostalgismo populista – “C’era più rispetto per il denaro pubblico ai tempi dell’antica Roma” – per poi stendere sulla Capitale il suo velo di pragmatico disprezzo. Essendo vuote le casse dell’erario, esangui i pochi ministeri sopravvissuti al suo machete, altissimo il debito pubblico e proporzionale l’eventualità di un default, il Successore è a caccia di quattrini disperati. Scopre che la proposta del liberista sfigato gode di una popolarità sconsideratamente alta nelle rilevazioni algoritmiche dei socialnet e affini (colpo di fortuna che finirà per rinverdire il giornale mummificato sul quale era apparso per strabica ventura). Sicché, incurante delle timide obiezioni domestiche, convoca di mercoledì un Consiglio dei ministri da terremotati – “Vi sto dicendo, cari colleghi, che è venuto il momento di privarsi del Colosseo!” – e che si chiude con un decreto intitolato: “Provvedimenti urgenti per il risanamento delle finanze pubbliche con particolare riferimento al patrimonio culturale e monumentale”.

 

La resistenza politica più forte è quella postuma e negoziabilissima manifestata da un presidente della Repubblica manzoniano (genere conte zio), ma neppure le lamentele del vecchio Papa in veste pre-unitaria smuovono il Successore: “Dirò, ma solo se necessario, che il Colosseo c’entra fino a un certo punto con la storia dei cristiani. I romani, che lo costruirono, erano pagani. I gladiatori, che ci andavano a morire, venivano da tutto il mondo e spesso erano schiavi. Scavando tra le rovine del Colosseo, saltano fuori le ossa di immigrati come quelli mandati oggi ad annegare nel canale di Sicilia. Soltanto un regime di cartapesta come il fascismo poteva lasciar passare l’idea del Colosseo quale monumento alla cristianità e della croce messa al posto della statua di Nerone”. Boom. Poche ore dopo il Colosseo viene venduto per One thousand billion – “Addio Colosseo”, titola il ringalluzzito Vento. Tempo un anno e il monumento romano, smontato a pezzi, viene riassemblato in un piccolo e petroleosissimo paese del Golfo.

 

Campo lungo, dissolvenza, titoli di coda? Nient’affatto. Marcello Sorgi ci aveva avvertito che non sarebbe finita così liscia, lo aveva fatto riproducendo in esergo al racconto la così detta profezia del monaco Beda, chiamato il Venerabile Beda (673-735 e.v.): “Finché esisterà il Colosseo / esisterà anche Roma; / quando cadrà il Colosseo, / cadrà anche Roma; / quando cadrà Roma, / cadrà anche il mondo”. Ed è così che il finale del racconto, fangoso ma tutto sommato aperto, assume tinte neroniane, quasi a riscattare l’ombra silente dell’imperatore più ingiustamente calunniato della storia, più che i fantasmi di Beda.
Qui usciamo dal bel bozzetto di Sorgi per entrare, ma giusto in coda, nella vasta e non riesumabile letteratura fantatica sul Colosseo, tra spiritismi sotterranei alla Nathaniel Hawthorne e più concreti vaticinii sibillini – tutti tendenzialmente antiromani – diffusi fin dall’antico nel medioriente proto millenarista. Da ultimo c’è perfino lo Stato islamico o Daesh, che nei suoi filmati proclama l’imminente fine dell’occidente romano. Punti di vista…

 



 

Ma intanto quello, il Colosseo, resta sempre al suo posto, accoccolato sulla cavea di un antichissimo lago, fieramente monco e incompreso, ogni giorno più strafottente. E, pochi lo sanno, fu proprio lui, a proposito di oracoli, a instillare una visione di lotta e di vittoria nel corpo sottile di una sconosciuta figura primonovecentesca. Si era alla fine del marzo 1918, nell’ultimo tratto di una Grande Guerra ancora tutta da vincere. In attesa dell’eroica Battaglia del Solstizio sul Piave, i combattimenti più furiosi avvenivano sul fronte francese. Su un quotidiano nazionale apparvero queste righe di una strana corrispondenza: “Era una luna cinzia che risplendeva da un cielo italico con grazia greca. Notte profonda, Romana. In un’atmosfera di eternità. Di quell’atmosfera di eternità che si respira solo qui, in tutti gli angoli propiziamente tranquilli di questa Capitale d’Italia, d’Europa, del mondo, della Terra, del cosmo, del Paradiso e dell’Inferno, dell’Eliseo e del Parnaso. E strisciavo lungo le maestà murali e storiche del Coliseo… Invocai tutti gli Dei tutelari, il vecchio Pan, Enea e Latino e Turno e Romolo e Giuliano l’Apostata e Cola da Rienzi e Garibaldi. Fremette la terra, e nel sussulto sentii, con voce di Roma, assicurare che i Barbari saran per sempre sconfitti…”. Così parlò l’oracolo, tre mesi dopo l’Italia con i suoi alleati avrebbe vinto la guerra. Hai capito le “maestà murali del Coliseo” quanti debiti pubblici hanno già saldato?

 

 

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