Andrea Mantegna, “Cristo morto” (particolare), 1475-’78 (Milano, Pinacoteca di Brera)

Il miracolo è la speranza che si avvera. Anche questa è Pasqua

Angiolo Bandinelli
Un vecchio, straziato da ciò che ha visto a Gerusalemme il giorno prima, parla nella notte con il suo servo. Non era un uomo comune quello che hanno crocifisso. “Se dovessi figurarmi un’immagine del Messia, prenderei la sua”. Racconto laico della Resurrezione

La prova, la prova”, borbottò. Si stropicciò la barbetta grigia e rada. I fuochi di qualche accampamento baluginavano sulle colline, i cammelli cominciarono d’improvviso ad agitarsi, a barrire, a scalciare, come avvertissero l’afrore di un selvatico in agguato. “La gente vuole la prova. La prova che Dio, che pur è l’impronunciabile, si è manifestato, si manifesta. Dèi falsi e stupidi, magari troppo vecchi per essere più creduti e forse ancora troppo giovani per essere sperimentati e affidabili, hanno pur sempre tenuto a lasciare, di sé, una prova. Ci hanno almeno provato. E’ stata la loro grande astuzia, lasciar lì la prova. Una evidenza. Che magari divenne un mito, un dolce racconto – il mito che ha fatto vivere, palpitare, il cuore della gente…”.

 


 

“Padrone, perché sei così agitato? cosa ti è successo?”.

 

“Oh, Yosef, sono ben più che agitato, sono sgomento. Sono atterrito, un peso enorme mi grava sulle spalle…”.

 

“Non hai chiuso occhio, padrone, ti agiti continuamente… Fermati un momento, siediti qui accanto al fuoco. La notte è ancora lunga, davanti a noi. Ti porterò una ciotola di acqua con rinfrescante aceto; o, se preferisci, del latte appena munto della giovane cammella, così potrai calmarti un po’ e raccontare, raccontarmi cos’è che ti sconvolge tanto. Perdona questa mia curiosità, ma anche io sono agitato, impaziente di ascoltarti, padrone caro”.

 

“No, Yosef, io stesso ho voglia, anzi debbo raccontare, per capacitarmi io stesso, per convincermi di quello che ho visto in questi giorni, con questi miei occhi, dall’ultimo shabbath a qualche ora fa, a poco prima del tramonto di ieri. Sai anche tu di cosa sto parlando, Yosef”. Il vecchio si guardò sospettosamente attorno, sospirò: “Ma voglio anche confidarti cosa mi sto proponendo di fare, di poter fare per dare un senso a quanto è accaduto e a quanto ho visto – un senso di speranza, non di morte”. Si raggomitolò dentro il mantello che aveva sulle spalle, chinò la testa sugli occhi chiusi. Il fuoco sfrigolò, scoppiettò.

 

Rovesciò la testa all’indietro, come a fissare la stella più lucente nel cielo di zaffiro: “E dunque… Sì, sono straziato da quello che ho visto, Yosef, perché sono sicuro di aver assistito a qualche cosa di lontano, qualcosa che era e non era del nostro mondo, di quello che viviamo. Qualcosa di oscuro, anche. Ho visto la morte, la morte di un uomo, e la morte di un uomo è sempre dolorosa. Perché non c’è dubbio, quell’uomo era morto – dalla ferita, dal colpo di lancia lì al costato è spicciato fuori solo siero, non sangue. Ma pensando ancora a lui mi tormento, non so perché. Mi ripeto, come una ossessione, che è ingiusto che sia morto, e me ne addoloro fino al più profondo del cuore. Perché, ti dico, mi è sembrato uomo diverso, eccezionale, oltreché morto in modo eccezionale. Avrai anche tu sentito la terra tremare, sul far della sera. E quel tremare della terra si è avuto proprio mentre l’uomo moriva: e anche il cielo si è oscurato, sembrava piangesse… Sarebbe bello che quello che è accaduto non lo fosse. Non meritava quella fine obbrobriosa. E – ma vedi che idee mi vengono in testa – mi viene da pensare che sarebbe ancor più bello se potesse risorgere. Se quell’uomo si risvegliasse dalla morte sarebbe la prova di un possibile miracolo. So che è il miracolo impossibile, morte e vita si escludono, però…”.

 

“Padrone, tu stai pensando pensieri strani, difficili. Tu pensi sempre troppo, padrone”.

 

“Ascolta – riprese l’uomo dalla barba grigia, con voce ora più franca, intelligibile – voglio raccontarti come le ho viste, le cose, per filo e per segno, per capire meglio, per capire meglio io stesso l’intera vicenda, che mi fa rimuginare in testa idee strane e nuove… E dunque: il giorno prima della santa Pasqua io stavo tornando qui da te, di buon mattino. Mi ero attardato, avevo dormito in città. Vi ero andato – lo ricordi – per incontrare mercanti che mi avevano affidato stoffe e pelli, perché io le porti in Siria, con il viaggio che intraprenderemo domani, appena concluso il santo shabbath, come concordato. Una settimana era necessaria per caricare le merci sui cammelli, c’erano minutaglie di accordi e intese da perfezionare, eppoi, la sera è piacevole far tardi, distesi su stuoie e cuscini, in buona compagnia… Ma mi alzai presto, per tornare qui da te. A quell’ora, Gerusalemme era già in gran fermento. Correvano tutti alla Porta Grande, gridavano qualcosa su un Re che doveva arrivare. Ne avevo sentito dire: stupidaggini del popolino ignorante, pensavo. Ma poi fui trascinato, sballottato dalla folla, e mi sono accodato. E ho visto. Ho visto quell’uomo entrare in Gerusaleme, su un magro, povero asinello bianco, ma riverito e osannato dal popolo, da una città impazzita, in delirio. Quello stesso popolo – o Dio santissimo – che ieri ha preteso la sua testa, lo ha condannato e lo ha fatto morire. Una cosa inspiegabile, credimi: al suo arrivo era stato accolto come un Re… una unanime, inopinata esaltazione… “Osanna, Osanna”, tutti gridavano… mai vista una cosa simile, credimi… poi il mondo si è rovesciato su di lui, come il turbine di sabbia sollevato dal vento del deserto… Lo so, Yosef, che tutto ciò può apparire strano e indifferente al tuo orecchio, così come sembrò strano a me – ma non indifferente – mentre accadeva dinanzi ai miei occhi…”.

 

“Comunque, l’uomo era bello, era proprio come un Re, un Re che va a visitare , col suo corteo, un suo lontano villaggio, gente del suo popolo… e forse era persino troppo bello per un Re, un vero Re come ne incontriamo spesso, nei nostri viaggi. Pensi tu, Yosef, che vi siano Re in incognito, che si muovono nelle nostre terre per chissà quali imprese? In certo senso, se questo fosse possibile, abbene allora sì, direi che quell’uomo era un Re. Era, dico, perché poche ore fa l’ho visto spirare, proprio lui, irriconoscibile; chinare il capo e lasciarlo ciondolare senza vita. E io di morti me ne intendo… e questo è inspiegabile, come possa essere accaduto a un Re, un vero Re, di essere esaltato un giorno e poche ore dopo, nello spazio di una sola settimana, mandato a morte. Dalla sua stessa gente, dal suo popolo…”.

 

Yosef riattizzò il fuoco. Aveva chinato gli occhi, temendo che il padrone vi scorgesse l’impazienza della domanda, l’avidità che precorre e cerca di rubare la piccola perla della verità. Non l’avrebbe tollerato, il padrone, e avrebbe smesso di parlare. Yosef non voleva questo, perciò si concentrò sul fuoco davanti alle tende, perché il padrone si sentisse ancora pienamente a suo agio, e potesse ancora parlare, liberamente come se parlasse, senza ascoltatori, a sé stesso, a sé solo, condizione prima della verità. L’uomo dalla rada barba grigia aspirò lentamente, sospirò meditabondo, riprese a riflettere: “… La prova, sì, una prova capace di creare il mito; il mito è qualcosa che sta a metà tra verità e finzione, credo. Una immaginazione, un immaginario che gli uomini possano ripetere a sé e agli altri, raccontarsi: su cui discutere, azzuffarsi, accanirsi. Non la verità, che li obbligherebbe a un sì o un no apodittici, senza lo scarto del dubbio. Non la bugia, che suona sempre tale, male come un vaso fessurato; che non può essere flessibile, come la verità nel suo aderire alla mutevolezza delle vicende, che non ha quel fondamento sicuro su cui riposi la fiducia degli uomini, come deve e può – quando c’è. Ci vuole l’immaginario, ma un immaginario che abbia a suo fondo e fondamento la prova, la prova che può sollecitare a credere: una garanzia, diciamo. O, quando è nella forma spuria del mito, almeno ad ammirare: gli adoratori di dei non credono ma ammirano, stupiscono…

 

Credere è altro, qualcosa che può nascere solo nella nostra fede, dal nostro Libro. Credere è un’astuzia, eccitante, in bilico: comunque, una sfida – credere e non credere. Bada bene, credere e non credere. E’ ben diverso dalla verità, che si impone come la legge astratta dei numeri, della misurazione. Credere è questo, un qualcosa cui i greci, questo popolo terreno e mercantile, non sono abituati e non vogliono arrendersi. Essi vogliono la verità dei numeri e delle misurazioni, della geometria, oppure si pascono di favole, di miti, come li chiamano. Poetici fin che vuoi, ma che nulla hanno a che fare con la fede, il credere. Credere, avere fede, è la ricchezza, o la dannazione, propria del nostro popolo, il Popolo eletto dal signore, o di tutti i figli di Abramo che abitano i deserti, il vuoto dei deserti, che leggono il grande Libro… I greci no, non capiscono cosa possa significare il credere, questo luogo ambiguo in cui si colloca il figlio di Abramo e di lì piange e si dispera. Piange e si dispera perché, dal momento che crede, si conosce come colui che è gettato nel fondo dell’abisso. I greci! Come sono lontani da noi, costoro: essi sono persino capaci di ridere, delle frottole che raccontano intorno ai loro dèi: forse perché li dipingono o li scolpiscono (sì, proprio, li dipingono, li scolpiscono) così simili all’uomo, che alla fine non possono non riderne – certo. Neppure gli egizi, gli odiati egizi che hanno provato a tenerci per sempre schiavi, neppure loro sanno cos’è la fede. Loro riempiono i loro morti di balsami e di regali, di doni, di illusioni così terrene, proprio perché non hanno questo dono grande della fede: i loro morti li vogliono vedere sempre vivi, coi loro corpi conservati per sempre. Per l’eternità, che bestemmia. Noi no; noi figli, noi costola di Abramo, noi abbiamo fede e quindi sappiamo cosa è il nulla, il nulla, la morte dove l’uomo piomba nella fine del suo corpo, del suo volto, della sua… no, no. La sua essenza solo vive, e vive perché e in quanto rientra nel santo nome di Colui che è, l’impronunciabile, Colui in quale devi credere perché è l’assurdo”.

 

Yosef, curvo, appoggiato al bastone, ascoltava avidamente, Poco capiva di quei lontani pensieri, ma gli piaceva ascoltarne il suono.

 

“… Quell’uomo, quella sua morte, mi ha sconvolto. Non era un uomo comune, c’era in lui qualcosa di indefinibile, di straordinario. C’era una calma sovrumana, come quella dei cammellieri che sono abituati a viaggiare, a traversare in solitudine gli immensi deserti degli altipiani, abituati quindi ai lunghi silenzi e soprattutto a non avere fretta, ma sanno attendere, secondare l’imperscrutabile turbinare delle accecanti tempeste di sabbia, senza lamentarsi o scomporsi; sì, quell’uomo doveva aver attraversato molti deserti, in vita, in solitudine. Certamente fu uomo di poche essenziali parole, di quelli che parlano sopratutto con se stessi, in silenzio. So che ha disputato nel Tempio, disputato sottilmente con farisei e sadducei. Furbi, ma di assoluta pochezza. Lo invidiavano forse, certamente lo temevano. E lo hanno crocifisso. Insieme ad altri due, ma lui era molto diverso dai due che gli avevano messo accanto – come alibi – e che con lui sono morti. Quelli si agitavano, come mi sarei agitato io al loro posto, e forse ancora ora mi agito solo al pensiero di quegli orrori, frustate, chiodi, maltrattamenti d’ogni genere…

 

Lui no, mentre pativa quei tormenti soffriva, si vedeva bene che soffriva, la sua carne era piagata, con i lunghi solchi delle frustate, il sangue che si raggrumava sottopelle e la pelle diventata blu e gonfia, translucida. Tutto questo era anche in lui, così come il sangue dai palmi delle mani forati, lacerati dai chiodi, quando fu inchiodato alla croce e pendette giù come uno straccio. E lui soffriva, era uomo di carne e di ossa dolenti. Ma poi, sembrava come se non curasse: ma no, che dico, lui curava quel che gli stava accadendo, direi quasi che in certi momenti sembrava se lo fosse aspettato. Mi è sembrato addirittura, Yosef, che quell’uomo prevedesse la frustata, come se sapesse che stava arrivando prima che il soldato, il carnefice, sferzasse il colpo. Ecco – strano – quell’uomo, sì, anticipava le mosse dei carnefici. E in più – credimi, Yosef – era come astratto da tutto quel che gli accadeva e accadeva intorno a lui. Ne era pienamente consapevole…

 

Era anche – ne sono sicuro – un uomo di pietà. Mi è passato vicino, carico del legno della croce, quando lo trascinavano per le strade, dal posto della tortura, la caserma della legione, fino al colle, alla gobba sassosa del Golgota, per esservi crocifisso; mentre passava strascinando a stento i piedi ho sentito che sussurrava – a se stesso, credo, non so se si rendesse conto della gente che affollava la strada, che lo ingiuriava, anche, o lo derideva – “Padre, non mi abbandonare”. Di chi mai potesse essere figlio, ho cercato di immaginarmelo. Da quelle parole, si può dedurre che il padre fosse – o sia, certo vive ancora – uomo potente, cui si può chiedere aiuto sapendo che quello ha la facoltà di accorrere e di portare aiuto, forse di liberarti, se sei in grosse difficoltà, anche di fronte alla giustizia…

 

Oserei dire, se sapessi cosa significa, che aveva un atteggiamento sovrumano; di certo, un comportamento regale. Va bene che lo hanno crocefisso perché doveva essere un impostore che si era proclamato addirittura “Re dei giudei”. Come se fosse una cosa possibile. Tutti noi aspettiamo il Messia che ci liberi e ci faccia tornare ad essere un popolo indipendente, forte e rispettato, come era con il re David, e gli altri della sua stirpe. Un Re non va in giro così malmesso, un Re veste di stoffe raffinate, color porpora, regge in mano lo scettro o la spada, incede maestoso: nulla di quanto invece quell’uomo ha compiuto… E tuttavia…”.

 

“… e tuttavia…”, gli fece eco, avidamente, Yosef.

 

“So che dico una cosa insana, Yosef, che se i farisei del tempio mi sentissero parlare così mi farebbero frustare a sangue; eppure, se dovessi figurarmi, ora, qui, una immagine del Messia, io prenderei la sua, il volto e i portamento di quell’uomo…”.

 

“Padrone, cosa dici?”.

 

“Dico, oso dire, e queste parole suonano strane anche alle mie orecchie, di me che le dico, che per un istante, quando mi è passato davanti tutto irrigato di sangue dolente, aveva un volto così luminoso, che mi sono detto: semmai uno fu il Messia, lo fu costui… capisci?”.

 

“Ma , caro padrone, perché noi siamo ancora in attesa del Messia? Cosa entra, cosa ha a che fare, questo Messia promessoci, come ce lo hanno descritto i profeti, con il nulla della morte e la scomparsa dell’uomo e il suo ritorno in dio?”. Yosef è inquieto, non ha risposte soddisfacenti da darsi. Né gli pare che il padrone abbia voglia di parlare ancora. Di parlare, di spiegare. “Non sa cosa rispondere, nemmeno lui”, sospira. Yosef è solo un cammelliere, non può mescolarsi con le dispute dei saggi, dei sacerdoti del Tempio, i sapienti, né con la sottile astuzia diel suo padrone, che è pure molto saggio.

 

Ma il padrone stasera è insaziabile, con le parole, e riprende il discorso, con il volto chino a terra, nel riflesso della fiamma che riscalda e fa luce, e stuzzica a pensare a riempire, con la parola, i vuoti nel buio della notte, dove si nascondono le cose, i volti, ma non le parole; che anzi, nel buio, sembrano acquistare nuova forza, nuova ricchezza, nuovo mistero, anche. A Yosef, come a tutti i cammellieri, piace ascoltare la parola che dà amicizia e calore, fratellanza e sicurezza. Da sempre, i cammellieri amano le parole sommesse, dette nel buio dell’accampamento, nel meritato riposo della sera, dopo la lunga tappa.

 

Sopra, le stelle brillano sempre in un cielo senza nubi. E il padrone dice: ”In quest’ora vuota e strana, le cose si confondono. L’uomo è ancora stanco, vorrebbe dormire e riposare senza sogni, anche se a volte lotta per non dormire, per restare desto, vigile, attento: c’è, infatti, sempre un po’ di timore, nell’arrivo del sonno. Il sonno è un po’ la prefigurazione del morire, nessuno ama morire, se non il santo, che pregusta la gioia della rivelazione ultima, che lui si è guadagnata, e gli spetta. Ma l’uomo comune non può non provare timore. Il risveglio non è sicuro per nessuno, così come è sicuro che non vi sia risveglio dalla morte, almeno per l’uomo comune, che è timoroso soprattutto perché sa di essere peccatore. Al peccatore sono promesse punizioni e sofferenze, il peccato è un debito, un debito inestinguibile, non c’è ricchezza sufficiente per estinguere il peccato. O forse c’è, ed è nell’obolo della misericordia. La misericordia può estinguere il peccato, lenire le ferite che il peccato ha prodotto come la sferza dell’esecutore di giustizia, del carceriere che frusta il colpevole, il reo, secondo lo condanni la giustizia umana. Però, quanto obolo sarà necessario per risarcire il peccato contro la fede, contro l’ubbidienza al volere del dio dei padri? Io sono figlio di uomo e vivo per adempiere la missione che spetta al figlio di uomo, ma ancora, avvolto come sono nel velo della mia carne umana, non so quale possa essere il risarcimento del peccato che è insito nella natura umana, dopo l’uscita dall’Eden. Nessuno mi ha ancora rivelato questo enigma, me ne tiene lontano, invece obbligandomi a vestire questa carne di putrefazione, che mi toglie chiarezza dell’occhio…”.

 

“Ma c’è contraddizione tra la fede, questa sostanza di cose sperate, e l’oggetto sul quale i nostri profeti, l’hanno indirizzata, nei secoli e secoli, nel nome santo del signore. C’è contraddizione, perché la fede è un mistero, un ponte sottile, di corda, teso sul fiume, sull’abisso del nulla, e non si può avere fede in quel Messia di cui si tramanda l’insegnamento…”.
Yosef tossisce, inquieto.

 

“Hai paura, Yosef, di quello che vengo dicendo? Hai paura perché io parlo del Messia che liberi il popolo eletto dalla schiavitù e dall’immagine dei potenti, dei sopraffattori, dei dominatori, degli dèi falsi e bugiardi, dei popoli che li adorano, coi loro vitelli, i loro simulacri d’oro, con la fronte china nella polvere? Io parlo di questo Messia e lo nego, lo metto in dubbio? Tu hai paura delle mie parole, mentre le ascolti nel buio? Anch’io ne ho paura, Yosef. Ma non posso farci niente, se questi pensieri vengono a turbarmi la mente, nella notte vuota del deserto. Il nostro popolo ha fede nell’arrivo del Messia, il liberatore, colui che porrà fine alle piaghe secolari delle tribù dei figli di Abramo: ma come si può avere fede in chi non sa, non può varcare il segno, il limite della morte, il segno, il limite che è tra la vita e la morte, il limite dove si avverte, incommensurabile con ogni altra cosa, la morte, l’annichilamento del corpo, dell’essere, dell’uomo stesso? La fede non può non traguardare questo limite, questa soglia, non può non spingersi oltre questa soglia. E invece il Messia che il nostro popolo aspetta non parla di queste cose: il Messia che il nostro popolo aspetta verrà solo per tagliare le catene visibili del nostro popolo, dei figli di Abramo”.

 

“Ma c’è altro, Yosef. Il Messia è pericoloso. I romani, questi odiati romani, ne chiedono conto ogni giorno, al Sinedrio, ai farisei del tempio, alla gente che corrompono perché faccia da spia: ogni volta che in piazza c’è un tumulto, una rissa, essi interrogano sul Messia, se sia arrivato, se qualcuno lo ha visto, dove si nasconde. Sono stupidi, i romani, ma non sentono ragioni. A loro importa il potere sulla terra, e sospettano sempre di questo Messia di cui sanno solo che dovrà venire a liberare il popolo dei figli di Abramo. Dal loro punto di vista, hanno ragione. E io penso che non dobbiamo contraddirli. Yosef, i romani. Il loro dominio durerà a lungo, su questa terra e sui figli di Abramo che l’abitano. E io non voglio contraddirli. Perciò penso che occorra fare qualcosa, qualcosa che capovolga questa immagine del Messia, qualcosa che travalichi anche il segno della morte, della morte terrena…”.

 

 


 

 

“Su, Yosef, svelto, sciogli subito i nostri cammelli, facciamo un salto lassù, su quel Golgota che sembra fulminato, sconvolto, piagato per le morti che deve vedere, di cui deve dare spettacolo ogni giorno… Corriamo alla tomba di Giuseppe d’Arimatea, dove il corpo di quell’uomo è stato deposto. Qualcosa mi attira perché io vada. Faremo presto. E tu, venendo con me, non avrai bisogno, dopo, di chiedermi cosa ho visto, cosa penso. Capirai anche tu, stupido Yosef… Andiamo , Yosef, aiutami, facciamo presto”.

 

“Padrone carissimo, ma cosa vuoi fare? Io temo…”.

 

“So che tu temi, ma sta tranquillo. So quel che faccio…”.

 

“Padrone, tu sai che i romani non amano essere contrastati, tanto meno presi in giro…

 

“Ma questo corpo, questo morto non appartiene più ai romani, non è più sotto la loro legge. Lo hanno deposto i soldati, ma poi le donne lo hanno abbracciato, sostenuto, avvolto nel sudario e deposto in questa fossa. Questo corpo sta qui per merito delle sue discepole. Quindi io non commetto alcun crimine, rispetto alla legge…”.

 

“Sarà così, padrone, ma a me pare opera demoniaca, quella cui ti appresti…”.

 

“Io credo invece di fare opera necessaria, giusta. Necessaria nello spirito. Io faccio succedere quel che era solo speranza… La speranza, che deve nutrirsi della fede.. Oh, il mondo ha bisogno di speranza, dunque di fede.. solo l’uomo ha speranza, la nutre, perché la speranza può altrimenti deperire e morire. Va nutrita continuamente. La speranza è nell’uomo, solo nell’uomo, dipinge il suo futuro di vari colori. Tra gli animali forse il cane possiede questa facoltà: il cane che aspetta il padrone amato, ha una sorta di speranza nel suo cuore di bruto, attende in ansia il suo ritorno…

 

Bisogna essere forti, per capire l’obbligo che ora qui mi stringe. Yosef, io sto compiendo un’opera degna dell’uomo, dell’umanità intera forse, certamente degna della antica pietà dei nostri padri… Io sono solo una mano, il braccio dello spirito santo. E’ lui che mi ha ispirato, mi ispira…”.

 


 

 

“Guarda questo corpo. E’ un povero corpo d’uomo, martoriato, ferito, ferito a morte. Ha il costato aperto, le mani strappate dai chiodi, così come i piedi. Lui che dicono fosse un grande camminatore, capace di portarsi in un giorno solo da Tiberiade a Hebron, a Gerusalemme, viaggi che di solito richiedono tre giorni se hai un cammello, un mulo. Guardalo, con i piedi come sono questi di oggi non potrebbe fare un solo passo. Non starebbe in piedi…”.

 

“E che vantaggo avrebbero gli uomini da questa sua morte, che lui ha patito in modo così santo? Così ho deciso, amico Yosef – e sfido la sorte, la giustizia se vuoi, ma soprattutto la mia coscienza – di sottrarlo, sottrarre il suo corpo alla vista degli uomini…
… E dunque, amico Yosef, dammi una mano, la tua mano forte. Apri il telo che ti ho fatto portare. Facciamo piano, non dobbiamo svegliare la guardia. Dobbiamo estrarre questo corpo dal sarcofago, deporlo e avvolgerlo nel telo. Lo porteremo via. Lo nasconderemo, così avvolto nel telo, tra le nostre merci, tra i sacchi caricati sui cammelli, e lo seppelliremo altrove, nelle sabbie del deserto, lontani dalla città che lo ha fatto morire. Nessuno dovrà mai sapere dove. E quando le sue donne verranno a prenderlo dal sepolcro per ungerlo di unguenti e profumi, non lo troveranno. E penseranno che lui è risuscitato, tornato a vivere dalla morte. E grideranno al miracolo, lo sai come sono le donne. E diffonderanno la buona notizia, e tutti crederanno loro, perché nessun potrà mai pensare che a qualcuno è venuto in testa di sottrarre un corpo in putrefazione… per farne che? E invece, così, tutti crederanno alla resurrezione dell’uomo che voleva essere Re. E questa sarà la prova, Yosef, la prova che Dio, il Messia è tornato… e potrà così crescere e fiorire la speranza non del nostro popolo, ma di ogni altro popolo. Perché lui ha detto, come mi hanno narrato, che a Cesare si deve dare quel che è di Cesare, la moneta cche ha sopra il suo volto, ma non la speranza che è altro, che è rivolta a Dio…

 

Quando io e te, unici testimoni di quanto sta ora accadendo, saremo morti, magari anche noi sepolti, da buoni cammellieri, nelle sabbia di un lontano deserto, non vi sarà più nessuno che possa rivelare quanto è accaduto questa notte, prima che il gallo canti e l’alba schiarisca le strade. Resterà solo la speranza, nocciolo di fede, una nuova fede, forse la più importante. La fede in un Messia così potente da sconfiggere le tenebre e aprire le porte dell’inferno alla luce di Dio. Sarà una fede invincibile, eterna, che sgombrerà i cieli di ogni altra immagine divina, perché dimostrerà quanto siano fallaci e bugiardi questi piccoli dèi greci… E questa fede sarà come l’acqua sorgiva quando la vediamo sgorgare tra le sabbie e le rocce dei deserti, sarà la fede nella possibilità della resurrezione della carne o oltre la carne, o di un Dio, un nuovo Dio, o di Dio, se si vorrà… e la fede, questa fede, sostanza di cose sperate, diverrà parola, si diffonderà come parola, come la Parola: non mito, ma Parola, la Parola che è ben più che il Logos di cui vanno orgogliosi i greci, perché la Parola, il racconto – nella storia – della Storia, viene prima del Logos, che è il dire degli uomini tra gli uomini…

 

E allora che importa, che importerà cosa è davvero successo, in queste fuggevoli ore? Che importa se tutto avverrà perché io, un umile padrone di cammelli, l’ho pensata e voluta, questa vicenda? Io scomparirò e non vi sarà più traccia di me nel mondo, ma questo mondo vedrà correre per tutte le sue piste, per tutte le strade, la speranza nella resurrezione, dunque nella immortalità della vita… Vedrà correre, come un grande inarrestabile fiume, la Parola… E’ questo, che attende l’uomo sotto ogni cielo e ogni sole; e noi, io e te, Yosef, glie l’avremo data, all’uomo, glie l’avremo accesa per sempre la fiaccola della speranza… glie lo avremo dato il fiume della Parola. Che importerà l’accaduto, il fatto? Basterà la parola, la Parola che crea, che vive…

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