Hillary Clinton e le donne: un incontro durante la campagna per le primarie che diranno se sarà lei il candidato democratico alla Casa Bianca

Quando eleggeremo una ragazza?

Hillary e le donne. Una guerra quasi d'amore

Redazione
Quelle che la amano, quelle che non si fidano, quelle che non le perdonano di essere rimasta accanto a Clinton. Girotondo attorno alla signora dell’establishment che ha ucciso il femminismo, o forse invece l’ha salvato.

La Clinton è un grande specchio che parla di noi – Sottrarsi a un selfie è un lusso che nessun candidato alla Casa Bianca si sogna più. Bernie Sanders all’inizio era impacciato e ritroso, come un po’ su tutto: ora sembra che non abbia fatto altro nella vita che l’aspirante presidente. Ci sono però modalità differenti per assecondare il bisogno universale di scattare un selfie: Hillary Clinton si mette in posa, sorride, abbraccia, si alza, s’abbassa, ma quando vede troppi tentennamenti, strappa il telefono dalle mani tremanti e ci pensa lei. Poi via, un’altra foto. C’è chi apprezza il suo piglio e scoppia a ridere, c’è chi resta intimorito o infastidito: aspetta un attimo, è il mio selfie!

 

Hillary non si preoccupa, o almeno cerca di non farlo più, perché lo sa, lo sa da anni, lo sa da sempre che conquistare consensi non è il suo forte. La sua competenza è riconosciuta da tutti, come la sua preparazione, talvolta persino la formula “quella intelligente era lei” o quel che si dice oggi: “è l’unica presidenziabile”, ma con la popolarità non c’è niente da fare, non le riesce. E sì che a questa campagna elettorale, che potrebbe per lei essere l’ultima, è arrivata con le idee chiare: non devo sembrare inevitabile, non devo sembrare arrogante, non devo sembrare ricca e menefreghista, non devo sembrare un maschio. Si è preparata con metodo, secchiona e sorridente come è lei prima che le urne si aprano e inizino i tormenti, si è fatta consigliare dai migliori strateghi del mondo, si è sottoposta alle prove dei dibattiti facendosi maltrattare tantissimo dai suoi collaboratori che impersonavano gli avversari, ha inventato un logo moderno e duttile, ha riempito Instagram di foto belle per tutti, per i nostalgici e per gli hipster innamorati dello stile retrò, ha smesso i panni del commander in chief che aveva provato a infilarsi nel tragico 2008 e si è messa a raccontare molto di sé, delle difficoltà, delle sofferenze, di Bill, dei rimorsi, delle lacrime, della prima volta che la nipotina Charlotte ha detto “nonna” (il genero perfetto l’aveva filmata), del potenziale inesplorato che una donna può fare esplodere se dovesse entrare alla Casa Bianca come presidente.

 

Tecnicamente la strategia si chiama “umanizzare il candidato”, ma con Hillary è da sempre un’avventura molto più grande, molto più dolorosa, perché lei si porta addosso tutto il mondo, il suo, il nostro, quello dell’America, quello degli indimenticabili anni Novanta, le ambizioni di una ragazza che è arrivata al college repubblicana e ne è uscita democratica, di una ventenne che ha accantonato i sogni personali di carriera per coronare quelli di un marito traditore e bugiardo, di una donna in politica che ancora oggi dice: quanto è più facile promuovere un marito, un collega, un amico, quanto è facile andare sul palco e dire: “Guardatelo, è fichissimo, votatelo”, e quanto è impossibile dirlo di se stesse. Hillary è la storia di tutte, ognuna di noi sa che cosa avrebbe fatto al suo posto quando scoppiarono gli scandali di Bill, le corna, i sigari, le altre corna, se non si fa l’amore non conta; ognuna di noi sa se la detesta da allora perché perdonò o se la detesta oggi perché si capisce che ha perdonato per interesse; ognuna di noi ha un giudizio sui suoi occhiali da sole, sulla lunghezza dei pantaloni, sulle rughe, sull’acconciatura, sui suoi finanziamenti e sulle sue possibilità. E’ un enorme specchio, Hillary, di tutto quel che di irrisolto c’è nelle ragazze. Per questo forse molte scappano, rifiutano un modello, rifiutano una visione, rifiutano un’immagine riflessa che non è quella che vogliono, o che si aspettavano di trovare. Altre si fermano e si osservano, sognano, piangono, sperano, chissà se davvero una donna alla Casa Bianca sarà una rivoluzione. Hillary intanto ripubblica una frase del discorso che tenne a Wellesley, nel 1969, quando nello specchio forse almeno lei si ritrovava, o magari già non più: “La paura è sempre con noi, ma non abbiamo tempo per lei. Non ora”.

Paola Peduzzi

 



 

 

 

Da anni ci chiediamo perché Hillary Clinton non riesca a costruire un rapporto d’amore con l’America. Ci siamo scambiate messaggi, link, fotografie, vignette, abbiamo commentato ogni dettaglio della vita di Hillary, ogni successo, insuccesso, tailleur, logo, tweet, ogni dichiarazione e retroscena, ci siamo dette: dai, vince; poi invece: no, non ce la farà mai. Questa settimana abbiamo chiesto a scrittrici, commentatrici, femministe e politiche di offrirci il loro sguardo per spiegare quali sono i problemi di Hillary con il mondo femminile e con la presidenza degli Stati Uniti. Perché le donne non fanno un cerchio d’acciaio intorno a lei? Ecco il girotondo delle opinioni. Da qui a novembre, poi, racconteremo come andrà a finire.

 

Annalena Benini e Paola Peduzzi

 


 

Mi è sempre stata simpatica, fin da quando è apparsa sulla scena con quell’aria da studentessa secchiona. L’ho vista invecchiare sotto i riflettori del mondo, cambiare pettinature, fogge di vestiti, montature di occhiali. Affrontare con dignità da vera first lady lo scandalo Lewinsky, mentre qui in Francia per molto meno la first girlfriend di Hollande ha distrutto i mobili dell’Eliseo, richiesto un ricovero in ospedale e affidato a un libro la sua vendetta pubblica. Oggi non mi dispiacerebbe vederla diventare il primo presidente donna degli Stati Uniti. Non so se sia una scelta politica giusta, ma nel passato sono stati fatti così tanti errori votando degli uomini che non può essere una cattiva idea provare a cambiare. Non piace alle ragazze americane che la considerano una nonna ormai superata, leggo sui giornali. Va bene: le donne americane non sono un partito. Vorrà dire che non la voteranno e si faranno governare da nonno Bernie. Però penso che per le donne nel mondo sarebbe bello vederne arrivare una al governo della prima potenza militare. Who cooked Adam Smith’s dinner? Chi cucinava la cena a Adam Smith?, si chiede il titolo di un libro di Katrin Marcal che sta facendo discutere in America. La madre, ci spiega l’autrice, perché il celebre economista viveva con lei anche da adulto. E così si potrebbe andare avanti per ore. Chi lavava le lenzuola di Washington? Chi preparava la colazione di Lincoln? Chi stirava le camicie di Wilson? Siamo arrivate tardi sulla scena del mondo. Prima eravamo bloccate dietro le quinte, impegnate a partorire, allattare, imboccare, cucinare, strofinare, spolverare. Ora che siamo riuscite a salire sul palco lasciatecelo anche un po’ governare questo mondo, dico io. Non potremo certo fare peggio di chi ci ha precedute.

Cristina De Stefano. Scrittrice, giornalista e scout letterario, vive a Parigi. Ha pubblicato per Rizzoli “Oriana una donna”, prima biografia autorizzata di Oriana Fallaci, e per Adelphi “Americane avventurose” e “Belinda e il mostro, vita segreta di Cristina Campo”

 


 

Da qualche giorno parliamo di un’anomalia che non ci riguarda proprio, ovvero di come sia possibile che, in un paese lontano dal nostro, gli elettori giovani non si sentano rappresentati da una quasi settantenne che ha fatto le battaglie più importanti degli ultimi decenni ma non ha avuto l’occasione della vita. Mentre cerchiamo di capire perché Hillary Bonino venga surclassata dagli uomini nell’immaginario under trenta, e indipendentemente da chi voteremmo di qua o di là, mi pare che di per sé il femminismo goda di ottima salute. Non so se ci sia un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano le altre donne, di certo ce n’è uno per quelle che pensano che dobbiamo votare qualcuno perché è donna in quanto tale. La buona notizia è che le più giovani di noi non ci finiranno, anche se magari voteranno male e se ne pentiranno (fino a trent’anni ho votato solo nomi di cui mi sono pentita, in realtà anche dopo), quindi siamo andate abbastanza avanti. Chimamanda Ngozie Adichie ha scritto che dovremmo essere tutti femministi; fa sorridere pensare che devi essere donna per essere femminista o per fare leggi che servano alle donne, qualunque cosa significhi, e già su questo non ci metteremmo d’accordo in tre. Pensarlo è un po’ come pensare che l’antirazzismo spetti ai neri e la difesa dell’esistenza di Israele agli ebrei, un po’ come ritenere che i problemi della Sicilia li conoscano e li possano risolvere solo i siciliani (io, fin da piccola, speravo ci colonizzassero i finlandesi).
Nadia Terranova. Scrittrice, nata a Messina, vive a Roma. Il suo ultimo romanzo “Gli anni al contrario” (Einaudi) ha vinto il premio Bagutta

 


 

La candidatura di Hillary non ha nulla a che fare con il femminismo, e ha tutto a che fare con il clintonismo. Il femminismo è una copertura: il problema di Hillary oggi non è che le donne non la votano, è che rappresenta un modo di fare politica con caratteristiche chiare fin dagli anni Novanta, quando alla Casa Bianca c’era Bill. A me e a molti non piaceva già allora. Ora non piace a buona parte dell’elettorato americano. Il clintonismo si fonda su un’idea di potere come raccordo fra gruppi di influenza e gruppi di grande ricchezza. Fin qui non ci sarebbe nulla di male, perché negli Stati Uniti la politica si pratica a questo incrocio. I Clinton vi hanno aggiunto un forte senso di entitlement, il senso di essere dalla parte giusta della storia – avevano 40 anni e venivano dal Sessantotto, era il mantra – dunque al centro quasi per diritto della politica, e dunque in diritto di essere al di sopra del giudizio comune. Questo si intende oggi quando si sostiene che Hillary e Bill non sono amati dagli elettori perché avvertiti come parte integrante dell’establishment. 

 

E’ una idea di sé che i due hanno coltivato fin dalla prima Amministrazione Clinton: ad esempio, il messaggio con cui si presentarono alla Casa Bianca fu: “voti uno e prendi due”, il che è scandaloso per una democrazia in cui non si vota certo una coppia ma un presidente. Fin da allora, come si vede, i Clinton immaginavano una via dinastica della presidenza, e se l’idea non ha nulla a che fare con la democrazia, figurarsi con il femminismo. L’entitlement che allora portarono in politica si è rivelato contagioso, come dimostra l’esperienza in Italia dei Prodi e dei D’Alema o in Germania di Gerhard Schröder, e soprattutto di Tony Blair nel Regno Unito. Con il risultato che il mancato successo oggi di Hillary diventa il simbolo della fine di quella generazione. Essere donna dunque non c’entra quasi nulla oggi con la sua candidatura: non è certo femminista costruirsi una carriera su quella del marito, né è femminista predisporre una corsia preferenziale per la propria figlia (al suo primo lavoro, alla Nbc, Chelsea guadagnava 600 mila dollari l’anno!). Una femminista almeno crederebbe nelle pari opportunità, nel merito – se non per sé, almeno per le giovani donne.

 

Lucia Annunziata (testo raccolto). Giornalista, conduttrice televisiva, direttore di Huffington Post Italia

 


 

Ciò che rende Hillary Clinton meno attraente è la sua inautenticità, ed è uno dei temi di questi anni, il punto da cui discende l’appeal dell’antipolitica: persone che arrivano dal nulla e portano con sé altre realtà. Hillary invece appartiene totalmente all’establishment, porta con sé quel mondo, anzi è quel mondo, e per questo in America ha poca presa, esercita poco fascino, soprattutto sui giovani che chiedono uno spontaneismo che io invece non amo affatto. Non mi affascina, non mi fido, credo nella necessità di una realpolitik e non sono nemmeno sicura che altri siano più puliti di Hillary Clinton per il solo fatto di essere in politica da meno tempo. Ma l’altra questione è il femminismo, che in America fa storia a sé, in particolare riguardo all’ossessione del rapporto fra pubblico e privato. E’ ciò che le femministe non le perdonano: aver preso le parti di un marito bugiardo e traditore, essere rimasta con lui. Ma proviamo a rovesciare tutto: Hillary diventa presidente degli Stati Uniti e intreccia una relazione con un giovane stagista, dice bugie al marito e al paese e Bill Clinton prende le sue parti. Lui che mette da parte la virilità e l’orgoglio per proteggere un matrimonio e un’idea di mondo libero: ci piacerebbe molto. Ecco, questo capovolgimento del giudizio non mi piace. Non trovo che sia per niente femminista. E penso anche che le persone tengano in piedi matrimoni a volte per la casa al mare, comunque per molto meno del sostegno al presidente del mondo libero. Dicono che Hillary non sia stata sufficientemente femminista in questo, forse invece è vero il contrario e non ho difficoltà a dire che mi piacerebbe un presidente donna. E una donna come lei, molto preparata, molto professionale, e in politica da sempre. Credo che sia un dono, un valore aggiunto, non certo una colpa da scontare.
Elena Stancanelli (testo raccolto). Scrittrice, collabora a Repubblica. Il suo nuovo romanzo, “La femmina nuda” uscirà per La Nave di Teseo il prossimo 31 marzo

 


 

Premetto che sono una fan di Hillary Clinton dal 2008, e questo influenza il mio giudizio. Hillary Clinton non è estranea alla distanza che c’è tra necessità di rappresentanza ed effettivi meccanismi di selezione. Per quanto tutti in astratto auspichino una rappresentanza ampia e varia tra chi fa politica, al momento della selezione i gruppi sociali non sono compatti nella scelta. Le donne faticano a votare le donne, così come i giovani non sempre scelgono i giovani, e gli immigrati tendono a non votare gli immigrati. Questo vale soprattutto per le cariche monocratiche: sono molto pochi i sindaci o i presidenti donne, anche in paesi dove la partecipazione politica femminile è alta. Per esempio in Gran Bretagna ci sono i collegi uninominali e non le preferenze per eleggere i deputati, e c’è un serio problema di sottorappresentanza femminile. Non ci sono ragioni per pensare che per Hillary Clinton, che pure ha un supporto ampio tra le donne, le cose possano essere totalmente diverse. Hillary Clinton poi è vittima di una rappresentazione pubblica a due dimensioni, come tutte le donne che fanno politica: la competenza nelle donne è spesso letta come il tratto distintivo della maestrina; la decisione come l’attributo di una virago; e a indugiare sull’aspetto umano e passionale della candidata si corre sempre il rischio di dipingerla come sentimentale o non sufficientemente serena. Madeleine Albright ha ripreso un suo cavallo di battaglia “esiste un luogo speciale all’inferno per le donne che non aiutano le donne”, utilizzandola per commentare le scelte di voto delle millennials. La citazione, per quanto suggestiva, non è efficace: scegliere un candidato per la presidenza degli Stati Uniti non è equivalente a dare una mano. Le millennials si comportano come quello che sono: figlie del femminismo, cioè di una stagione che ha permesso loro di ampliare moltissimo le proprie possibilità di scelta. Come tale, le millennials scelgono, più che aiutare.
Lia Quartapelle. Deputata del Partito democratico dal 2013, capogruppo del Pd in commissione Esteri

 


 

Da invidia a disprezzo il passo è breve. Finché c’era da tifare la vittoria annunciata di una donna a presidente degli Stati Uniti, era circonfusa di glamour. Poi Barry O l’ha asfaltata, e ora la incalza un altro rampante New Guy, spacciatore di olio di serpente, come gli imbroglioni che giravano il Far West assicurando che guariva tutto, dall’unghia incarnita all’impotenza e infertilità. Quando la corsa di Hillary era fresca e vincente, la polvere di stella calamitava le donne. Ora è una Old Girl, con un bagaglio politico e famigliare usurato. Tutti i giorni i media la mitragliano per il forziere della Fondazione Clinton, i ricchi cachet, le fottute email di stato non protette, e persino per la fama di tosta – utile un tempo per mostrarsi abile a comandare eserciti – ora tramutata in guerrafondaia. Le lupe annusano la preda ferita. E’ unfair ricordare che il mobbing, la bitchiness delle donne verso un’ex amica è leggendaria e documentatissima? Succedeva con brio nei gruppi femministi. Hillary è oggi un’appestata da votare solo se è l’unica alternativa al Satana di d-d-d-destra. “The Bern” promette un futuro economico radioso, una sirena per tante femministe e non solo, che hanno fatto le cicale e ora contano i penny. La logica della folla, che prima ti osanna e poi ti impicca, è potenziata dai social forum: se tifi Hillary, il blowback è ustionante. I maschietti sono estasiati di abbandonare una donna per lo sconosciuto predicatore marxista travestito da Robin Hood, e gli ormoni femminili (Oh yes, Gloria Steinem) li inseguono. Diciamocela: non è più sexy sostenere una donna Commander in Chief. E’ molto più figo cestinarla come uno yogurt scaduto, e inseguire la favoletta dello zio bonario spuntato dal nulla che promette vitalizi statali. Il femminismo è morto, in coma, o alle Hawaii con un Hot Guy, ma il conformismo non è mai stato così in forma.
Anselma Dell’Olio. Femminista, giornalista, critica cinematografica, nata a Los Angeles, vive a Roma

 


 

Se le campagne elettorali avessero già dismesso gli slogan per procedere per nuvole di tag, clouds di significati direttamente disponibili sui dispositivi, parole e concetti come “femminismo anni Settanta”, “femminismo culturale”, “autenticità”, “io”, “voi”, “noi”, “donne”, “Monica”, “Bill”, “menzogne”, risulterebbero, nella campagna di Hillary Clinton, in evidenza. Più di “salute”, “maternità”, “economia”, “riforma sanitaria”. E a vederla così, la campagna di Mrs. Clinton appare fondata sul genere più che sulla rappresentanza, sull’homo più che sul civis, per ripescare distinzioni liceali.

 

Non è il presente tuttavia a far virare al rosa acido l’autenticità di Mrs. Clinton, è il passato. L’aver mantenuto il proprio cognome dopo aver sposato Bill nel 1975, l’essere stata la prima donna socio del Reform Club degli studi legali d’America e la prima first lady a ricoprire una carica elettiva. E’ l’indipendenza della vita di prima a far apparire incredibile (Nun ce poi crede’, come dicono a Roma) il suo aver difeso pubblicamente il marito (prima fedifrago e poi bugiardo) a scapito di una stagista, e che rende oggi incomprensibile l’aver ceduto, nell’impostazione della campagna elettorale, al vezzo di anteporre la donna al funzionario, il genere al politico, insufflando così la sfiducia che il genere non sia già in sé, per sé e senza sottolineature, politico, specialmente se corri per la presidenza americana.

 

Sfiducia insopportabile per me che ho quasi quarant’anni, e assurda agli occhi delle generazioni successive per cui il genere si indossa e si cambia, giustamente. Fossi in campagna elettorale o avessi il desiderio o l’opportunità di rappresentare qualcuno – questa è la democrazia –, eviterei di chiedere il sostegno delle donne in quanto donne e di mugugnare per non avere il sostegno delle donne in quanto donna.

 

A ben guardare quindi, se è plausibile sostenere che la campagna di Sanders sia al “noi”, mi pare invece che la campagna di Hillary Clinton non sia alla prima persona singolare – come sostiene Maureen Dowd negli editoriali del New York Times – non dica “io”, ma dica “voi”, sia una campagna, in breve, paternalistica. Voi, voi ragazze mie, votatemi perché sono una donna.
Chiara Valerio. Scrittrice, ha tradotto “Flush” di Virginia Woolf. Il suo ultimo romanzo, “Almanacco del giorno prima”, è uscito nei Supercoralli di Einaudi. Nata a Scauri, vive a Roma

 


 

Alle scorse elezioni ho tifato per Hillary Clinton, ma mi sono resa conto che l’America era pronta per un presidente nero ma non per una donna. Però poi, facendo il segretario di stato, entrando più a fondo nella politica, Hillary si è, per così dire, sfemminilizzata, ha assunto una connotazione più neutra: è diventata un essere umano politico, preparatissimo e perfetto. Ma in questo modo si è anche raffreddata, non è più vista come quella che sa parlare alle masse e scaldare i cuori. Ha tolto da sé un aspetto importante della femminilità: l’empatia. L’imperfezione, anche, la spontaneità che le persone cercano e amano negli outsider. Ma lei appartiene all’establishment, anzi lei è l’establishment, e quindi si fa fotografare alla mensa non come se fosse una cosa normale, non come se fosse una donna normale che va a fare la spesa. Ha quest’aura di inavvicinabilità che le toglie consenso. E’ perfetta per un ruolo tecnico, in una dimensione neutra, e io vorrei una donna di grande capacità politica alla guida degli Stati Uniti, ma lei ha perso il suo lato umano. Anche ai tempi di Bill Clinton, quando ha compiuto quel gigantesco gesto di perdono che le femministe americane ancora le vogliono far scontare, non ha ceduto all’imperfezione. Noi non sappiamo davvero chi sia lei. E’ questo il problema.
Beatrice Lorenzin. Ministro della Salute

 


 

E così le giovani democratiche non votano per Hillary Clinton ma per il suo avversario nelle primarie, Bernie Sanders. Tradimento e misoginia femminile, donne contro donna, donne che disertano quando si tratta di fare “sul serio”, posto che per la “vera” politica alla fine funzionano meglio i maschi? Ragazze che preferiscono fidarsi del modello “vecchio saggio” piuttosto che di colei che in troppi vedono come “vecchia strega”? Non mi sembra proprio che sia questo il caso. Penso invece che le giovani democratiche ne abbiano semplicemente abbastanza della premiata ditta Clinton&Clinton, che sa troppo di establishment. E sa di occupazione permanente dei luoghi del potere da troppi anni per poter far sognare un’ennesima Nuova Frontiera, soprattutto ora che la middle class impoverita vede ridursi drasticamente le aspettative di benessere, cosa che naturalmente interessa prima di tutto le giovani e i giovani. Certo, è abbastanza grottesco che un vecchissimo arnese come Sanders, con i suoi proclami da Terza internazionale e da sessantottino fuori tempo massimo, possa essere entusiasticamente identificato con il nuovo che avanza. Grottesco ma non insolito, ché di tristi casi analoghi sono piene le cronache politiche degli ultimi anni. Scopriamo semplicemente che nemmeno gli Stati Uniti sono immuni dalla sindrome. E comunque nemmeno Hillary dà grande affidamento nel senso del nuovo che avanza. Il suo stucchevolissimo spot elettorale, nel quale si proponeva come “il campione degli americani”, dopo la classica sfilata di donne, neri, giovani, ispanici, gay ecc. ecc., suona troppo convenzionale e troppo finto per la candidata lautamente foraggiata da Goldman Sachs, come simpaticamente non ha mancato di ricordare il suo avversario Sanders. Lei non è il campione degli americani e nemmeno delle americane, come ricordano i mesti (per lei) risultati delle primarie fin qui svolte. Il femminismo, francamente, non c’entra proprio un tubo.
Nicoletta Tiliacos. Giornalista, femminista

 


 

Più che una questione femminile, quella che sta mettendo in difficoltà Hillary Clinton è una questione generazionale. I giovani – anche le giovani donne – preferiscono Bernie Sanders, perché parla di diseguaglianze e soprattutto perché parla direttamente a quella generazione che ha perso fiducia nel futuro a causa della crisi economica e delle difficoltà di questi anni, e lo fa rassicurandola, promettendo – con una buona dose di demagogia e populismo – di sistemare in un attimo tutto quel che non ha funzionato. La frattura cui mi riferisco, tra donne giovani e meno giovani, non esiste, però, soltanto negli Stati Uniti, esiste in Europa e anche in Italia. Penso per esempio alle discussioni nostrane sulle quote nelle liste elettorali, che hanno creato spaccature nel mondo politico femminile, seguendo spesso proprio una linea generazionale. C’è chi si riconosce nelle battaglie delle femministe e pensa che ancora siano da combattere e da vincere, e c’è chi, tendenzialmente più giovane, pensa che certe battaglie siano superate e vinte, e che ora non ci si debba auto-discriminare in nome di lotte antiche. Naturalmente non si può non riconoscere che le donne sono ancora poco rappresentate al potere, in Italia ancor meno che in America: i nostri partiti (fatta eccezione per Giorgia Meloni) non sono riusciti a creare una leadership femminile forte, in grado di attrarre consensi. Ma votare una donna in quanto donna non rende, in generale, un buon servizio alle donne: la vittoria di Hillary sarebbe importante per la storia che rappresenta, una storia di continuità con l’Amministrazione Obama, una storia di concretezza e buon governo. Una storia che non si fonda sulla demagogia e sul populismo, su iniziative evidentemente fantasiose che in America fanno parte della propaganda di Sanders, qui da noi di quella dei grillini e di un bel pezzo della nuova sinistra italiana: l’incapacità di governare rischierebbe di essere la stessa. Infine, da democratica, non posso che riconoscere che se dovesse arrivare alla nomina, Hillary riuscirebbe a raccogliere voti anche al di fuori degli schieramenti, soprattutto se il rivale fosse l’altro populista in campo, Donald Trump. So bene che, se dovesse davvero vincere le elezioni, i libri di storia ricorderanno Hillary come la prima donna presidente degli Stati Uniti, ma la sua vittoria sarebbe un segnale importante a prescindere da questo dato. Quello che è certo è che se vuole vincere Hillary deve sapere che essere donna non basta, anzi, non basta più.
Anna Ascani. Deputata del Partito democratico dal 2013, membro della commissione Cultura, Scienza e Istruzione

 


 

Dichiarazione di voto: vorrei che Hillary Clinton diventasse presidente degli Stati Uniti. Non per femminismo e neanche per una questione generazionale. Ma per realismo.

 

Del suo rivale alle primarie Bernie Sanders condivido molte opinioni politiche: sono audaci, radicali e giuste. Indicano la ripresa, dopo anni di liberismo sconsiderato, di una dinamica di classe che in questi anni è stata semplicemente e superficialmente negata. Ma so che quel liberismo è fortemente radicato e difficilmente estirpabile. Credo che neppure l’elezione di un presidente che vuole sinceramente combatterlo potrebbe cambiare le cose. Ci vogliono tempi più lunghi e un’opinione pubblica più forte e convinta. Bernie Sanders vedrebbe cadere uno dopo l’altro i suoi programmi, sarebbe in breve costretto nei recinti della normalità del mercato, della guerra, degli interessi dei potenti. La sua diventerebbe, e in tempi brevi, una presidenza dimezzata. Il suo messaggio cancellato o reso opaco. Di fatto ingestibile.

 

La rottura simbolica di una donna presidente degli Stati Uniti è invece profondissima e non può essere cancellata né dalle sue politiche, né dalla sua appartenenza all’establishment. Ha – essa sì – un profondo e diffuso sostegno sociale. Corrisponde a una reale evoluzione della libertà e della condizione della donna. Le stesse femministe che oggi preferirebbero Sanders sono il frutto di questo profondo cambiamento. Hillary muta il volto degli Stati Uniti al di là delle sue scelte politiche e persino al di là di se stessa e del suo ingombrante marito e del suo discusso passato. Perché una donna a capo del più potente paese del pianeta ancora non l’abbiamo vista. E vederla cambia già molto anche da questa parte del mondo.
Ritanna Armeni. Giornalista e scrittrice. Il suo ultimo libro, “Di questo amore non si deve sapere” (Ponte alle Grazie) racconta la vita di Inessa Armand, amante di Lenin

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