La guerra, ne sono convinti all’Atlantic Council, non è solo scienza: serve anche un approccio creativo e multidisciplinare per comprendere veramente i conflitti

Guerre stellari

L'algoritmo contro i foreign fighter (e altre idee creative) per prepararsi al peggio

Pietro Romano
Fermare i terroristi prima che vadano in Siria, l’antidoto al vaiolo, il pacemaker di Putin in tilt. In America un pensatoio vicino alla Difesa chiama a raccolta creativi e scrittori di fantascienza per esplorare le possibilità pratiche e tattiche delle tecnologie emergenti.

Dimenticate le vetrine scintillanti di Burlington Arcade e Bond Street. Gli scaffali doviziosi di Fortnum & Mason e le luminarie rutilanti di Harrods. La Londra pre-natalizia dei primi anni Venti del nostro secolo, praticamente di qua a poco, è una città livida, devastata da terribili attentati di cui nemmeno si conosce la matrice ma che hanno già fatto fuggire buona parte dei ricchi del mondo e delle società internazionali che avevano fissato al residenza sulle sponde del Tamigi. Una Londra che somiglia sempre più alla “waste land” vaticinata circa un secolo prima da Thomas Stearns Eliot, popolata da zombies impauriti. Nell’èra del “big data” il ricorso all’algoritmo risolutore è scontato (anzi, come non averci pensato prima?) o forse è considerato come l’ultima spiaggia. Il governo individua in Alastair l’uomo giusto per trovare un algoritmo in grado di identificare i terroristi prim’ancora che lo diventino consapevolmente. Nella sua squadra c’è anche una giovane di origine pachistana, Claire, benché suo fratello maggiore Simon sia andato a combattere con l’Isis. Potenza del politicamente corretto, in una città che l’arrivo – nell’ultimo quarto di secolo – di milioni di immigrati da ogni parte del mondo ha trasformato in un crogiuolo di razze, religioni, ideologie, pregiudizi e intolleranze, una maionese finita per impazzire. Il lavoro di Alastair progredisce e si avvicina rapidamente alla meta. Anzi, la raggiunge. Perché l’algoritmo permette a Claire di scoprire che anche il suo fratello minore Gerald è a rischio: sta per entrare nelle fila dei terroristi. Ma lei lo protegge. La voce del sangue? Oppure non crede all’algoritmo? O c’è addirittura connivenza? Fatto sta che Gerald non solo diventa un soldato del terrore ma partecipa a un attentato destinato a cambiare la storia del Regno Unito e probabilmente dell’Europa: spargere i germi del vaiolo nello stadio di Wembley gremito. Né Londra né il Vecchio continente hanno antidoto e vaccino sufficienti ad arrestare il contagio ma Stati Uniti e Russia, che ne dispongono, non sono disposti a offrirne. Con le conseguenze facilmente immaginabili.

 

“The Exception That Proves the Rule” è solo un racconto. Per fortuna. Per ora. Autore ne è Mathew Burrows, che da poco ha dato alle stampe “The Future Declassified”, nel quale elenca una serie di rischi devastanti per il mondo, a meno che non si intervenga prima. Burrows ha trascorso ventotto anni nella Cia (gli ultimi dieci nel Nic, National Intelligence Council, la prima unità di analisi della rete creata nei Servizi degli Stati Uniti) dalla quale è uscito nel 2013. Oggi è direttore Previsioni strategiche dell’Atlantic Council, una organizzazione bi-partisan che promuove l’atlanto-centrismo nella politica internazionale americana.

 

All’ombra dello stesso Atlantic Council è nata la raccolta “War Stories from the Future”, la più recente iniziativa in ordine di tempo nell’ambito del “The Atlantic Council Art of Future Warfare Project”. Un programma consentito dal sostegno economico del filantropo George Lund. Finanziere cinquantenne di casa nella Washington-che-conta, Lund presso l’Atlantic Council già sponsorizza la “Lund Emerging Defense Challenges Iniziative”, diretta da Steven Grundman, esperto di affari militari e consulente in proprio di agenzie pubbliche e società private nel settore della difesa e della sicurezza.

 

L’intero progetto risponde a un’esigenza: valutare (o, meglio, rivalutare) il ruolo umano nella guerra moderna. Esiste una crescente convinzione, infatti, che la strategia militare sia ormai esclusivo appannaggio di statistiche e modelli complessi frutto delle enormi potenzialità del “big data”. Viceversa, sono convinti all’Atlantic Council, la guerra non è solo scienza, nonostante l’accelerazione tecnologica spinta, onnipresente, rischiosa. Serve un approccio creativo, e multidisciplinare, per comprendere i conflitti veramente. L’antologia “War Stories from the Future” punta a definirlo nell’ambito del racconto. Di fantascienza, ovviamente.

 

“La fantascienza ci ha abituati a vedere il futuro. Armi a propulsione energetica, a impulso elettromagnetico, che reagiscono autonomamente, tutte cose limitate alla fantascienza appena qualche decennio fa, ora stanno cominciando a materializzarsi. La fantascienza aiuta a modellare il futuro, a esplorare le possibilità pratiche e tattiche delle tecnologie emergenti o che verranno, anche a considerare le implicazioni etiche associate ai nuovi metodi di affrontare il conflitto”, spiega nell’introduzione alla raccolta Martin Dempsey. Uscito dall’Accademia di West Point nel ’74, Dempsey ha servito il suo paese in uniforme fino all’anno scorso. Per lungo tempo impegnato sui campi di battaglia all’estero, ha concluso la carriera con il più alto grado delle Forze armate americane: Chairman of the Joint Chiefs of Staff, vale a dire presidente del comitato dei capi di stato maggiore e, di conseguenza, consigliere della Casa Bianca per la Difesa.

 

“Questi racconti – sottolinea Dempsey – mostrano la vita dopo attacchi informatici paralizzanti, illustrano le conseguenze di una guerra condotta dallo spazio, analizzano i risvolti di una connettività pervasiva e totalizzante. Vanno dai significati delle nuove tecnologie a all’impatto dei nuovi metodi sui combattenti, a livello umano e psicologico. Questioni – conclude Dempsey – destinate a farci riflettere molto. Gli autori ci invitano a liberarci dalle bende che ci coprono gli occhi e a immaginare le cose come potrebbe diventare, in meglio e in peggio”.

 

Una immagine che, per i cultori della fantascienza, è bene chiarire. La raccolta, infatti, è agli antipodi della “hard science fiction”, la fantascienza tecnologica caratterizzata dall’accuratezza del dettaglio scientifico. Né concede spazio all’ironia che emerge periodicamente, come un fiume carsico, nell’epopea spaziale di “Guerre stellari”. E’ orientata piuttosto all’angoscia di “Blade Runner” (talvolta declinata nella dimensione apocalittica, in sintonia con l’approccio generalmente pessimistico della contemporaneità) e alla visione “slipstream”.

 

Proprio l’utilizzo della finzione e dell’immaginario per dare maggiore impatto a un messaggio radicato nella visione, politica, ideologica, del reale, la funzione “slipstream” appunto, sembra unire gli autori in un condensato di problemi, incognite, paure. A dispetto delle biografie dissimili, talvolta interessanti per se stesse. E’ il caso di Alex Brady, “appassionato di fantascienza da venticinque anni”, che da cinque anni si dedica alla “concept art” per l’industria dello spettacolo (un esempio di “concept art” è la spada laser di “Guerre stellari”) mentre continua il lavoro grafico per grandi gruppi come JaguarLandrover. Il lobbismo è l’attività principale di Jamie Metzl che ora si divide tra le strategie del gruppo biotecnologico Orig3n e l’Atlantic Council; commentatore per pubblicazioni come il quotidiano New York Times e il bimestrale di politica internazionale Foreign Affairs, Metzl ha scritto una storia del genocidio cambogiano premiata e di successo. August Cole è autore e analista specializzato nelle questioni della sicurezza nazionale che, tra l’altro, ha firmato per il Wall Street Journal. Asley Henley insegna da tredici anni in una scuola pubblica, dopo aver preso parte, con il marito, all’operazione Iraqi Freedom ed essere stata eletta nelle fila del Partito repubblicano alla Camera dei rappresentanti del Mississippi.

 

Non tutti gli interventi raccolti in “War Stories from the Future”, a parere di chi scrive, rispondono adeguatamente alle sollecitazioni del progetto e si inseriscono nella cornice di Dempsey. Alcune trame sono piatte, non certo all’altezza delle domande cui dovrebbero rispondere. Forse è mancata una ferrea revisione editoriale in nome della totale libertà garantita agli autori. Accomunabili complessivamente, per il condensato di problemi, incognite, paure (di cui sopra), ai telefilm di “Ai confini della realtà”, questi interventi non altrettanto riescono a prendere il lettore alla gola. Le eccezioni, però, non mancano.

 

Grande attualità e facilità di scrittura emergono da “Coffee, Wi-Fi, and Moon. The Unknown Story of the Greatest Cyberwar of Them All”. Il racconto di Nikolas Katsimpras (che, dopo aver lasciato la Marina greca, si è dedicato allo studio dei Rapporti internazionali) si apre con l’uccisione di Vladimir Putin, un sogno ricorrente nell’America obamiana, non solo nella fantascienza. La morte è arrivata in rete: hacker hanno sabotato il suo pacemaker, che veniva controllato via Internet dal cardiologo di fiducia del presidente russo. La morte di Putin innesca una crisi globale. Senza mezzi termini, Mosca accusa Washington di avere ordinato l’omicidio per evitare che la Russia cominciasse a sfruttare gli enormi giacimenti di elio-3 scoperti sulla luna e necessari all’industria nucleare.  Non si spara un colpo, beninteso, ma la cyberwar può avere effetti nefasti. Le più grandi città americane, russe, europee finiscono al buio e al freddo. Treni e metropolitane, aerei e navi sono fermi. E nei giornali tornano a ticchettare le Olivetti Lettera 32, al lume di candela (come poi si possano attivare le rotative, Katsimpras non lo dettaglia). L’autore ha letto, evidentemente, Rex Stout. E resuscita “The New York Gazette”, lo stesso nome del primo quotidiano pubblicato sul suolo nordamericano nel 1725, che nei romanzi con Nero Wolfe protagonista era il principale quotidiano di New York, firma di punta Lon Cohen. Proprio i reporter della “Gazzette” scopriranno che dietro l’omicidio di Putin e la devastante cyberwar che si è scatenata è probabile lo zampino della Cina.

 

A proposito di Cina, a gamba tesa sembra entrare nell’attualità “Article I, Section, Clause 11” alla luce della vittoria, nelle elezioni politiche tenute a Taiwan pochi giorni fa, della indipendentista Tsai Ing-wen. Nel racconto di Ken Liu (scrittrioce e traduttrice di narrativa fantastica che vive a Boston, dove ha studiato legge e fa la programmatrice elettronica), il senatore americano John J. Andersen è deciso a candidarsi alle elezioni presidenziali. Per anni è stato consigliere del presidente sulla politica estera e, per cominciare nel migliore dei modi la campagna elettorale, cerca il “colpo grosso” che possa indebolire i nemici principali, a suo modo di vedere, degli Stati Uniti: Cina e Russia. Ma senza scatenare violenza. Basandosi sull’articolo I, sezione 8, clausola 11 della Costituzione, che autorizza l’utilizzo di privati per la tutela dell’interesse nazionale, Andersen fa approvare una legge che depenalizza l’attività degli hacker contro i sistemi informatici di Cina e Russia e li autorizza anche a sottrarre telematicamente le ricchezze dei magnati dei due Paesi e dei loro magnati. Insomma, li trasforma in una sorta di Francis Drake, il pirata preferito della regina Elisabetta d’Inghilterra (la prima), che lo fece anche Sir. Grazie alla nuova legge, un hacker amico del nipote di Andersen accumula una fortuna che utilizza per sostenere la candidata indipendentista Soong Ming-chih nelle elezioni alla presidenza di Taiwan. Le vince ma le conseguenze sono disastrose. Proprio quella tensione che Andersen voleva evitare ricorrendo alla cyberwar comincia a salire, la guerra tra Cina e Taiwan ad avvicinarsi e così il coinvolgimento dell’America nel conflitto.

 

[**Video_box_2**]In “Codename: Delphi”, Linda Nagata, premiata scrittrice di fantascienza,  esplora le conseguenze della “dronizzazione” della guerra e soprattutto del comando a distanza. Karin Larsen lavora dalla sua postazione urbana come “handler” non solo degli apparecchi a pilotaggio remoto mirati a rendere più sicuro il campo di battaglia ma anche degli uomini che, nello stesso campo di battaglia si muovono e dai droni ricevono protezione. Correttamente, Larsen si sente responsabile delle loro vite, anche se è consapevole che l’uomo non è un drone e può sempre agire al di fuori delle regole e dei regolamenti. Ma è costretta a ripetersi “questo lavoro non è un videogioco”, perché il rischio contrario esiste. Tanto è vero che, per un’emergenza del genere, per fortuna non capitata a lei, le affidano un quarto “cliente”.

 

Una guerra di tipo diverso dal consueto è tratteggiata da David Brin, scienziato, astronomo e ideatore di tecnologie. E’ la guerra al bracconaggio, una delle tante forme di finanziamento di gruppi ribelli e/o terroristici attivi tra l’Africa, l’Asia e l’Oceania, in combutta con le organizzazioni criminali mondiali e con i colletti bianchi cui si relazionano per ogni genere di traffico. Il soldato Roland è uno dei più esperti nemici dei bracconieri nel Dipartimento di ecologia delle Forze armate, conosce la filiera e chi ne tira le fila. Tiene nel mirino, soprattutto, il più potente di loro: Chang. E proprio Chang riesce a ucciderlo. Il soldato Roland muore tra le braccia di una ufficiale del suo Dipartimento. Alla quale confida, in punto di morte, che di eroi ci sarà sempre bisogno, anche quando finiranno le guerre. A differenza di Bertolt Brecht, che invidiava “i paesi che non hanno bisogno di eroi”, sono gli eroi a rappresentare e a cementare il bene nella eterna lotta contro il male.